Magistratura democratica
Magistratura e società

"Mare fuori": pregi e limiti di una fiction da record

di Ennio Tomaselli
magistrato in pensione, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Torino

La recensione alla terza stagione della fiction in onda su RaiDue

Avevo recensito già al suo primo apparire Mare fuori, la fiction, ambientata in un carcere minorile, la cui terza serie, sia su Rai 2 che su Rai Play, ha raccolto larghi consensi da parte del pubblico e dei commentatori. Non sono mancate, peraltro, voci critiche[1]. Scrivendo a proposito della prima serie, mi ero espresso nel senso che Mare fuori era certo «televisivamente parlando, un buon prodotto, abilmente confezionato», ma avevo anche segnalato il rischio di messaggi distorti e confusivi, sottolineando l’importanza che la fiction maneggiasse con attenzione certe materie «per evitare che lo spettatore o il lettore ricevano rappresentazioni confusive e siano spinti a far coincidere con esse realtà assai più complesse e sfaccettate, se non proprio diverse». La seconda serie aveva mantenuto le caratteristiche di fondo di un prodotto già forte del successo di pubblico e la terza le ha consolidate ulteriormente, con gli esiti di cui sopra. Per quanto i più sottolineino il coraggio e l’abilità di sceneggiatori e registi nel far emergere realtà drammatiche, mi sembra che vi sia tuttora motivo (anche) per alcune considerazioni in chiave problematica e critica, Occorre, comunque, prendere le mosse dai contenuti obiettivi e dalle caratteristiche di fondo di Mare fuori.

Questa terza serie è suddivisa in dodici episodi, con titoli che una volta si sarebbero detti, con tutto il rispetto per il genere, da sceneggiata (Il richiamo del sangue, L’amore che salva, L’amore non esiste, L’età dell’innocenza, Per nascere bisogna morire: solo per citarne alcuni) e con contenuti, esaltati da una colonna sonora azzeccatissima, che indubbiamente sono costruiti molto bene, per lo più ben interpretati e, in definitiva, trascinanti. Si tratta delle storie, di intensa drammaticità, di ragazzi e ragazze che, a Napoli o provenendo da altrove, finiscono nel carcere minorile partenopeo (da qui: ipm) per il coinvolgimento, di solito, in fatti di sangue più o meno gravi e, prima, in storie, di famiglia e di strada, per lo più all’insegna del degrado e della violenza. Appartenenza a famiglie camorristiche antagoniste, vendette, amori possibili e impossibili ma anche storie di amicizie e possibile riscatto si mescolano efficacemente, anche per il gioco degli intrecci e dei flash back. Un mix che coinvolge in pieno anche le principali figure istituzionali dell’istituto: la direttrice (che si lega affettivamente al comandante della polizia penitenziaria, si fa affidare la figlioletta di un detenuto, la tiene nel suo ufficio…), l’appena menzionato comandante (di cui si dirà meglio più avanti), un educatore che si scopre padre di una detenuta, una agente che nasconde a casa sua un ragazzo…

Comprensibile che il gioco della fiction, sapientemente orchestrato, finisca per prendere più o meno tutti (compreso chi scrive), anche per un finale che tale non è, essendo aperto a sviluppi che formeranno certamente oggetto di ulteriori episodi. Il che, ovviamente, non è un male. Le serie sono ormai un prodotto di prim’ordine e non solo sul piano degli ascolti e dei proventi. Sceneggiatori e registi sono ben contenti di avere più spazio, in contenitori ben più ampi di un classico film, per caratterizzare in modo più approfondito e sempre più coinvolgente ambienti, personaggi e storie che hanno già fatto breccia nell’animo e nelle emozioni degli spettatori.

Qual è il problema, allora? Per rispondere comincio segnalando che qualche voce critica, che ho colto anche personalmente, è giunta dall’ambito di chi nel carcere minorile, e con il carcere, ci opera davvero; il che mi sembra significativo e da non trascurare o, comunque, sottovalutare[2].

Osservo poi, avendo presente l’intero sviluppo, finora, di Mare fuori, che l’immagine del carcere minorile, una sorta di super protagonista, ne esce alquanto, spesso fortemente, deformata agli occhi dello spettatore, ragazzo o adulto che sia (all’inizio di ogni episodio viene raccomandata la presenza di un adulto accanto a chi è ancora minorenne, ma è intuibile cosa possa capitare in pratica). Il rischio maggiore è che il carcere finisca per apparire in qualche modo una sorta di palestra di vita, un luogo in cui, per tutte le prove di coraggio e “ardimento” che vi vanno sostenute per sopravvivere, quasi “occorra” passare per diventare, da ragazzi/e, “veri” uomini e donne in grado di non sottostare ad alcuno. Mentre esso è, invece, un luogo di una durezza diversa e assai meno “colorita”, dove si deve fare i conti anche con la solitudine e ci sono regole da rispettare sul serio. Entrarci non può essere vissuto come una sfida, un’occasione per emergere e diventare, se non già dei boss, più fighi. Contro questo rischio, reale, si combatte tenacemente, nonostante la penuria di “uomini e mezzi”, con programmi di recupero personalizzati, a cui ciascun giovane è chiamato a partecipare attivamente per essere aiutato a costruirsi un’alternativa, con il sostegno e l’empatia di operatori che sanno ciò che davvero significa “sporcarsi le mani” con i ragazzi. Una cosa ben lontana dal ricorrere agli espedienti e dall’infilarsi negli inghippi di cui la fiction è piena fino a un robusto e palese eccesso. Tale anche per una fiction se questa, comunque, ambisce ad affrontare certe realtà (già nel 2020, all’esordio della serie, si diceva in qualche intervista che l’intento era quello di porre in risalto una realtà cha la società tende a dimenticare).

In Mare fuori mancano, per concludere su questo tema, pressoché tutti quegli agganci positivi con l’esterno indispensabili perché i progetti possano concretizzarsi sul loro terreno naturale, che è quello della vita fuori dal carcere: operatori che accompagnino i ragazzi almeno nelle loro prime uscite, che seguano effettivamente le messe alla prova, che creino il contatto fra il ragazzo e la risorsa individuata sul territorio, ecc… Certo che nella realtà non tutto ciò, purtroppo, funziona e che una fiction, dal canto suo, ha contenuti e fini diversi rispetto a un documentario o programma d’inchiesta (né Mare fuori è una docu-fiction). Ma si vuole dire, in sostanza, che la complicata scommessa di fare presa sul pubblico con una narrazione di fantasia (qui filmica, altrove letteraria) agganciata a un piano di realtà in qualche modo definito[3] avrebbe potuto essere giocata con meno “effetti speciali” sul piano tragico/sentimentale (con il succedersi degli episodi, le scene madri, di solito imperniate sul più classico dei binomi, amore/morte, si susseguono con una frequenza che diventa martellante) e non per questo con minore efficacia, anche per quanto si dirà in seguito circa l’extra moenia, il fuori carcere.

Detto ciò, occorre dedicare adeguata attenzione anche ad altri aspetti, non secondari. Anzitutto: è ben vero che il condannato non è il suo reato e che in carcere, tanto più se minorile, bisogna guardare soprattutto avanti, in funzione della costruzione di una personalità più solida in positivo e di un futuro diverso. Ma per dei ragazzi, che spesso hanno esigenze non solo rieducative ma più radicalmente educative, quello della rielaborazione degli agiti delittuosi, e più in generale dei vissuti precedenti all’ingresso in carcere, è un discorso serissimo, che non può essere eluso o dato per risolto o risolvibile grazie alle relazioni amicali e sentimentali nonché alla dedizione di qualche figura istituzionale. Si tratta di un lavoro complesso e di rete, che richiede una pluralità di apporti anche specialistici (ad es. psicologici) e non può passare solo attraverso il carcere e l’operato di pochissimi che nella fiction, invece, si occupano di tutto. Anche, talvolta, di indagini di competenza della magistratura e della polizia giudiziaria o di un incontro tra un ragazzo fresco reo confesso di un omicidio e i genitori della vittima.

In carcere, del resto, un ragazzo dovrebbe, secondo la normativa nazionale e le convenzioni internazionali, entrare il meno possibile, costituendo esso, come e più che per gli adulti, una extrema ratio, a cui ricorrere solo in difetto di alternative, quale ad es. la sospensione del processo con messa alla prova, prima e in luogo dell’eventuale condanna. In Mare fuori, invece, il carcere sembra la conseguenza naturale e inevitabile del reato, una “dimensione” e una condizione in cui si entra come se la famigerata chiave fosse stata, se non proprio gettata, lasciata nelle mani di gente senza volto, con l’unica intermediazione dell’autorità carceraria. La messa in prova (così nella fiction) può, talvolta, arrivare, ma come da Marte, tanto è siderale la distanza dei ragazzi rispetto alle procedure giudiziarie di cui pure sono i protagonisti, le persone più importanti. I giudici restano gente che sembra non averli mai guardati in faccia né, comunque, li guarderà perché per questi fantomatici giudici basta e avanza qualche riga inviata dalla Direzione dell’ipm o qualche istanza o eccezione avvocatesca (anche se l’avvocato che appare nella fiction è solo un giovanotto rampante decisamente più a suo agio con la camorra, con cui infatti è colluso, che con i codici).

Nel carcere, comunque, un ragazzo dovrebbe restare il meno possibile, sia quale sottoposto a misure cautelari (la cui durata è, per questo, dimezzata o, per chi ha meno di 16 anni, ridotta di 2/3 rispetto a quanto previsto per gli adulti) che quale “definitivo”, e in un regime detentivo ben diverso da quanto rappresentato in Mare fuori: un miscuglio fra un luogo dove le violenze e le intimidazioni grandi e piccole, per lo più a sfondo camorristico, sono continue (mentre chi dovrebbe sorvegliare è costantemente altrove o impotente) e, all’opposto, un luogo di socialità spinta all’estremo e di irreale promiscuità fra ragazzi e ragazze. Magistrati e tribunali di sorveglianza, così come le misure alternative alla detenzione (che nella realtà sono snodi cruciali, supportati da progetti spesso complessi e comunque non improvvisati, a cui i ragazzi sono direttamente interessati), sembrano appartenere ad altri mondi. Al pari di un ordinamento penitenziario specifico per chi è sottoposto ad esecuzione di pena in ambito minorile, che invece esiste (D.L. vo 2 ottobre 2018, n.121).

La realtà, soprattutto in istituti sovraffollati e con problemi di personale, può essere, lo sappiamo bene, diversa rispetta al dover essere proprio delle norme; e infatti problemi, nella realtà, non mancano di certo, come evidenziato anche dall’evasione dall’ipm Beccaria di Milano a Natale del 2022. Ma quello rappresentato in Mare fuori è un mondo ancora e molto diverso, che forse ha più a che fare con le esigenze sceniche e di “presa” sul pubblico (anche per protrarre una serie di successo fin dall’inizio) che con l’intento di rendere visibili per il grande pubblico il mondo del carcere minorile e le storie di chi ci finisce. Nei commenti tale intento è stato per lo più ravvisato e taluno ha anzi parlato di Mare fuori come molto di più di una fiction sul carcere: «un racconto del carcere attraverso la sua umanità»[4]. Giudizio a fronte del quale va peraltro sottolineata l’importanza, poiché questo è davvero il punto cruciale, che tale umanità venga esplorata genuinamente e senza forzature, quantomeno eccessive.

Sottolineato altresì che oggetto delle riserve di chi scrive non è la difformità, naturale, tra la realtà e la rappresentazione di essa proposta da una fiction, ma sono le immagini e i messaggi che connotano specificamente Mare fuori, il discorso può ormai concentrarsi su alcuni punti che ritengo utili per una conclusione equilibrata.

1) Discutere su Mare fuori non è ozioso, quali che siano posizioni e collocazioni degli interlocutori. Ciò per quanto già detto e perché si tratta di una produzione di grosso impatto, programmata per serie ulteriori e molto considerata sia dal pubblico che dai commentatori. Segnalare chiavi di lettura variegate non può che giovare a una considerazione più approfondita del “caso” Mare fuori e formulare delle riserve non vuol dire necessariamente stroncare (e, quanto a me, non vuol dire affatto).

2) Raccontare il carcere attraverso la sua umanità, secondo la suggestiva chiave di lettura già citata, è cosa bella e utile, ma a patto di non tirare troppo la corda, di non forzare con un’insistenza eccessiva sul piano degli intrecci, degli intrighi, delle immagini e delle emozioni tanto forti da scadere nell’inverosimile e nel cruento a ogni piè sospinto. La fiction, così, può anche funzionare benissimo, come in effetti funziona perfettamente Mare fuori, forse proprio perché finisce per discostarsi dalla realtà e ricrearla a modo suo. Ma allora, se la corda si è usurata o rotta, bisogna, oltre che applaudire la fiction, avere chiaro che la realtà è diversa. Non “eroica” e da standing ovation, tributate nella fiction stessa, come le gesta della direttrice e del comandante; ma da apprezzare per quanto uomini e donne realmente “delle istituzioni” (fra cui varie e bravissime direttrici di carcere) riescono a fare pur nel grigio e nella complessità della quotidianità, che spesso costringe anche a sdoppiamenti fra più istituti.

3) Molte cose apprezzabili in Mare fuori non riguardano tanto ciò che avviene all’interno del carcere. Al di là, come è stato detto, delle «relazioni che nutrono» e di quel nutrimento che è fatto di «amore, amicizia, accoglienza[5]», non va trascurato che si tratta di relazioni ragazzi-ragazze-adulti all’interno di un carcere isolato come una fortezza sul mare (ma dove boss della camorra avvicinano i ragazzi in mezzo al cortile e se li “rigirano” come vogliono) e paradossalmente lontano dalla giustizia. Nel senso di strutture giudiziarie e di persone che svolgono funzioni giudiziarie[6] ma anche, e perfino, di “idea”. Le scelte che contano hanno, nella fiction, poco a che fare con essa sia in astratto che in concreto, a parte l’episodio “riparativo” dell’incontro fra ragazzo omicida e genitori della vittima, non dei più convincenti per quanto già detto. Si tratta di scelte, in vario senso, che ragazzi e ragazze compiono sulla base di emozioni e legami fra di loro, con le loro famiglie o ciò che ne resta e del confronto con le pochissime figure significative del mondo delle istituzioni. Oltre alla già citata direttrice dell’istituto (peraltro vittima di un colpo di mano da parte di una poliziotta che, infiltratasi sotto mentite spoglie, si mette a dirigere con il pugno duro l’ipm…), soprattutto l’incrollabile comandante della polizia penitenziaria. Questi è onnipresente sia fisicamente che emotivamente («Il comandante è comandante sempre, anche quando siete fuori») ed è, in sostanza, un eroe votato alla salvezza dei ragazzi («anche uno solo») ed emblema di quel carcere “palestra di vita” che è, nei fatti, un messaggio (certo non l’unico, ma piuttosto discutibile) che sembra scaturire da Mare fuori, quali che siano state le intenzioni di chi lo ha ideato, prodotto e girato. Ciò mentre il futuro del carcere minorile dovrebbe essere, all’opposto, nel senso di strutture più piccole, meglio gestibili e dove chi è ristretto sia meno esposto a dinamiche carcerarie negative e peggiorative.

4) Le parti migliori, non poche, a me sono parse, in questa serie come nelle precedenti, quelle in cui i personaggi ˗ ragazzi, ragazze, ma anche adulti ˗ si muovono su un territorio, fisico, psicologico e affettivo, più ampio: la città, i congiunti, gli amici e gli avversari, la bellezza del mare e di certi scorci urbani, ma anche la casualità spesso crudele degli incontri e degli scontri, la frequenza e quasi fatalità di occasioni per la commissione di reati. Compiuti non di rado al di là delle intenzioni e dell’effettiva personalità “deviante” di giovani che solo in qualche caso hanno compiuto una scelta criminale effettiva ed autonoma. Cito esemplificativamente le storie “pregresse” di “Dobermann” (ragazzo africano orfano della madre, affogata in mare, e sfruttato), di Milos, che si assume la responsabilità di un omicidio non commesso («me la cavo con poco»), del cantante “Cardiotrap” e della trapper Giulia. Ed è sul territorio, al di fuori delle mura carcerarie, che possono effettivamente realizzarsi e consolidarsi, al di là degli abbracci all’uscita dalla “fortezza”, storie di autentico riscatto.

Per concludere: spero che fra i moltissimi fans di Mare fuori vi siano tanti giovani che sappiano farsi coinvolgere dalla fiction non in modo acritico e anche adulti capaci di discutere con loro in funzione di una migliore comprensione reciproca, in rapporto sia a questa serie così ricca e articolata che alla realtà della giustizia, del carcere e della vita.


 
[1] La mia recensione fu pubblicata da Minorigiustizia nel n. 4/2020 (sezione online Commenti, notizie e letture), con il titolo Un carcere minorile senza giustizia e con poca speranza. Almeno nella fiction. Fra i commenti alla terza serie si segnala per ampiezza di analisi e prospettive quello di Donatella Stasio, apparso su La Stampa del 26.2.2023.

[2] Fa cenno ad alcune di tali critiche D. Stasio nell’articolo già citato («…non si vedono psicologi né insegnanti, tutto è troppo pulito, quando mai ragazze e ragazzi stanno tanto tempo insieme, e manca questo e manca quello…»).

[3] Una scommessa in cui è implicato anche l’autore di questa recensione, con tre romanzi (“minorili”, ma non solo) scritti negli ultimi anni.

[4] Così D. Stasio nel già citato articolo su La Stampa.

[5] Così, ancora, D. Stasio, loc.ult.cit.

[6] Per inciso: dei Consigli di disciplina operanti negli ipm fa parte (v. art. 23-co2-DLvo n.121/2018) anche un magistrato onorario del tribunale minorile.

18/03/2023
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