Magistratura democratica
Magistratura e società

Lo sport contaminato

di Donatella Salari , Paolo Spaziani
Giudici dell'Ufficio del Massimario della Corte di cassazione
Lo sport contaminato

“…poiché tutti viviamo di stelle spente

Cristina Campo, da La tigre assenza

E’ accaduto.

Le indagini dell’Fbi irrompono nello sport. Il re Mida ha contaminato tutto. La regola sportiva si è irrigidita nell’oro, si è pietrificata.

Lo sguardo della corruzione e degli scambi di denaro ci ha trasformati in statue inespressive.

La competizione come puro gioco, la capacità di contribuire con entusiasmo e passione ad un risultato collettivo dove tutti si riconoscono in una regola sola, tutto si scolora e diventa tristezza quasi metafisica.

Le regole sono spazzate via dall’energia spietata della corruzione esattamente come sta avvenendo nella giurisdizione e nella tutela dei diritti.

E’come nel crollo delle Torri Gemelle, la storia diventa una sequenza di traumi quasi inimmaginabili, eppure crudelmente veri che si sottraggono ad ogni spiegazione razionale.

Il racconto dello sport e del suo fluire in un disegno o, forse, in un sogno estetico, evapora perché denaro ed illegalità, corruzione e disprezzo non solo delle regole, ma anche delle pulsioni e passioni del gioco, ci schiacciano sul presente e ci rendono indecifrabile il futuro perché l’estetica dello sport, come quella dei diritti, ci è stata sottratta e, con essa, la bellezza e la perfezione anche di un solo gesto, di un goal, di un uppercut.

Come reagire a chi ha mercificato anche le nostre passioni?

Un po’ con la sprezzatura, che presuppone cultura e ironia, studio ed attenzione nel discorso pubblico sulle regole, ma molto con il mito che è onniveggente e, per questo, immortale quando spezza il tempo fragile e deperibile dell’oggi, dove anche la storia è diventata diafana e inafferrabile, come un vuoto di senso.

Come ci dice Italo Calvino ne “Le lezioni americane” solo Perseo è sopravvissuto alla Medusa ed al suo tragico sguardo pietrificatore, le ha tagliato la testa guardandola nello specchio, ossia l’ha pensata e annichilita con la forza del ragionamento, dello spirito e della leggerezza.

È sopraggiunto l’eroe, agile e veloce come il pensiero consacrandosi all’immortalità del ricordo e del mito, con i calzari ai piedi.

Anche Kairòs ha i piedi alati.

È un giovane di grande fascino, con un ciuffo mosso dal vento sulla fronte, ha la nuca calva. Rappresenta "un tempo nel mezzo", ossia un segmento mediano tra tempo e azione, ma anche un tempo indeterminato nel quale "qualcosa" di speciale accade.

È l’attimo fuggente della bellezza che deve essere afferrata come il ciuffo di capelli del giovane alato, come il gesto sportivo che ci appassiona e rivive nel ricordo collettivo.

Quel momento di perfezione si sottrae a Kronos, ossia al tempo della clessidra, per definizione transeunte e perituro, perché il destino prepara quel momento speciale del Kairos e ci scaglia nella discontinuità verso il tempo quasi divino - per definizione inafferrabile – che va compreso e vissuto come irripetibile nel nostro destino.

Ognuno ha, perciò, la sua ora perfetta.

Anche nello sport, momenti inafferrabili, ma non per questo meno reali e miracolosi sono stati e dovranno essere vissuti, perché se ci abbandoniamo al Kairos cercando di comprenderlo e afferrarlo, anche un pugno può divenire una forma d’arte, ossia mezzo di sublimazione dell'umano e riscatto verso chi vuole sottrarci la narrazione del gesto e della sua epopea.

Il ricordo fa rivivere il Kairos del gesto sportivo perfetto, rivitalizza la memoria di che cosa esso rappresenta nell’equilibrio delle regole e del confronto leale e ci rende consapevoli di che cosa il denaro e la torsione verso l’accumulazione, nel nostro presente, ha contaminato mandando in necrosi la vita vera.

La rievocazione apre un varco intellettuale nel deserto che avanza, crea un alfabeto futuro per chi voglia sottrarsi all’ingiustizia del linguaggio rancido della corruzione e dell’illegalità che uccide lo sport e la sua passionalità. Il Kairos è nella sequenza perfetta del gesto sportivo.

Questo è uno di quei ricordi all'indomani dei 40 anni dall’incontro di pugilato tra Muhammad Alì e George Foreman, disputato il 30 ottobre 1974, allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa.

 

"The rumble in the jungle"

di Paolo Spaziani

 

Uno stadio immenso, gremito di persone festanti.

Il fragore assordante avvolto da un buio nero quasi provenisse dalla parte più intima della foresta, dalla zona più nera dell’Africa.

In mezzo al campo di calcio un piccolo puntino illuminato: il ring, irraggiungibile, oasi luminosa nel deserto oscuro.

Un assembramento in uno degli angoli del campo: uomini che corrono; tra essi George Foreman l’uomo più forte del mondo.

L’altezzosa tracotanza di Foreman che corre sul ring manifestando il proprio disprezzo.

Lo stesso che aveva ostentato al suo arrivo passeggiando col cane degli aguzzini.

Molto dopo, come vomitata dall’oltretomba, la figura, maestosa e struggente - ma inverosimilmente fragile al cospetto del rivale - di Muhammad Alì.

Il suo percorso verso il ring, silenzioso, pur nel fragore assordante, come una preghiera.

Con lui l’intera umanità di quella terra ferita; con il campione, nero solo per avventura, nessuno.

Sette round incomprensibili.

Il campione picchia ma è come se non lo facesse: il finito non può circoscrivere l’infinito; la mediocrità non può sostituire il sublime; la bellezza non può essere offuscata da un accidente.

Il sublime si manifesta all’ottavo round: primo diretto al viso; uppercut alla base del mento; secondo diretto al viso.

Il campione non c'è più.

A Kinshasa, nella giungla, sulla terra intera, esiste solo ALÌ.

 

 

20/06/2015
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