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La riforma del lavoro sportivo e la previdenza dei lavoratori dilettanti tra incertezze giurisprudenziali e nuove garanzie normative

di Roberto Riverso
consigliere della Corte di cassazione

Nel quadro della tanto attesa riforma del lavoro sportivo di cui al d.lgs. 36/2021 (come modificato dal correttivo d.lgs. 163/22), che intende superare le attuali discriminazioni e le clamorose carenze di tutela, e la cui entrata in vigore è prevista per l’1.7.2023, il presente saggio analizza la recente giurisprudenza della Cassazione, le 37 sentenze emesse tra il 2021-2022 in materia di contributi previdenziali per i lavoratori sportivi dilettantistici, mettendone in evidenza criticità logiche e sul piano del principio di legalità. 

Premessa 

La riforma del lavoro sportivo attuata con il d.lgs. n. 36/2021 (ed il suo correttivo d.lgs. n. 163/2022), sulla scorta della legge delega n. 86 del 2019, si pone l’obiettivo di produrre una svolta epocale in una delle materie più rilevanti dal punto di vista sociale del nostro Paese. Lo sport è in Italia un sistema formato da 115 mila associazioni e società sportive, quasi 12 milioni di tesserati, di cui 730 mila dirigenti, 490 mila tecnici e 101 mila arbitri e giudici di gara e da oltre 20 milioni di praticanti; sono almeno 420 mila quelli che vengono considerati lavoratori sportivi in senso stretto.[1] 

La nuova normativa vuole lasciarsi alle spalle una condizione di grande incertezza per la mancanza di disposizioni di legge chiare e adeguate rispetto alla complessità del fenomeno costituito dal lavoro sportivo; ed intende costruire finalmente un terreno giuridico più solido dando luogo, come dice l’art. 3 lett. h) del d.lgs. n. 36/2021, ad una disciplina organica del rapporto di lavoro sportivo, a tutela della dignità dei lavoratori e rispettosa della specificità dello sport. 

La regolamentazione precedente[2] si riteneva fosse nelle mani delle federazioni sportive nazionali che, alla luce dell’art. 2 della legge n. 91/1981, potevano stabilire chi era un lavoratore tutelato ed a chi attribuire la agognata qualificazione di lavoratore sportivo professionistico prevista dalla norma. Questa soluzione adottata dal legislatore aveva suscitato notevoli perplessità avendo escluso dal suo ambito di applicazione tutti i casi di “professionismo di fatto”, e cioè quegli atleti che erano inquadrati come dilettanti unicamente perché la Federazione di appartenenza non aveva provveduto a distinguere tra dilettanti e professionisti, pur svolgendo costoro attività sportiva a titolo oneroso e continuativo da cui traevano l’unica, o comunque la preponderante, fonte di reddito. Di fronte a situazioni di fatto sostanzialmente identiche l’elemento discretivo costituito dal provvedimento formale della qualificazione da parte della Federazione finiva con il determinare l’applicazione di diverse regolamentazioni giuridiche, senza reale giustificazione. 

Il dilettante veniva considerato in sostanza alla stregua di colui che svolge attività sportiva per il solo piacere di farlo. Ed una simile impostazione era foriera di carenze di tutela ed ingiustificate disparità di trattamento tra i diversi atleti e non solo. Ed aveva di fatto creato una zona grigia di lavoratori, situati tra professionisti e dilettanti, che esercitavano l'attività sportiva in modo professionale e venivano però qualificati comunque dilettanti e privati delle tutele del professionismo ufficiale.

In particolare, esisteva una chiara discriminazione dei dilettanti quanto alle tutele previdenziali ed assistenziali; anche per effetto dell’intreccio che si riteneva esistente tra normativa previdenziale e normativa fiscale. Ed erano notissime le discriminazioni perpetrate ai danni delle atlete donne dal momento che le federazioni sportive si erano limitate a dichiarare quale fosse l'area del professionismo e quella del dilettantismo, senza mai fissare un criterio distintivo che non fosse solo di tipo formale per individuare invece le diverse figure di lavoratore sportivo.

Si assisteva così all'esercizio di attività sportive dilettantistiche che però di dilettantistico non avevano nulla in quanto erano connotati dai due requisiti della remunerazione e della continuità delle prestazioni, mancando soltanto del requisito formale del riconoscimento come lavoratori sportivi a tutti gli effetti.

La legge n. 91 del 1981 ispirata alla concezione secondo cui i lavoratori fossero solo i professionisti e che nei dilettanti prevalesse la causa ludica, l’attività svolta per “giocare”, ha omesso di disciplinare la parte preponderante del lavoro sportivo ed era finita ben presto con l'entrare in rotta di collisione con la diversa e sempre più incombente realtà dei fatti[3]

 

Il nuovo lavoro sportivo e la sua disciplina speciale 

Il caos normativo, le carenze di disciplina, le discriminazioni di genere e non solo, hanno determinato una situazione intollerabile e la necessità di un cambiamento radicale. Si è arrivati perciò alla legge delega n. 86 del 2019, la quale, tra i tanti scopi, si poneva anche quello del riordino delle norme di settore, per migliorare la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo, anche con la possibilità di adottare un testo unico delle disposizioni in materia di sport. 

La riforma del lavoro sportivo, per come impostata dalla legge delega n. 86/ 2019, doveva rispettare alcuni solidi principi e criteri direttivi di elevato spessore, tra i quali vanno ricordati l'osservanza dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione nel lavoro sportivo, sia nel settore dilettantistico sia nel settore professionistico; la necessità di individuare la figura del lavoratore sportivo, senza alcuna distinzione di genere, indipendentemente dalla natura dilettantistica o professionistica dell’attività sportiva svolta; la definizione della relativa disciplina in materia assicurativa, previdenziale e fiscale e delle regole di gestione del relativo fondo di previdenza.

Escluso chi pratica lo sport come volontario, la cui attività non potrà essere oggetto di un contratto di lavoro, la riforma ha esteso al mondo sportivo le varie tipologie contrattualistiche esistenti nel diritto del lavoro: il lavoro dipendente, il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e continuative, la figura dell'apprendista. Manca una esplicita disciplina il lavoro eterorganizzato (su cui quindi continua ad operare l’esclusione prevista all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015) e manca il lavoro occasionale (che però dovrebbe rientrare nel genus del lavoro autonomo previsto all’art 25): entrambi i riferimenti erano invece contenuti nella prima versione del d.lgs. 36/2021 e sono stati eliminati dal correttivo d.lgs. n. 163/2022. 

Il lavoro occasionale entro i 5000 € è la parte meno lineare della riforma. E rimette all’interprete il compito arduo di individuare qualificazione e disciplina del rapporto. Le conseguenze non sono di poco conto: ad esempio questi compensi sono o meno soggetti all’assicurazione Inail, come quelli percepiti dai co.co.co? Sono soggetti a comunicazione preventiva agli enti previdenziali ed ai centri per l’impiego? 

C’è quindi necessità di una regolamentazione esplicita di questa categoria di lavoratori che, va ricordato, riguarda l’82 per cento di chi lavora nel mondo dello sport. Occorrerebbe quanto meno una circolare del Ministero del lavoro che risponda a questi quesiti prima dell’1.7.2023. Ed in questo scritto si tenterà anche una collocazione sistematica di questa figura maggioritaria di lavoratori sportivi.

Al lavoro sportivo si contrappone nel d.lgs. n. 36/2021 il lavoro del volontario che non è considerato lavoro sportivo obbligatorio bensì prestazione amatoriale e gratuita. Per le attività del volontariato sportivo è prevista solo la corresponsione di rimborsi spese (analitici e premi di risultato) o dei piccoli rimborsi forfettari (fino a cinquemila euro annui) per le quali il d.lgs. non introduce vincoli o formalità (diciamo che rientrerebbero in questa realtà le figure sportive più affini ai contenuti della riforma del terzo settore). Anche sul lavoro del volontario sarebbe opportuno chiarire esplicitamente il rapporto che passa con il tesseramento, ed occorre costruire una relazione meno precaria sul piano giuridico, attribuendo maggiore rilevanza al tesseramento sportivo ed all’adesione all’associazione ai fini di individuare la causa della prestazione amatoriale. La norma (art. 29 d.lgs. n. 36/2021) seppure intitolata come prestazioni sportive (e non parla mai di attività sportiva del volontario ma di attività utile a «promuovere lo sport») aggiunge di seguito che è tale anche ogni attività comprensiva dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti e quindi in nulla finisce per distinguersi sul piano oggettivo dall’attività sportiva. I volontari possono essere ovviamente anche atleti sportivi veri e propri; lavoratori quindi che tuttavia prestano le loro attività senza fini di lucro in modo spontaneo, gratuito, esclusivamente per puro divertimento. E nulla hanno di diverso rispetto agli altri dal punto di vista della prestazione. La differenza tra lavoro sportivo e lavoro del volontario non sta quindi nell’oggetto della prestazione (l’attività sportiva), ma nella causa della prestazione (natura onerosa o gratuita) che in un caso è effettuata in vista di una controprestazione; nel secondo caso è fatto per finalità ideali (promuovere lo sport, con finalità amatoriali), personali, individuali, spontanee.

Per le figure non tipiz­zate dalla norma e non disciplinate dai regolamenti federali (si consideri la figura del massaggiatore e del medico sociale) si dovrà fare riferimento ai criteri ordinari del codice civile della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato di cui agli articoli 2222 e 2094, cod. civ. Ciò è espressamente stabilito dall’art 25 del d.lgs. n. 36/2021.

Non sparisce la differenza dei settori professionistico e dilettantistico. La disposizione dell’art. 38 offre un criterio sostanziale della differenza tra professionismo e dilettantismo sporti­vo. Il primo viene ritenuto quello svolto «con finalità lucrative» mentre il secondo è quello che viene svolto «con prevalente finalità altruistica». Che convive con una differenza formale: i contenuti delle definizioni di settore professionistico («il settore qualificato come professionistico dalla rispettiva Federazione sportiva nazionale o disciplina sportiva associata») o dilettantistico («il settore di una Federazione sportiva nazionale o disci­plina sportiva associata non qualificato come professionistico») portano ad affermare che la disciplina sul lavoro sportivo in esame trova applicazione solo nell’ambito di soggetti affiliati o tesserati da una Federazione o disciplina sportiva associata[4], come si desume anche dalla disciplina del tesseramento (art. 15). 

 

La nozione comune di lavoratore 

Quanto al lavoro subordinato sportivo l’art. 26 del d.lgs. n. 36/2021 detta una disciplina contrassegnata da marcati tratti di specialità (che valgono in generale quale che sia il settore sportivo in cui è reso) con l’esclusione di una serie di norme previste dalla disciplina generale del lavoro subordinato (in primis tutta la disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi). Nessuna specifica disciplina esiste invece nella disciplina per il lavoro autonomo. 

L’art. 25 del d.lgs. prevede invece la nozione di lavoratore sportivo (senza aggettivi); ed essa ha una sua modernità che merita di essere evidenziata perché detta una nozione comune di lavoratore (una nozione di stampo europeo), applicabile a tutte le tipologie di lavoro (ivi compreso quello autonomo) a cui affiancare regolamentazioni più specifiche per singole varietà contrattuali, in modo da indirizzare diritti, principi e garanzie alla tutela della persona che lavora, garantendo però a tutti uno statuto professionale ed una protezione che permane nel tempo, oltre le singole vicende lavorative che pure potrebbero variare nel corso del tempo. 

È una indicazione preziosa per tutto l’ordinamento in cui invece manca una nozione comune di lavoratore. Ed è una indicazione che sembra ispirarsi a quella esigenza della c.d. universalizzazione delle tutele, che a poco a poco cerca di farsi strada anche nel nostro paese aldilà della diversa tipologia del rapporto (si pensi a quanto avvenuto con il lavoro autonomo eterorganizzato a cui pure sono state estese le stesse norme e tutele del lavoro subordinato). 

Merita di essere evidenziato in tal senso come l’art. 25, comma 1bis, stabilisca che la disciplina del lavoro sportivo sia posta a tutela della dignità di tutti i lavoratori a prescindere della loro qualificazione come subordinati o autonomi; a cui riconosce inoltre la tutela antidiscriminatoria, l’uguaglianza, la tutela della privacy senza che rilevi quindi né la tipologia della fattispecie né le modalità del lavoro sportivo.

 Si tratta di un modello che si ispira al modello europeo di lavoro ma anche a quella maxi fattispecie contenuta nell’art 35 della nostra Costituzione il quale assegna alla Repubblica il ruolo di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; e quindi non soltanto del lavoro subordinato che ha rappresentato il riferimento pressoché esclusivo del diritto del lavoro del novecento[5]

 

Le questioni previdenziali 

Il regime previdenziale dei lavoratori sportivi dilettantistici tuttora in vigore, in attesa che entri in vigore, si spera, l’attesa riforma del lavoro sportivo - delineata con il d.lgs. n. 36/2023 ed il cui avvio previsto per l’1/1/2023 è stato poi prorogato al 1/7/2023 - sembra il regno dell’incertezza e delle discriminazioni, del mestiere e del diritto giudiziario; la fiera di giudici, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro; sia detto con il massimo rispetto per tutti ovviamente. 

Insomma, si potrebbe dire che il diritto dello sport, materia interdisciplinare per eccellenza, non abbia l'eguale in nessun'altra disciplina giuridica, quanto ad incertezza nelle nozioni fondanti, quanto a rapidità di evoluzione del contesto di riferimento, quanto a difficoltà di coordinamento tra le sue fonti eterogenee e spesso tra di loro contrastanti[6].

In mancanza di un chiaro quadro normativo, sembra quasi che le intenzioni del legislatore siano state quelle che, con un termine partenopeo, si potrebbe definire di fare ammuina; ovvero il disordine che nasconde una recondita ed inconfessabile realtà, come se si volesse coprire effettivamente il caos, e con esso l’irregolarità ed il lavoro nero. 

Nella disciplina previdenziale vigente c’è infatti un problema evidente di legalità che neppure la giurisprudenza della Cassazione è riuscita a porre in evidenza, forse per la necessità di supplire a vuoti, carenze e contraddizioni; e di dettare comunque una soluzione per gli interessati ed individuare “un sistema” che in realtà sembra mancare di alcune essenziali fondamenta.

In assenza della certezza normativa la giurisprudenza è finita per diventare la fonte di ispirazione più importante, quasi un viatico o un faro, per evitare di incorrere in errori che comportano l’applicazione di sanzioni spesso molto pesanti. 

La giurisprudenza, tuttavia, se può contenere indicazioni preziose per risolvere problemi interpretativi, non dovrebbe essere mai considerata un moloch indiscutibile; perché le stesse sentenze della Corte di cassazione non sono dogmi, e noi non viviamo in un paese di common law. 

Ora, se anche è vero che tra un po' tutto quello che è stato già detto in questa materia sarà soppiantato dalla nuova disciplina previdenziale dettata dal d.lgs. n. 36/2021 (e dal correttivo d.lgs. n. 163/2022), sarà bene conservare comunque la memoria storica sulla precedente disciplina previdenziale dei lavoratori sportivi. Non solo per evitare gli errori del passato, ma anche perché essa verrà applicata a lungo ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma e dei quali si discuterà ancora per anni nell’aule di giustizia. 

 

Lavoratori professionisti e tutti gli altri

Come si è detto l’ordinamento ancora in vigore riconosce soltanto i lavoratori sportivi professionisti di cui alla legge n. 91/1981, considerati come tali grazie alle qualificazioni delle federazioni di appartenenza secondo le direttive del Coni. Sono soltanto questi lavoratori ad avere una regolamentazione espressa di diritti ed una gestione previdenziale ad hoc; ed a godere così di tutte le prerogative e le tutele sociali previste dall’ordinamento.

Gli altri lavoratori c.d. dilettantistici, pur vivendo di sport e di lavoro sportivo come i primi non hanno una disciplina ad hoc. Sul piano lavoristico vengono definiti solo per esclusione, a contrario, rispetto al lavoratore professionistico che ottiene questa qualificazione ex art. 2 della l. n. 81/1991 ed ha una propria Cassa di previdenza a cui accedono gelosamente solo i professionisti delle quattro categorie di sportivi definite come tali. Per il resto nulla di definito.

Sul piano previdenziale la condizione di alcuni lavoratori dei settori non professionistici (ad es. istruttori di tennis, di nuoto, pallavolo, ecc.) era assimilata ai lavoratori dello spettacolo e confluiva nella gestione Enpals e quindi INPS ( ex Enpals); ciò in forza di un antico decreto legislativo del Capo provvisorio dello stato e siamo quindi nel 1947 ( DLPCS 16 luglio 1947, n. 708); che, si badi, mentre regolava tantissime figure dello spettacolo, per lo sport considerava solo gli addetti agli impianti sportivi. 

E mentre prevedeva la possibilità di futuri aggiornamenti degli assicurabili del settore dello spettacolo (tramite un Dpr che è divenuto poi un Dm), non prevedeva all’inizio nessun aggiornamento per i lavoratori dello sport, ristretti appunto alla categoria degli addetti agli impianti, unici ad essere contemplati nel suo regolamento (salvo il successivo decreto 15 marzo 2005 di cui si dirà oltre).

E ricordo in proposito alcune sentenze della Cassazione fare i salti mortali sostenendo che un istruttore sportivo dovesse essere considerato un addetto agli impianti; con evidenti problemi non solo di logica (confondere chi istruisce persone con chi si occupa di cose materiali); ma soprattutto con problemi di legalità perché non andrebbe mai dimenticato che questa della previdenza è materia coperta a livello costituzionale da riserva di legge ex art 23 Cost.; aspetto fondamentale su cui invece si è finito per sorvolare del tutto nell’affrontare questa materia.

 

Il rapporto tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale 

Altro problema che ha reso contorta la questione delle protezioni assicurative e previdenziali è il rapporto ritenuto esistente tra normativa fiscale e quella previdenziale, inutilmente complicato. 

Perché non bastava sapere se questi lavoratori sportivi dovessero essere assicurati (e non era semplice in mancanza di puntuali aggiornamenti), ma occorreva poi vedere anche se il reddito percepito da questi lavoratori fosse in concreto assoggettabile oppure fosse esente da contribuzione, come da oneri fiscali; insomma costituisse oltre che un reddito imponibile anche una base imponibile a fini contributivi. 

Ed anche qui non si è andati troppo per il sottile essendosi affermata, come vedremo, una problematica equiparazione tra reddito imponibile fiscale e base imponibile a fini contributivi, che è ancora alla ricerca del suo fondamento normativo. 

Di nuovo un problema di legalità quindi; perché su entrambi gli aspetti - sia per i soggetti gravati sia per il quantum del prelievo contributivo - la materia è soggetta alla riserva di legge. E quindi non ci dovrebbero essere molte discussioni su entrambi i temi: bisognerebbe aprire le tavole della legge e trovare la soluzione. Se non fosse che noi siamo diventati di fatto un paese di diritto giudiziario, perché se hai milioni di norme vigenti (primarie e secondarie) forse non può essere diversamente. 

Ed a questo proposito è noto a tutti che proprio con una norma di legge (l’art. 37 della legge n. 342/2000) il nostro legislatore ha inserito nell’art. 67 del TUIR, che riguarda «i redditi diversi», una disciplina per i compensi erogati agli sportivi del settore dilettantistico prevedendo una esenzione che arriva oggi fino a 10.000 euro: prima soltanto per «l’esercizio diretto dell’attività sportivo» che poi, con la legge n. 289/2002 (art. 90 comma 3), è stato esteso anche «ai collaboratori coordinati e continuativi di natura non professionale a carattere amministrativo gestionale»; e che la norma di interpretazione autentica dell'art. 35, comma 5, del d.l. n. 207 del 2008, conv. dalla l. n. 14 del 2009, ha ulteriormente ampliato precisando che «nell’esercizio diretto dell’attività sportiva rientrano anche i compensi erogati per la formazione, didattica, preparazione e assistenza di attività sportiva dilettantistica»; sicché non occorre più che si tratti di redditi erogati per la partecipazione ad una manifestazione o ad una gara ma anche in occasione dell’esercizio di attività preliminari e preparatorie.

Questa disciplina agevolativa dei c.d. compensi sportivi per i lavoratori sportivi dilettantistici ha avuto una applicazione estensiva nella prassi, con problemi enormi quanto all’individuazione dei soggetti eroganti (deve trattarsi di associazioni e società sportive dilettantistiche riconosciute dal CONI, regolate dall’art. 90 della l. n. 289/2002 e ss. modificazioni, e dal d.l. n. n. 136/2004, conv. da l. n. 186/2004); e quanto al regime dei compensi erogati ex art 67 Tuir cit. su cui avevano provato a fornire chiarimenti le circolari nn. 7 e 13 del 2006 dell’Enpals e la circolare n. 1/2016 dell’Ispettorato nazionale del lavoro. 

Tutto questo fino a quando non sono intervenute, tra il 2020 ed il 2021, 37 sentenze della Cassazione; particolarmente ispirate da intenzioni nomofilattiche. 

 

Le trentasette sentenze della Cassazione del 2021/2022. L’aspetto soggettivo

Con le 37 sentenze del 2021/2022 (a partire da Cass. n. 41397/2021, n. 41467/21, n. 41468/21, e le altre successive), tutte uguali, la Corte di cassazione ha affrontato il problema dell’assoggettabilità a contribuzione previdenziale dei redditi percepiti da istruttori sportivi e affini che svolgano la loro attività per associazioni sportive dilettantistiche. Occupandosi di entrambi i temi: l’aspetto soggettivo dell’assicurazione e l’aspetto oggettivo del reddito imponibile assoggettabile a contribuzione.

La stesse pronunce in realtà non intendono rivoluzionare l’assetto della materia; anche perché c’erano già state tante altre sentenze precedenti, a cui si ricollegano; ed in particolare la sentenza n. 11375/2020 sugli istruttori di tennis assicurabili, che era anche molto sintetica, chiara ed intellegibile. 

Il tema, come si è visto, richiede di affrontare essenzialmente i due problemi. 

Anzitutto il problema della soggezione all’assicurazione ossia dell’individuazione dei soggetti assicurati prima all’Enpals poi all’INPS perché parliamo appunto di lavoratori sportivi che lavorano per associazioni sportive dilettantistiche. Essenzialmente un problema di legalità. 

Le decisioni della Cassazione si fondano su una ricostruzione del tessuto normativo della fattispecie che muove dal Decreto Legislativo del Capo Provvisorio Stato 16 luglio 1947, n. 708 contenente disposizioni concernenti l'Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo; e che però prevede possibili adeguamenti successivi degli assicurabili attraverso il rinvio ad un decreto ministeriale (previo «monitoraggio delle figure professionali operanti nel campo dello spettacolo e dello sport, sono adeguate le categorie dei soggetti assicurati di cui al primo comma»; anche grazie alla sua modifica operata dalla legge n. 289/2002).

La norma indica che il legislatore percepisce un mondo in divenire e prevedeva perciò fin dall’inizio meccanismi di adeguamento (ma all’inizio solo per lo spettacolo) attraverso la delega ad un D.P.R. (poi ad un DM); aggiornamenti necessari, soprattutto per l’elenco veramente asfittico contemplato per il mondo dello sport che prevedeva all’inizio soltanto gli «addetti agli impianti sportivi».

Il d.lgs. CPS n. 708/1947 suddetto è stato poi novellato nell’art. 3 dalla legge 289/2002 (art. 43, comma 2) per inserirvi la possibilità di delega sui lavoratori dello sport. In questo contesto nasce il decreto ministeriale del 2005 Ministro Maroni che ha aggiornato l’elenco ed allargato le categorie dei lavoratori assicurati obbligatoriamente presso l'Ente nazionale di previdenza e assistenza dei lavoratori dello spettacolo dagli «addetti agli impianti sportivi» alle seguenti figure di lavoratori: 20) «impiegati, operai, istruttori ed addetti agli impianti e circoli , sportivi di qualsiasi genere, palestre, sale fitness, stadi, sferisteri, campi sportivi, autodromi;… 22) direttori tecnici, massaggiatori, istruttori e i dipendenti delle società sportive. 23) atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici delle società del calcio professionistico e delle società sportive professionistiche».

Quindi non solo i lavoratori sportivi in senso lato, ma pure quelli che prestano attività a qualsiasi titolo, anche come impiegati ed operai, dipendenti o autonomi. Con l’unica clamorosa eccezione, che risalta in maniera lampante, per cui neppure per il decreto ministeriale del marzo 2005, che pure ha ampliato le categorie degli iscrivibili all’Enpals, sono ricompresi tra gli assicurabili gli atleti dilettanti, benché professionisti di fatto (si pensi ad una atleta di pallavolo di serie A1); riconfermando così l’invisibilità di questi lavoratori, pur in concreto esistenti e la loro incostituzionale inesistenza giuridica per l’ordinamento previdenziale. 

Tanto che, se pure si fosse voluto assoggettare a regime previdenziale, un compenso di un atleta dilettante nessuna gestione lo avrebbe mai potuto ricevere. L’atleta sportivo dilettante si confermava come l’antitesi del lavoratore in assoluto, e non solo del lavoratore professionista regolato dalla legge n. 91/1981.

Ora, se si leggono con attenzione le sentenze della Cassazione in oggetto sugli istruttori sportivi, questo allargamento soggettivo operato dal DM viene ritenuto in realtà pleonastico (sia nelle sentenze del 2021/2022, sia nella precedente n. 11375/2020) perché si sarebbe trattato, dice la Cassazione, solo di figure che già «emergevano dalla legislazione precedente e che rilevavano in quanto tali». 

Ed è questo un primo fattore di criticità che si può rinvenire in queste pronunce, sia perché l’obbligazione previdenziale come quella tributaria deve avere imprescindibili presupposti di legalità; sia per motivi logici, non essendo la nozione legale di «addetti agli impianti sportivi una base legale sufficiente per ricomprendere al suo interno anche gli impiegati, operai, istruttori ed addetti agli impianti e circoli , sportivi di qualsiasi genere, palestre, sale fitness, stadi, sferisteri, campi sportivi, autodromi;… 22) direttori tecnici, massaggiatori, istruttori e i dipendenti delle società sportive. 23) atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici delle società del calcio professionistico e delle società sportive professionistiche gli istruttori, direttori tecnici, massaggiatori»; tutte figure introdotte in realtà dal decreto ministeriale. 

D’altra parte, le norme del d.lgs. CPS n. 708/1947 prevedono un potere del Ministro di integrare e ridefinire delle categorie di assicurabili, attraverso un decreto; che non può essere considerata un’opera puramente ricognitiva a cui sostituire l’attività interpretativa del giudice al quale non è stata conferita alcuna delega in tal senso. 

C’è un meccanismo di adeguamento che la norma di delega chiede di essere assolto attraverso un atto delegato, che è un esercizio di potere normativo. Il dm 2005 del 15 marzo che ha introdotto le figure nuove di cui sopra parla appunto di un potere esercitato «al fine di integrare o ridefinire, tenuto conto dell’ampliamento delle categorie dei lavoratori dello spettacolo, a seguito di una verifica dell'evoluzione delle professionalità e delle forme di regolazione collettiva dei rapporti di lavoro di settore». E si fa fatica a sostenere perciò che l’esercizio di un potere normativo di questa natura e con questi presupposti configuri soltanto una mera «esplicitazione della ricomprensione nell'ambito della tutela Enpals di figure emergenti nella pratica, che già in precedenza potevano esservi fatte rientrare» (come affermano le 37 sentenze del 2021 e 2022; v. Cass. n. 41397/2021).

Inoltre, per sostenere la correttezza di questa tesi, sulla natura puramente ricognitiva del decreto delegato, si citano pure due sentenze di legittimità (Cass. n. 3219/2006 e Cass. n. 9996/2009) che però dovevano risolvere un problema diverso, relativo al settore dello spettacolo; dovendosi stabilire se gli animatori turistici di villaggi, alberghi, ecc. potessero considerarsi appunto lavoratori dello spettacolo. 

Le sentenze della Cassazione (Cass. n. 41397/2021 e ss.) sostengono allora che ricorrerebbe un’analogia con i lavoratori dello sport. Senonché nel settore dello spettacolo c’era già stato l'esercizio di un atto di delega con l’individuazione di specifiche figure di lavoratori, per cui aveva effettivamente senso affermare (in Cass. n. 3219/2006 e Cass. n. 9996/2009) che la legislazione successivamente intervenuta - ma solo in quel settore - avesse «formalmente esplicitato un significato di lavoratore dello spettacolo già sostanzialmente presente nella legislazione precedente». Mentre la trasposizione di questa affermazione dall’ambito dello spettacolo, dove era già stata esercitata la delega, al differente ambito del lavoratore sportivo, dove mancava l’individuazione normativa dei lavoratori, fa dire alla Cassazione una affermazione che è priva di giustificazione sul piano logico normativo; e cioè che non vi sia in realtà bisogno di alcun atto delegato dopo la norma primaria per individuare le categorie degli assicurabili, perché il giudice può rinvenire le stesse figure di lavoratore sportivo nella pratica, limitandosi ad esplicitarne la rilevanza a fini della tutela Enpals. 

 

Reddito erogato e la sua assoggettabilità fiscale e contributiva

Un altro nodo contenuto in queste decisioni della Cassazione del 2021/2022 riguarda il reddito erogato e la sua assoggettabilità fiscale e contributiva. 

Una volta affermato che un determinato lavoratore sportivo fosse soggetto all’assicurazione; la domanda che si è posta è se questo fosse sufficiente per determinare la nascita dell’obbligazione contributiva in virtù della prestazione svolta, come normalmente avviene ai fini delle assicurazioni sociali. Ed è proprio a questo punto che viene in gioco l’applicazione del citato art. 67, primo comma lett. m) del TUIR.

Se si leggono con attenzione le sentenze del 2021/2022, si può constatare come la tesi sostenuta dall’INPS era che l'art. 3 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 708 del 1947 ed il successivo decreto ministeriale n. 17445 del 2005 avessero previsto l’obbligatoria iscrizione all'ENPALS per i lavoratori citati; mentre non era prevista nell’ordinamento alcuna esenzione rispetto al conseguente obbligo contributivo; né essa poteva farsi discendere dall'art. 67, primo comma lett. m) TUIR, trattandosi appunto di una disposizione di natura fiscale che si limitava a disciplinare l'individuazione dei redditi diversi sui quali va pagata l'imposta sul reddito delle persone fisiche per i lavoratori operanti per le associazioni sportive. 

Le 37 sentenze della Cassazione del 2021/2022 (ma anche le precedenti) non seguono invece l’INPS su questo punto e sostengono che l'art. 67, primo comma lett. m) TUIR rilevi anche ai fini del concreto assoggettamento dei redditi conseguiti a fini previdenziali; e dunque anche a fini previdenziali opererebbe la disciplina dell’esenzione dall’imposizione a fini fiscali stabilita dagli artt. 67 e 68 del TUIR (in un limite che arriva oggi a 10.000 euro). Si parla perciò di “disciplina eccettuativa” che vale anche a fini previdenziali. E pur restringendone il campo di operatività solo in presenza di specifici requisiti, la Corte di cassazione riconosce così l’esistenza di redditi non assoggettabili a contribuzione previdenziale sulla base di una norma del Tuir (che si riferisce solo alla materia fiscale, come pure ammettono le stesse sentenze in oggetto).

La Cassazione stabilisce in particolare che i compensi di cui si discute potranno ricomprendersi tra i «redditi diversi» di cui all'art. 67 T.U.I.R., lett. m) soltanto alle seguenti condizioni: 1) siano erogati per una collaborazione svolta in favore di organismi che perseguano finalità sportive dilettantistiche, riconosciute ai sensi dell'art. 7 d l. n. 136 del 2004. Ed è ovvio che debba esistere il presupposto fondamentale della effettiva natura "dilettantistica" del soggetto (associazione e/o società sportiva) in favore del quale la collaborazione è stata esercitata; 2) siano corrisposti per una prestazione di «esercizio diretto di una attività sportiva dilettantistica», fatta salva l'interpretazione autentica del legislatore, resa con l'art. 35, comma 5, del d.l. n. 207 del 2008 secondo cui vi rientra anche «la formazione, la didattica, la preparazione e l'assistenza» all'attività sportiva dilettantistica»; 3) non siano «conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, ne' in relazione alla qualità di lavoratore dipendente», intendendosi per esercizio di arti e professioni, ai sensi dell'art. 53 del TUIR «l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo» diversa dall'attività di impresa. 

Pertanto, sono sempre esclusi dalla disciplina in discorso e non costituiscono redditi diversi quelli di capitale, i redditi conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né quelli percepiti dal lavoratore dipendente.

Sembrano rimanere quindi all’interno dei redditi diversi i lavoratori autonomi occasionali (ed anche i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo-gestionale di natura non professionale resi in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche). Questi redditi non sarebbero assoggettati al fisco né ad obblighi contributivi per € 10.000; anzi per i primi €. 10.000,00 complessivamente percepiti nel periodo d’imposta, i quali non concorrono alla formazione del reddito; mentre sulla parte che eccede i €. 10.000,00 vengono operate le normali ritenute.

Ciò detto vi sono però due questioni affrontate nelle sentenze del 2021/2022 che si prestano a rilievi critici. 

 

Il requisito del vincolo associativo

Tra i vari requisiti individuati dalle sentenze della Cassazione, si sostiene pure che le prestazioni sportive regolate dall’art. 67 lett. m) Tuir debbano essere rese, oltre che nell'esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche, anche in ragione del vincolo associativo esistente tra il prestatore e l'associazione o società dilettantistica, «restando esclusa la possibilità che si tratti di prestazioni collegate all'assunzione di un distinto obbligo personale». 

Questa condizione appare però alquanto ambigua. Perché non risulta da nessuna parte nell’ordinamento, ancora vigente, che il variegato lavoratore sportivo dilettantistico (nel senso indicato dal dm del 2005) debba essere per forza di cose un tesserato che renda la propria attività non tanto in forza di un contratto di lavoro (occasionale) ma in forza del vincolo associativo. Si tratta di una condizione che non appare dettata dalla normativa precedente al d.lgs. n. 36/2021 e che porta ad oscurare la situazione di questi lavoratori che lavorano in realtà in forza di un contratto di lavoro e non di un titolo associativo. 

Si tratta di una affermazione che si presta a rilievi soprattutto perché la stessa condizione non solo non è contemplata dall’art. 67 (che si limita a prevedere le «prestazioni di lavoro»), ne è rinvenibile in altre disposizioni di legge vigenti prima del d.lgs. n. 36/2021; ma è anche in contraddizione con il contenuto letterale e specifico dell’art. 67 lett. m) Tuir che, come già detto, contempla, grazie alla novella legislativa indicata, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo-gestionale (di natura non professionale resi in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche); mostrando così che la presenza di un contratto e di un rapporto giuridico differente rispetto al vincolo associativo non sia di ostacolo alcuno nell’applicazione della norma. 

Non si intuisce comunque da dove si rinvenga questa condizione che in fondo considera il lavoro come atto di adempimento del rapporto associativo e nega la natura di rapporti di lavoro ai rapporti occasionali, in relazione ai quali potrebbero essere erogati anche compensi elevati, se si considera che l’art. 67 del TUIR non pone limiti di reddito; e solo l’art. 68 si limita a disporre un tetto di 10.000 euro entro il quale i compensi non sono assoggettati, fermo restando l’assoggettamento normale per il compenso superiore a questa cifra. 

In ogni caso, non si intuisce perché il regime agevolativo (anche a livello tributario e se ritenuto anche previdenziale) debba essere garantito solo per prestazioni rese da associati e solo in virtù del vincolo associativo; laddove non sembra che il vincolo associativo ed il tesseramento sia tale da comportare di per sé obbligazioni di lavoro sportivo, in mancanza di un ulteriore rapporto giuridico contrattuale. 

Insomma, non sembra che questa concezione monista del rapporto di lavoro fondato sul vincolo associativo abbia un fondamento positivo o un fondamento sistematico, anche perché la sentenza della Cassazione non spiega da quale principio normativo antecedente al d.lgs. n. 36/2021 essa venga ricavata.

 

L'art. 67, primo comma lett. m) TUIR si applica ai contributi previdenziali?

Soprattutto non convince all’interno di queste sentenze, l’ulteriore affermazione, che riveste natura pregiudiziale ed assorbente nella materia, e che riguarda il problema se la disciplina dell’art. 67 del TUIR si applichi per davvero all’assoggettamento contributivo. 

Le 37 sentenze della Cassazione del 2021/2022 sostengono che la giurisprudenza ha in più occasioni ritenuto che la disposizione in esame, in quanto sostanziale eccezione all'obbligo contributivo previsto per gli addetti agli impianti sportivi, sia rilevante anche in materia previdenziale. 

Ed anche qui si richiamano a fondamento di questa tesi pregiudiziale alcune precedenti sentenze (in particolare Cass. n. 11375 del 2020, Cass. n. 24365 del 2019, Cass. n. 21535 del 2019 e Cass. n. 11492 del 2019, nonché Cass. n. 5904 del 2016) le quali avrebbero presupposto l'astratta applicabilità della disposizione in esame alla materia previdenziale; e si sostiene di dover dare continuità a tale orientamento, in quanto «l'assenza di una espressa disciplina previdenziale, in materia di collaborazione resa in favore di associazioni dilettantistiche, non esime l'interprete dal considerare l'impatto della neutralizzazione degli effetti tributari delle erogazioni corrisposte in tale contesto, anche relativamente al calcolo dell'imponibile contributivo». 

Tali testuali affermazioni (con le quali si riconosce appunto «l’assenza di una espressa previsione previdenziale») non possono non destare gravi perplessità e comunque non sembrano idonee a giustificare l’estensione dell’art. 67, comma 1 lett. m) del Tuir ai contributi previdenziali. Per vari motivi. 

In primo luogo, perché appunto le sentenze del 2021/2022 non contengono alcuna effettiva motivazione atta a giustificare l’operata estensione di disciplina; esse richiamano altre sentenze precedenti che a loro volta non hanno tuttavia affrontato il problema del fondamento normativo dell’estensione in discorso («presuppongono l’astratta applicabilità della disposizione in esame alla materia previdenziale»). E se si vanno a leggere i precedenti citati a conferma della estensione dell’efficacia della normativa fiscale al settore previdenziale, si vedrà che in effetti essi non dicono nulla sul perché si applichi o meno questa normativa fiscale alla previdenza. Dunque, si richiamano sentenze che si limitano al più a dare soltanto per presupposta l’applicazione della norma sui redditi diversi anche alla previdenza, senza che questa affermazione possa ovviamente configurare una valida premessa sul piano tecnico giuridico per supportare la soluzione prefigurata. 

In secondo luogo, le perplessità sono destinate a rafforzarsi perché non sembra possibile giustificare sul piano sistematico la tesi espressa dalle 37 sentenze del 2021/2022 secondo cui la norma dell’art. 67, comma 1, lett. m) «seppure riferita espressamente ai soli effetti tributari, esprime il più generale intento della legge di sterilizzare un determinato valore monetario anche ai fini contributivi».

E infatti, francamente, non si intuisce da dove si rinviene questo generale intento neutralizzatore della legge: anche perché, in mancanza di specifiche indicazioni normative, la normativa fiscale ovviamente può generare effetti solo a fini fiscali e non va applicata oltre la propria sedes materiae. E’ ius receptum inoltre che «Le nozioni di reddito rilevante ai fini fiscali e di base imponibile ai fini contributivi sono distinte, in quanto il sistema di determinazione della contribuzione previdenziale delimita un'area di più ridotte dimensioni rispetto a quanto forma oggetto di imponibile fiscale; l'imponibile previdenziale si determina, infatti, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 48, oggi art. 51, del d.P.R. n. 916 del 1987 e 12 della l. n. 513 del 1969, con conseguente esclusione delle somme erogate materialmente dal datore di lavoro ma per conto terzi, che trovino nel rapporto di lavoro l'occasione e non la causa». (Cass. 9601 del 18/04/2018). 

Di più, quando ha voluto richiamare la disciplina fiscale o accumunare le discipline previdenziali e fiscali il legislatore l’ha pure fatto espressamente. Ad es. con la legge delega n. 662/1996 si è stabilito il generale principio di equiparazione tra retribuzione imponibile e retribuzione assoggettabile a contributi ma solo per la retribuzione da lavoro dipendente; mentre qui intanto esiste «il reddito diverso» – secondo l’art. 67, comma 1, lett. m - in quanto non sia riferibile a lavoro dipendente. 

 In secondo luogo, occorre rilevare che la stessa legge delega n. 662 del 1996, appena citata, ha stabilito sì il principio l’equiparazione tra retribuzione previdenziale e retribuzione fiscale per il lavoro dipendente ma solo «ove possibile» (Cass. sentenza n. 24032 del 12/10/2017). Sicché essa non è tale da determinare la natura recettizia del rinvio ad ogni norma del TUIR a fini previdenziali, occorrendo esaminare sempre la compatibilità con il sistema previdenziale della normativa stabilita ai fini fiscali, né è possibile una automatica trasposizione da un settore all’altro; e basta riflettere ai fini in oggetto che qui l’art. 67 esclude la sua applicazione ai redditi da lavoratore dipendente e si riferisce soltanto ad un reddito da lavoro autonomo occasionale.

Sembra perciò vero piuttosto il contrario rispetto alla tesi accolta dalla Corte di cassazione che ha finito per negare l’autonomia della disciplina previdenziale rispetto a quella tributaria; dal momento che – in mancanza di qualsivoglia indicazione normativa - si è presupposto l’esistenza di un principio generale che consentirebbe l’estensione alla previdenza di tutte le regole vigenti in materia di determinazione del reddito fiscale, in qualsiasi settore. In un contesto in cui l’ordinamento prevede invece la regola opposta, prevedendo che il principio di equiparazione valga solo per la retribuzione del lavoratore subordinato e solo «ove possibile».

Pertanto, oltre il campo del lavoro dipendente, in difetto di norme specifiche (come per esempio, quelle vigenti in materia di iscrizione alla Gestione separata), bisogna applicare il principio di indifferenza e di autonomia delle varie nozioni di reddito valevoli a fini fiscali ed a fini previdenziali. Perché questo dice l’ordinamento. E non sembra che nella disciplina della previdenza ex ENPALS esista una qualche norma che consenta l’esenzione dall’assoggettamento di una qualche parte del reddito dei lavoratori dello sport o dei lavoratori dello spettacolo. 

In più, in mancanza di una disciplina espressa a fini previdenziali del lavoro autonomo occasionale sportivo, viene semmai in rilievo la disciplina della Gestione separata caratterizzata dall’universalità della assicurazione per tutte le collaborazioni e per tutti i rapporti di lavoratori autonomi sopra i 5000 € di reddito imponibile. Tutt’altra cosa quindi rispetto alla gestione ex Enpals ed alla disciplina dei compensi sportivi (esentati fino a 1000 €) di cui all’art. 67, 1 comma lett. m del Tuir.

 

La previdenza dei lavoratori sportivi dopo la riforma 

C’è da chiedersi ora se alle criticità ed al deficit di legalità presente in materia di previdenza dei lavoratori sportivi dilettantistici abbia rimediato la disciplina dettata dalla riforma del lavoro sportivo con il d.lgs. n. 36/2021. E quali effetti la nuova disciplina possa avere per il passato. 

Sul piano previdenziale la nuova normativa si segnala perché si stacca completamente dal duplice condizionamento che essa subiva con il collegamento, vero e presunto, alla disciplina dei lavoratori dello spettacolo ed a quella fiscale. 

Da questi vincoli normativi la nuova normativa sulla previdenza dei lavoratori sportivi si libera del tutto, finalmente. 

Cosa succede oggi se si attivano rapporti di collaborazione inquadrati con i vecchi compensi sportivi? 

Le 37 sentenze della Cassazione 2021/2022, pur con i rilievi critici di cui si è detto, avevano finito per restringere (quasi per eliminare del tutto) l’applicazione della normativa agevolata, riconoscendola ai soli rapporti di lavoro sportivo occasionali fino a 10.000 € che si fondavano sul rapporto associativo.

La riforma del lavoro sportivo prevede a questo proposito una disciplina previdenziale specifica che riveste una importanza fondamentale anche per il passato. Sicché le due normative (la vecchia e la nuova) forse finiscono per saldarsi; anche se bisogna precisarne in che senso. 

L’art. 35 comma 8-quater del d.lgs. n. 36/2021 prevede espressamente (nella versione corretta dal d.lgs. n. 163/2022 ) che per i rapporti di lavoro sportivo iniziati prima del termine di decorrenza indicato all’articolo 51 (e quindi prima del 1/1/2023 poi prorogato al 1/7/2023 ) e inquadrati, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 67, primo comma, lett. m), primo periodo, del TUIR non si dà luogo a recupero contributivo; quindi per il passato viene confermata la disciplina dell’art. 67 lett. m) dell’esenzione dell’assoggettamento contributivo fino a 10 mila euro; e sembrerebbe così stabilita (finalmente espressamente) che questa normativa valga anche ai fini contributivi[7]

La nuova normativa abroga anche per il futuro l’art. 67, comma 1, lett. m) del Tuir; l’area di esenzione a fini contributivi è stata limitata a 5000 euro (art. 35 comma 8 bis); mentre è salita a 15000 euro quella valevole a fini fiscali (art.36 comma 6). 

La legge nella logica della irretroattività rimarca quindi l’esistenza di una sorta di spartiacque; che configura però, in realtà, una sorta di norma di sanatoria (art. 35 comma 8 bis quater); perché, secondo la mia tesi, per i fatti precedenti alla legge mancava un vero fondamento normativo alla tesi dell’esenzione contributiva. 

La norma vuole dire quindi, che a seguito dell’abrogazione dell’art. 67, comma 1, lett. m) del Tuir e della limitazione dell’area di esenzione a 5000 euro, l’INPS non possa agire neppure per il passato, neanche per recuperare la differenza rispetto alla più ampia area di esenzione di 10.000 euro prevista in precedenza e ritenuta esistente dalla giurisprudenza anche a fini previdenziali (per lavoratori sportivi autonomi occasionali non professionali). 

Ciò che del resto sarebbe derivato anche dal pacifico principio di irretroattività della legge ex art. 11 delle preleggi. Sicché l’espressa previsione normativa sul mancato recupero della contribuzione dovuta in precedenza finisce piuttosto per confermare il principio dell’inesistenza dell’esenzione per il passato. 

E neppure questa norma potrebbe costituire quindi la conferma che il regime precedente dell’art. 67 lett. m) valesse anche a fini previdenziali; né potrebbe dare un maggiore fondamento alle tesi espresse dalla giurisprudenza della Cassazione del 2020/2021 sulla scorta di pretesi principi generali che però davano luogo a molte perplessità proprio per la mancanza di un aggancio normativo testuale; che si potrebbe dire non è sopraggiunto neppure in articulo mortis; quando la normativa è stata appunto abrogata; avendo la norma piuttosto finalità ed effetti di normativa di sanatoria; quasi tombale. 

Quello che è certo è che ora con questa normativa di sanatoria l’INPS non potrà recuperare i contributi sulla base dell’art. 67 lett. m); ma quale fosse l’area dell’esenzione del passato, resta del tutto estraneo alla sanatoria e va stabilito secondo la normativa specifica, volta per volta vigente.

 

La nuova disciplina previdenziale dei lavoratori sportivi autonomi 

La nuova disciplina previdenziale per i lavoratori autonomi sportivi porta a distinguere i lavoratori in relazione alle soglie di reddito. 

Sotto i 5 mila euro non c’è assoggettamento contributivo e quindi non sarà neppure obbligatorio iscriversi alla gestione separata. Si tratterà per lo più di un lavoratore autonomo occasionale (non coordinato, né continuativo) che non è tenuto ad iscriversi ad alcuna gestione e la cui prestazione è esonerata da contribuzione (era quello che accadeva anche prima). 

Coloro che percepiscono sopra i 5.000 euro, nello spirto della legge sono presumibilmente considerati come titolari di un effettivo rapporto di carattere lavorativo nello sport dilettantistico (come co.co.co.) e, in coerenza con quanto previsto dalla legge delega, deve essere garantita loro una copertura previdenziale e assicurativa. Questi compensi non saranno però assoggettati ad imposte (ex art. 36 comma 6) ma soltanto a contributi previdenziali (solamente sulla parte del compenso che supererà la franchigia di 5.000,00 €)

Sopra i 15.000 euro occorrerà pagare sia i contributi sia le imposte. La parte di tali compensi superiore a 15.000,00 €, sarà assoggettata sia a tassazione che a contribuzione (ad. es. un compenso di 25.000,00 € annui pagherà imposte solamente su 10.000,00 €). 

Si ricorda che come spesso accade la legge delega e il d.lgs. prevedono la consueta clausola secondo cui dalla riforma non devono discendere nuovi o maggiori oneri per lo Stato. E quindi la stessa riforma della previdenza andrebbe fatta a saldi di bilancio invariati. Perciò dal lato dell’INPS non è possibile far luogo a maggiori esborsi o a minori incassi. Dal lato delle Associazioni e Società dilettantistiche il presumibile maggior carico previdenziale (ma già la Cassazione aveva limitato di molto l’area della possibile esenzione fino a 10000 €) viene, almeno parzialmente, compensato dal minor costo fiscale, offrendo adeguata tutela ai lavoratori senza modificare il quadro generale previsto per le associazioni e le società, che rimane inalterato mantenendo l'assenza di qualsiasi forma di imposizione diretta. 

Salvo che per il lavoro sportivo professionistico, cessa anche l’antica equiparazione delle categorie di lavoro subordinato e lavoro autonomo a fini previdenziali. 

A fini previdenziali nel mondo dilettantistico i lavoratori seguono una strada diversa a seconda della tipologia del rapporto: i subordinati vanno nella Gestione dei lavoratori sportivi. Gli autonomi nella gestione separata. I lavoratori occasionali fino a 5000 euro sono esenti, com’è già detto, da oneri contributivi. 

La gestione comune dei lavoratori sportivi di ogni categoria (subordinati, autonomi, co.co.co.) viene mantenuta invece nell’area del lavoro professionistico, dove sono iscritti pure gli sportivi subordinati dell’area dilettantistica. 

Gli autonomi (co.co.co. o meno) del settore dilettantistico si iscrivono alla gestione separata. Salvo che non appartengano a categorie che abbiano una loro cassa professionale (i medici). I lavoratori autonomi devono pure decidere se rimanere nel precedente regime ex Enpals oppure confluire nella Gestione separata. E lo stesso vale per i lavoratori subordinati rispetto alla Gestione dei lavoratori sportivi.

 


 
[1] Sulla riforma del lavoro sportivo v. G. Martinelli e M. Rogolino, a cura di, La riforma dello sport: contributi di diritto ed economia dello sport, Euroconference Editoria, 2023. Il nuovo diritto sportivo, AA.VV. in Il nuovo diritto delle società diretto da Oreste Cagnasso e Maurizio Irrera, n. 11, 2022 ; M. Matteucci; G. Ulivi, C. Ulivi, I rapporti di lavoro nelle associazioni e nelle società sportive, Maggioli Editore, 2022.

[2] Sulla normativa precedente la riforma, tuttora in vigore, cfr. E. Crocetti Bernardi, A. De Silvestri, P. Amato, L. Musumarra, T. Marchese, N. Forte, Il rapporto di lavoro dello sportivo, Experta, 2007; P. Moro; A. De Silvestri; E. Crocetti Bernardi; P. Lombardi, Vincolo sportivo e diritti fondamentali, Euro 92 Editrice, 2002.

[3] In questi chiari termini, G. Martinelli, M. Rogolino, Prestazione sportiva professionistica e dilettantistica; la dicotomia superstite, in G. Martinelli e M. Rogolino, a cura di, La riforma dello sport: contributi di diritto ed economia dello sport, Euroconference Editoria, 2023.

[4] Queste le giuste considerazioni di G. Martinelli, M. Rogolino, Prestazione sportiva professionistica e dilettantistica; la dicotomia superstite, in G. Martinelli e M. Rogolino, a cura di, La riforma dello sport: contributi di diritto ed economia dello sport, Euroconference Editoria, 2023.

[5] Sulla portata dell’art. 35 Cost. cfr. il recente volume di T. Treu e A. Perulli, In tutte le sue forme ed applicazioni, Giappichelli, 2022.

[6] Cfr. A. De Silvestri, Ancora in tema di lavoro nello sport dilettantistico, in Crocetti Bernardi, A. De Silvestri, P. Amato, L. Musumarra, T. Marchese, N. Forte, Il rapporto di lavoro dello sportivo, Experta, 2007.

[7] La tesi trova recente conferma nella sentenza della Corte di Appello di Roma del 31/03/2023, n. 1344 che, in sede di opposizione a verbale ispettivo, proprio sulla scorta di tale previsione normativa ha decretato «in maniera assorbente, il venire meno del diritto dell’Inps ad azionare il credito retributivo in relazione all’ attività lavorativa svolta dagli istruttori sportivi, con conseguente non spettanza» dei contributi pretesi. 

27/04/2023
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