Magistratura democratica
Protocolli

La scrittura degli atti processuali e il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi

di David Cerri
Avvocato del Foro di Pisa
“Non mi è ancora successo di terminare di leggere un atto e dire ‘Avrei voluto fosse più lungo’…” (Chief Justice Roberts)

La sottoscrizione, lo scorso 17 dicembre, del Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria (che può leggersi qui) segna un primo punto fermo in uno specifico processo di avvicinamento di queste due categorie dei giuristi pratici.

Non è un fulmine a ciel sereno, come potrebbe apparire solo a chi si sia disinteressato del vivace dibattito svoltosi negli ultimi anni sul piano più generale del linguaggio e della scrittura  giuridici, che ha visto istituzioni (in particolare la Scuola Superiore dell’Avvocatura, Fondazione del C.N.F. per le attività formative e culturali) e associazioni forensi, insieme a molti magistrati, incontrarsi in diverse sedi per approfondire ed affinare riflessioni che non potevano non avere uno sbocco operativo; tra le tante sedi feconde di risultati, vanno segnalate in particolare quelle degli Osservatori sulla Giustizia civile, dove in numerosi incontri si sono confrontate ed anticipate anche alcune delle soluzioni che oggi leggiamo nel Protocollo.

La discussione, però, è molto più risalente, e certamente occorre gettare uno sguardo anche su esperienze di altri ordinamenti, che hanno fatto da apripista al soddisfacimento di basilari esigenze di chiarezza e concisione nella scrittura processuale; chiarezza e concisione, concetti che stanno a base di ogni discussione in materia, rappresentando non solo e non tanto (ed anzi, tutt’altro) che scorciatoie – men che mai in senso banalmente deflattivo, fil rouge di molti e disomogenei interventi del legislatore – quanto valori da tutelare, non da ultimo sotto il profilo deontologico.

La premessa del Protocollo, quindi, potrebbe correre un leggero rischio di sminuire l’importanza della convergenza su tali valori, concentrandosi su un problema specifico (quello dei ricorsi alla S.C.) e su una soluzione che dev’esser sì pratica, ma non da praticoni, come potrebbe essere recepito da un lettore disattento il riferimento al “modulo-tipo”, pur certamente utile.

Non avrei infatti dubbi che l’adozione del Protocollo si rifletterà anche al di fuori dello specifico ambito contemplato (il giudizio di cassazione), e che le indicazioni principali costituiranno il nuovo riferimento standard per la redazione degli atti processuali di parte. È quindi alla luce di questa previsione che proverò ad esaminare antecedenti teorici e primi esiti concreti di quelle discussioni sul linguaggio e la scrittura, per giungere solo dopo tale e non brevissima esposizione ad un esame parziale e sintetico dei passi più rilevanti del nuovo documento.

Le riflessioni che seguono concerneranno inoltre e principalmente solo le regole del linguaggio dell’avvocato negli atti processuali civili – nec sutor… – benché si renda inevitabile il richiamo alle novità del processo amministrativo che hanno anticipato nelle priorità del legislatore quelle del processo civile, ed ora di quello telematico.

Prima ancora però è opportuno richiamarci alla ormai consueta constatazione del degrado di quel linguaggio. I linguisti che si sono dedicati a questo particolare campo di studio hanno da tempo identificato i principali vizi del linguaggio del giurista pratico (non solo dell’avvocato…).

I “fossili lessicali” di Bice Mortara Garavelli; gli stereotipi sintattici; i latinetti; le ripetizioni e le ridondanze; la lunghezza di periodi e frasi; la punteggiatura approssimativa; la mancanza di un chiaro ordine argomentativo; oggi più che mai, l’insufficiente od errato uso delle risorse grafiche e degli strumenti informatici.

Questo l’impietoso ma evidente quadro che si offre ancora spesso al giovane giurista che, entrando in uno studio professionale, recepisce modelli di scrittura che è inesatto definire “antiquati” solo perché gli “antichi” sapevano invece assai ben scrivere, proprio ispirandosi alla brevitas; e senza anticorpi, perché i corsi curricolari universitari, se non in felici quanto rare oasi, di questo profilo non si sono affatto curati. In altre parole, sottoporre un atto processuale italiano (ad opera indifferentemente di un avvocato o di un magistrato) ad un test di leggibilità come ad esempio lo SMOG (acronimo - di per sé suggestivo - di Simple Measure of Gobbledygook) darebbe nella maggior parte dei casi risultati sconfortanti.

Non che si tratti di un problema soltanto italiano. È James Boyd White, il giurista statunitense padre del movimento di Diritto e Letteratura, a scrivere nel 2011 che avvocati e giudici “parlano nei modi ormai morti che ci sono familiari, pieni di clichés e di formule vuote”. La differenza è però che oltre oceano si sostiene (talvolta in chiave polemica, lamentandosene addirittura l’eccessiva presenza) che il corso più importante delle Law Schools è proprio quello del “legal writing”, perché esso, “combinando chiarezza e concisione”, ha come obiettivo “di produrre qualcosa di efficace per il lettore, non di rigurgitare dottrina” (lo scrive un giudice che è anche docente come Gerard Lebovits).

Chiarezza e concisione, ho or ora scritto; ma perché ? ovviamente uno scritto – qualsiasi scritto, tanto più se ad oggetto giuridico – chiaro e conciso è più comprensibile; e la comprensibilità si atteggia sia come strumento di persuasione (e quindi di efficienza) che come strumento di trasparenza (e, pertanto, se non ci si spaventa il parolone, di democrazia).

Quelle che erano le conclusioni ormai consolidate della ricerca scientifica, risalenti sì agli ”antichi” prima ricordati, ma sicuramente rinnovate dalla nuova retorica novecentesca e dalle ricerche linguistiche e neuroscientifiche più recenti, hanno iniziato anche alle nostre longitudini ad avere riconoscimenti normativi. Prima di ricordarli, però, sia consentita una breve citazione da un corpus di regole processuali di una Corte Suprema statunitense (scelta, invero, a caso: ma è la più antica della federazione): quella della Pennsylvania.

Le formatting rules (§124 delle Rules of Appellate Procedure) mettono l’accento su: il formato del foglio – la qualità (“buona”) della carta (“bianca”) – i margini – l’interlinea (doppia, singola per le note) – le note a piè di pagina – i fonts (consigliati a priori quelli “chiari e leggibili” come Arial, Verdana e Times New Roman) e le loro dimensioni (14 punti nel testo e 12 nelle note).

Sull’ultimo punto, si noti che nel 2013, dopo quasi un anno di dibattito tra accademia, magistratura ed avvocatura…è stata approvata l’ultima modifica, quella dell’incremento delle dimensioni consigliate del font da 12 a 14 punti. Ai nostri occhi possono sembrare quisquilie e pinzellacchere: ma siamo certi che la sbandierata tradizione giuridica continentale (della quale, per carità, si può effettivamente andar fieri) ci autorizzi a far spallucce su simili discussioni? a giudicare dal Protocollo di cui qui discutiamo, si può anticipare che forse non avevano poi perso il loro tempo i colleghi americani.

Se torniamo in Europa, allora, le prime indicazioni concrete vengono dalle Corti.

Il vero e proprio motto che potrebbe iscriversi sulla porta della Corte di Giustizia è allora questo (tratto dalla Guida per gli avvocati, §14 Suggerimenti pratici, versione previgente): “Una semplice lettura deve consentire alla Corte di cogliere i punti essenziali di fatto e di diritto”.

Le attuali Istruzioni pratiche alle parti (in vigore dal 1.2.2014) ne sono una conseguenza; ad esempio, per i ricorsi diretti a proposito di forma e struttura degli atti si ricorda che dev’essere garantita la “fruibilità elettronica” del testo e si ripetono, nella sostanza, indicazioni analoghe a quelle già viste poco sopra dei giudici statunitensi: carta bianca, senza righe, di formato A4, con testo che deve figurare solo su una faccia (recto) della pagina; caratteri di tipo corrente come Times New Roman, Courier o Arial, di dimensioni di almeno 12 punti nel testo e 10  per le note a piè di pagina, con un’interlinea di 1,5 e margini, orizzontali e verticali, di almeno cm 2,5; con suddivisione in parti distinte con titoli e numeri dei singoli paragrafi, una breve premessa illustrativa od un sommario. La lunghezza consigliata non dovrebbe essere superiore a 30 pagine per ricorsi e controricorsi.

Ma è il § 36 ad essere il più significativo, in una sorta di interpretazione della frase delle precedenti Istruzioni che abbiamo posto a motto: “In aggiunta a questi requisiti formali, gli atti processuali depositati dinanzi alla Corte devono essere redatti in modo tale che sia possibile comprenderne la struttura e la portata sin dalle prime pagine.” Anche ai fini della facilità della traduzione, si ricorda inoltre che gli scritti devono essere redatti “in un linguaggio semplice e preciso, senza fare ricorso a termini tecnici propri di uno specifico ordinamento giuridico nazionale. Le ripetizioni vanno evitate e le frasi brevi devono essere preferite, il più possibile, a quelle lunghe e complesse, contenenti incisi e frasi subordinate”.

Le nuove Norme pratiche di esecuzione del Regolamento di procedura per il Tribunale (in vigore dal luglio 2015) sono identiche sui caratteri formali, ma più precise sulla lunghezza e sulla struttura degli atti (v. in particolare il capitolo B. Struttura e contenuto delle memorie della Parte IV.Della fase scritta del procedimento).

Si tratta quindi di specie di “breviari”, completi di tutto (salta all’occhio: molto di più di quanto si legge nel Protocollo, assai più timido).

La C.E.D.U. non è da meno. Con il nuovo formulario di ricorso – valido dal 1.1.2014 – in applicazione del già esplicito art.47 del regolamento della Corte (v. ad es. l’indicazione di un massimo di 20 pagine di lunghezza) sono stati forniti vigorosi “consigli” sulla forma: dalla “leggibilità”, alle dimensioni del font (anche qui non meno di 12 nel testo e 10 nelle note a piè di pagina), ai margini della pagina.

Del resto, l’invito alla chiarezza proviene dalle stesse istituzioni eurounitarie: si pensi soltanto alla Guida della Commissione dell’Unione “Scrivere chiaro”, rivolta soprattutto ai funzionari UE, ed ai suoi dieci “comandamenti” (in realtà, suggerimenti).

In Italia è per primo il processo amministrativo che ha visto riconosciuti e letteralmente “codificati” i principi di cui stiamo scrivendo, con l’ormai noto “Dovere di motivazione e sinteticità degli atti” di cui all’art.3 del Codice di rito, il cui secondo comma richiama letteralmente chiarezza e sinteticità (“Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”), con un invito stavolta rivolto (sta qui la novità) anche agli avvocati, i cui clienti in più di un caso ne hanno già, e giustamente, fatto le spese (espressione particolarmente adatta alla fattispecie…).

La potestà regolamentare sulla determinazione dei limiti dimensionali degli atti riconosciuta - con norma un po’ singolare - al Presidente del Consiglio di Stato ha trovato “al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità'” un’applicazione fonte di notevoli perplessità nel campo dei giudizi ex art.119 del Codice, contemplati dall’art.120 (come modificato nel 2014), relativi all’affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture.

Il 25 maggio di quest’anno il nuovo decreto del Pres. Giovannini, facendo seguito a quello del 2010 del Pres. De Lise, ha posto chiare regole dimensionali, come quella delle 30 pagine per gli atti introduttivi, aumentabili fino a 50 quando siano trattate “questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attengano ad interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo economico” (e francamente l’ultimo riferimento – con una soglia quantificata poi in € 50.000 – “stona” un poco col sistema della tutela dei diritti, pur non essendo l’unico criterio indicato); non è questo di per sé il motivo delle perplessità, ma il collegamento con le modifiche all’art.120 sopra ricordato, che oggi fanno sì che “Il giudice [sia] tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello”.

Il che, se preso alla lettera, è davvero inammissibile: come ha giustamente ritenuto il C.N.F. nel suo parere sul punto, l’improcedibilità delle questioni trattate nelle pagine eccedenti quei limiti desterebbe amplissimi dubbi di costituzionalità. E non si è forse neppure notato un altro aspetto che sfiora il risibile: dove inizierebbe la violazione del limite ? Seccamente alla trentunesima pagina, od il giudice avrebbe almeno la discrezionalità (questa, stavolta, a fin di giustizia e secondo il parametro della ragionevolezza) di verificare quali sono i convenevoli e quale la sostanza della difesa? Meglio sarebbe stato allora prevedere che conseguenze delle violazioni dei limiti fossero lecite solo in ordine al regime delle spese; ovvero la possibilità di un espresso invito al ravvedimento, vale a dire alla riduzione delle dimensioni entro i limiti mediante apposite memorie riepilogative (strumento già usato da diversi Giudici, civili ed amministrativi).

Ne parlo qui perché sembra meglio prevenire possibili interpretazioni estremistiche (come estremistica è la previsione ricordata) del sacrosanto impulso che deriverà dall’approvazione del Protocollo, da parte di zeloti della deflazione (ché, poi, ci giriamo intorno, ma alla fine si rischia di finire sempre lì).

Sulla forma il decreto del Presidente richiama espressamente al § 12 le Istruzioni della Corte di Giustizia sopra menzionate, con l’interessante precisazione che “In caso di utilizzo di caratteri, spaziature e formati diversi da quelli indicati al numero 12, ne deve essere possibile la conversione in conformità alle specifiche tecniche sopra indicate”.

Una strada, pertanto, quella della redazione di regole sostanziali e formali di scrittura di atti processuali, ampiamente spianata nel giudizio amministrativo, ma che aveva trovato un approccio più timido in quello civile, soprattutto perché le ripetute iniziative della Prima Presidenza della Cassazione erano rivolte – sulla scorta di quelle legislative: è la storia delle modifiche dell’art.132, c.2 n.4, c.p.c. e dell’art.118, c.1, disp. att. – solo ai giudici. Così era per il provvedimento sulla motivazione semplificata di sentenze e di ordinanze decisorie civili del 2011, come per gli inviti ribaditi nelle Relazioni all’apertura dell’anno giudiziario, dal 2012.

Si doveva giungere al giugno del 2013 per leggere la lettera indirizzata dal P.P. Santacroce al Presidente del C.N.F. Alpa, che costituisce il vero antecedente del Protocollo. In quell’occasione si leggeva del tetto di 20 pagine suggerito per la lunghezza dei ricorsi, ovvero del necessario riassunto di non più di 2/3 pagine ove fosse necessario dilungarsi maggiormente; ed insieme la consapevolezza che nell’ambito del giudizio di cassazione era ragionevole prevedere l’incertezza degli avvocati, alle prese con interpretazioni distorte del principio di autosufficienza (analoghe a quelle, del resto, che avevano fatto naufragare l’esperienza del quesito di diritto, che in sé poteva rivelarsi uno strumento valido proprio in termini di chiarezza concettuale ed argomentativa).

Nonostante l’iniziale tiepida accoglienza dell’avvocatura istituzionale, indubbiamente l’iniziativa di Santacroce smuoveva decisamente le acque, mostrandosi utile tra l’altro a “giustificare” a posteriori le iniziative congiunte di avvocati e magistrati sul territorio (ho già ricordato quelle degli Osservatori).

Nel frattempo, infatti, gli operatori della giustizia avevano già tracciato alcune linee guida significative; oltre che in alcune decisioni anche della S.C. (come Cass., sez. II, 04-07-2012, n. 11199, prontamente ripresa da alcuni giudici di merito come quelli milanesi di Tribunale e di Appello, ben consci delle regole europee) indicazioni comuni erano adottate da alcuni Tribunali che le avevano concordate con le rappresentanze istituzionali dell’avvocatura – è il caso di Milano, che vedeva approvate nel 2014 da quell’Ordine forense le Raccomandazioni della Sezione Nona Civile sulla redazione degli atti defensionali,  – ovvero giusto nella sede degli Osservatori (come quelli di Torino, di Reggio Emilia, ed altri).

E lo stesso legislatore non restava inerte: dapprima con il d.d.l. AC 2953 (Delega al Governo recante disposizioni per l'efficienza del processo civile) presentato lo scorso marzo dall’esecutivo, nel cui elenco di criteri e principi direttivi per il “riassetto formale e sostanziale“ del codice di procedura civile si legge (art.1, c.2, lett. g): “introduzione del principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice, da attuarsi anche nell'ambito della tecnica di redazione e della misura quantitativa degli atti stessi”; principio poi già positivamente consacrato a proposito del processo telematico grazie all’intervento del D.L. 83/2015 (conv. in L.132/2015) sul D.L. 179/2912, con l’introduzione del nuovo comma 9 octies dell’art.16 bis secondo il quale “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”.

Difficile quindi sminuire l’impatto teorico della nuova legislazione; ma facile apprezzarne in modo più modesto gli effetti pratici, visto che la “sinteticità” rischia di restare una clausola generale da riempire di contenuti (soggettivamente ?) determinati di volta in volta.

E’ in quest’ottica, allora, che si può arrivare – finalmente, dirà il lettore: ma avevo premesso che avrei più parlato di linguaggio del giurista pratico che compiuto un’esegesi del Protocollo… - a sottolineare i passi più importanti del documento; e solo quelli che dovrebbero svolgere i loro effetti su un piano più generale, non ristretto al giudizio di legittimità.

Mi riferisco allora ed in primo luogo a quello che nel Protocollo è definito lo “schema”, vale a dire le regole formali da seguire per l’impostazione grafica dei ricorsi: “utilizzare fogli A4, mediante caratteri di tipo corrente (ad es. Times New Roman, Courier, Arial o simili) e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo, con un’interlinea di 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno cm. 2,5”, regole che a questo punto conosciamo già bene.

La questione del “sommario” è trattata sotto il titolo di “sintesi dei motivi”: “Enunciare sinteticamente i motivi del ricorso (in non più di alcune righe per ciascuno di essi e contrassegnandoli numericamente), mediante la specifica indicazione, per ciascun motivo, delle norme di legge che la parte ricorrente ritenga siano state violate dal provvedimento impugnato e dei temi trattati. Nella sintesi dovrà essere indicato per ciascun motivo anche il numero della pagina ove inizia lo svolgimento delle relative argomentazioni a sostegno nel prosieguo del ricorso”.

I limiti dimensionali sono contemplati laddove si scrive dell’esposizione del fatto (che deve essere “funzionale alla percepibilità delle ragioni poste a fondamento delle censure”): non più di 5 pagine; mentre l’esposizione delle argomentazioni (che “deve rispondere al criterio di specificità e di concentrazione dei motivi”) deve essere contenuta nel limite massimo di 30 pagine.

Più interessante è l’esame delle conseguenze delle violazioni dei limiti dimensionali, contenuto nelle Note.

La prima osservazione da fare è che – correttamente – si scrive che “Il mancato rispetto dei limiti dimensionali indicati nel modulo e delle ulteriori indicazioni ivi previste non comporta l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso (e degli altri atti difensivi or ora citati), salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge; il mancato rispetto dei limiti dimensionali, salvo quanto in appresso indicato, è valutabile ai fini della liquidazione delle spese del giudizio”, così raccogliendosi l’esperienza del giudizio amministrativo e alcune indicazioni della dottrina, anche da me sopra condivise.

Vi è poi una clausola di sicurezza, per consentire esposizioni più lunghe, consentite ove “per la particolare complessità del caso le questioni da trattare non appaiano ragionevolmente comprimibili negli spazi dimensionali indicati”: ma a patto di esporre specificamente le “motivate ragioni” a base di simili scelte. E se tali ragioni si rivelano infondate? Ancora una volta la risposta non è l’inammissibilità dell’atto, ma una valutazione in ordine alla liquidazione delle spese.

Una scelta che appare non solo come una congrua risposta alle preoccupazioni dei difensori, ma soprattutto conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (è evidente, spero, che ignoro volutamente il “rango” formale della fonte-Protocollo, così da consentirmi di esaminarla “come se” fosse una norma di legge ordinaria, combattuto tra il desiderio ed il timore di vederla un giorno divenir tale…).

Completa il quadro una trattazione insolitamente accurata sul principio di autosufficienza, volta a ricondurlo a ragione, con indicazioni pratiche degne di considerazione e tese a risolvere i dubbi più frequenti.

La domanda conclusiva diventa allora: quali rimedi ove i due protagonisti non si adeguino (l’avvocato alle dimensioni, e il giudice all’interpretazione del principio di autosufficienza) ?

Sotto il primo punto di vista, che è probabilmente l’unico sul quale potrei dir qualcosa, abbiamo visto che il “suggerimento” del Protocollo si riflette sulla liquidazione delle spese; ma non dovrebbe esserci anche una considerazione deontologica del comportamento del legale inutilmente prolisso? Si tratta, in fondo, di un professionista che si mostra carente quantomeno nell’ottica della tutela dell’affidamento della collettività e della clientela, della qualità ed efficacia della prestazione (art.1 Cod.deont.for.), ed in particolare dei doveri di competenza (artt.14 e 26) e di aggiornamento professionale (art.15: e non dimentichiamo che l’obbligo di aggiornamento è prescritto “nell’interesse del cliente e della parte assistita, della amministrazione della giustizia e della collettività”: art.5 del Regolamento C.N.F. n.6/2014 sulla formazione continua).

Da sottolineare allora – ricordando Pascal – che lo scrivere chiaro e conciso richiede maggior tempo, maggiore sforzo, maggiore abilità, maggiore preparazione: non minori. Ed infine non dovrebbero essere trascurati neppure il rispetto ed il dovere di collaborazione dovuti alle istituzioni forensi, che hanno sottoscritto il Protocollo (art.71).

Per il Giudice di Cassazione, la risposta è nelle mani…di sé stesso (od anche della Corte di Giustizia ?) e sperabilmente, almeno in casi eclatanti, se non del C.S.M. almeno dell’ A.N.M., gli articoli 3 ed 11 del cui Codice Etico qualcosa vorranno pur significare; dovremo così apprezzare la reazione in via interpretativa dei principi stabiliti nel Protocollo, ma non solo nella sede deputata della S.C., quanto più ampiamente anche nella giurisprudenza di merito, con estrema attenzione nell’evitare che la loro applicazione dia l’impressione di fare due pesi e due misure.

 

 

06/02/2016
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