Magistratura democratica
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L'editoriale e il sommario del n.4/2014 di Questione Giustizia

di Beniamino Deidda
Componente comitato direttivo Scuola della Magistratura
L'editoriale e il sommario del n.4/2014 di Questione Giustizia

Il mare Mediterraneo è tornato a tingersi di sangue, questa volta con un numero di vittime che non si era mai visto. Proprio l’enormità di quanto è accaduto ha messo a nudo la natura delle varie parti della nostra scena politica. Di tutti, governanti e governati, maggioranza e opposizione. Siamo passati dal «chi se ne frega» di molti intervistati dalla TV, poveri diavoli e signore ben truccate, all’autorevole proposta di «colpire i barconi». Verrebbe da chiedersi in che mondo siamo, se non sapessimo che il mondo è funestato da guerre e da sciagure e che in molti Paesi a un tiro di schioppo da noi la vita è resa impossibile dalla guerra e dalla fame. Da questi Paesi arrivano, e continueranno ad arrivare, uomini donne e bambini disperati e decisi a non lasciarsi morire, nonostante il contrario parere della Lega e dei razzisti di ogni latitudine.

Mai come in questo caso si è visto come siano deboli nel nostro Paese i diritti fondamentali della persona, quelli che la costituzione dichiara «inviolabili». Governo e opposizioni hanno fatto a gara nel dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: dichiarare a parole l’impegno umanitario da un lato e cercare di non spaventare i benpensanti preoccupati «dall’invasione», dall’altro. Qualcuno ha perfino citato la Costituzione. Ma non basta citarla la Costituzione, bisogna anche capirla. Come si concilia con la Costituzione un atto di guerra come il bombardamento dei barconi? E tutto questo mentre si grida che gli arrivi sono troppo numerosi, che i migranti vengono a rubarci il lavoro, la casa e l’assistenza sanitaria. Davvero qui da noi l’esercizio dei diritti fondamentali sta diventando difficile. E la cosa che più preoccupa è che si voglia restringere l’applicazione dei diritti (e neppure tutti!) ai soli cittadini. Gli altri si arrangino: riportiamoli ai luoghi di partenza, soccorriamoli ma in mare, abbiamo i nostri problemi noi, che ci pensi l’Europa. Come talvolta capita, tra tante corbellerie ne scappa una giusta.

È vero, ci deve pensare anche l’Europa per le tante ragioni che sono state dette più volte. Ma l’Europa non sembra consapevole della posta in gioco. Solo così si spiega che l’operazione Triton, che ha sostituito quella italiana Mare Nostrum, si sia ridotta ad un pattugliamento militare con navi ed aerei per respingere i profughi. Come se dovessimo difendere i confini da potenti nemici. Come se non sapessimo che ci chiedono aiuto uomini e donne disperati che rischiano in mare la vita pur di fuggire dal loro paese. Ma in questa Europa dei finanzieri nemmeno la vita ha più valore, se è la vita degli ultimi.

Questa vecchia e arida Europa è destinata a morire se non sarà, oggi più che mai, l’Europa dei diritti. Non la salveranno la finanza, gli scambi o le merci, se non sarà capace di riaffermare la sua anima più vera, che è quella di garantire i diritti fondamentali e la libertà di ciascuno.

Sul fronte della magistratura invece si addensano nubi che vengono da lontano. Mentre si annunciano (ancora una volta) «riforme epocali» per la giustizia vengono partoriti due topolini: la riforma della disciplina delle ferie per i magistrati e la riforma della responsabilità civile. Il nostro personalissimo giudizio è che non abbiamo saputo fronteggiare con lucidità né l’una, né l’altra. Le ferie dei magistrati sono un falso problema, agitato strumentalmente per indurre l’opinione pubblica a credere che la giustizia va lenta perché i magistrati godono di troppe ferie. Bastava replicare che la riduzione delle ferie a trenta giorni va benissimo, anche perché nessuno di noi riesce a farne di più. E bisognava aggiungere: ora aspettiamo che il Governo prenda quei provvedimenti che da tempo invochiamo per far finalmente funzionare la giustizia in Italia. Ma non abbiamo saputo replicare. Anzi, abbiamo balbettato qualche obiezione del più trito rivendicazionismo sindacale che ci ha alienato le simpatie anche dei più riflessivi.

La questione della responsabilità civile era più seria, ma la nostra reazione non lo è stata. Sembra incredibile il fatto che i magistrati si siano divisi, che non si sia avvertita la necessità di una risposta unitaria, matura, poco preoccupata delle sorti dei singoli magistrati, ma molto allarmata per l’attacco alla loro indipendenza e alla loro indispensabile serenità. Abbiamo lasciato credere all’opinione pubblica di questo Paese che i magistrati vogliano sottrarsi alla responsabilità civile quando sbagliano e non siamo stati in grado di spiegare che il modo in cui si accerta la responsabilità dei magistrati è essenziale per uno stato di diritto. Abbiamo in un’inconcludente assemblea cianciato di scioperi bianchi, di astensione e di altre iniziative palesemente inadeguate, anziché gridare che siamo d’accordo sulla responsabilità civile, anche pesante, per chi sbaglia, ma che ai cittadini non servono magistrati citati pretestuosamente a giudizio e intimiditi dai potenti, perfino durante il corso di procedimenti penali e civili. E, infine, la cosa più grave è che non siamo stati capaci di tenere insieme le diverse anime dell’Anm in un contesto nel quale affermare l’unità associativa era essenziale ed importante.

Così la nostra contestazione nei confronti della legge ha finito per costituire un’altra occasione per aggiungere discredito, per farci additare all’opinione pubblica come una categoria di privilegiati decisi a mantenere i suoi ingiustificati privilegi. Credo che mai, neppure ai tempi del berlusconismo più becero e aggressivo nei confronti dei magistrati, la nostra popolarità e credibilità sia stata così bassa.

Per nostra fortuna sul tema della responsabilità civile dei magistrati è intervenuta la Corte di cassazione stabilendo che il magistrato al quale si contesta l’errore, non diventa debitore di colui che si ritiene danneggiato giacché in prima istanza è lo Stato a dover rispondere degli eventuali errori del magistrato. Con la conseguenza, importantissima per la tutela dell’indipendenza, che il magistrato, la cui opera è oggetto del giudizio di responsabilità, non può essere ricusato.

Non è la prima volta che accade che ciò che noi non riusciamo a dire come associazione di magistrati, venga solennemente affermato da qualche Collegio giudicante illuminato, a riprova del fatto che spesso sono i giudici e non i politici quelli più capaci di garantire ai cittadini una magistratura indipendente,

In un clima come questo, gli spari e i morti dentro il Tribunale di Milano suonano come un sinistro segnale della considerazione che molti cittadini hanno della giustizia e di chi la amministra. Certo, non è il caso di pensare che l’aggressione ai giudici (e agli avvocati) sia la diretta conseguenza della delegittimazione e dell’aggressione che da qualche lustro colpisce la magistratura.

Siamo abbastanza sereni per capire che il gesto di uno squilibrato (è difficile definire diversamente una persona che uccide giudici, avvocati e testimoni, ritenendoli responsabili delle sue disgrazie) non può essere preso per un messaggio sociologico o per un giudizio politico e nemmeno come manifestazione estrema di disprezzo della categoria. Ma l’aggressione nel palazzo di giustizia milanese resta pur sempre un gesto indicativo delle difficoltà e della distanza riscontrate da chi ha a che fare con la giustizia ed è un preoccupante segnale della crescente tensione che si scarica sul sistema giudiziario, senza che da parte dei cittadini si percepiscano lucidamente le responsabilità delle inefficienze e dei ritardi.

 

Se la salute dell’ordine giudiziario sembra incerta quella della classe politica si può decisamente definire malferma. Dopo molte polemiche abbiamo finalmente una nuova legge elettorale. Si potrebbe solo rallegrarsene se si pensa che non è più in vigore il Porcellum, una di quelle rare leggi il cui contenuto è peggiore del nome che le contraddistingue. Ma lascia l’amaro in bocca il modo in cui si è arrivati all’approvazione della nuova legge elettorale. Non vogliamo entrare nel merito della legge e dire se siano stati rispettati i due beni supremi che una legge elettorale dovrebbe garantire, quello della rappresentanza e dell’alternanza al governo del Paese. Ma non possiamo evitare di dire che la legge che per eccellenza è destinata a dettare le regole del gioco non ha registrato il preventivo consenso del Parlamento, tanto che il Governo ha dovuto porre la fiducia. Abbiamo già fatto amara esperienza di leggi fondamentali che vengono approvate solo da una parte politica, perché si possa evitare di concludere che la democrazia funziona solo quando si riesce ad ottenere che nelle regole fondamentali tutti possano riconoscersi.

Ma questo Parlamento non è neppure in grado di trovare l’accordo su questioni che possiamo definire di elementare civiltà giuridica. Dopo lustri di ritardo rispetto ad altri Paesi nell’introduzione nell’ordinamento del reato di tortura, la Corte di giustizia non solo ci ricorda che in Italia non esiste il reato di tortura (nonostante che la Convenzione dell’Onu impegni il nostro Paese ad adeguarsi), ma ce lo ricorda emettendo una sentenza su una delle pagine più dolorose della recente storia italiana: l’irruzione della polizia nella caserma Diaz durante la riunione del G8 a Genova. La sentenza della Corte ha un effetto oggettivo che è inutile nascondere: ci addita al disprezzo di tutti gli altri Paesi europei per non aver saputo fare giustizia nel caso della Diaz chiamando le cose con il loro nome e irrogando pene proporzionate alla reale natura dei fatti. Eppure abbiamo dovuto registrare nella reazione di molte forze politiche esitazioni, dubbi, incertezze e talvolta aperta opposizione all’introduzione del reato di tortura nel nostro codice. Come se potesse sfuggire ai più che il problema non è solo quello tecnico-giuridico della qualificazione di certi comportamenti, ma quello pedagogicamente esemplare di stabilire per legge penale il rifiuto della tortura. Addolora, ma non stupisce, l’opposizione all’introduzione del reato di tortura nel nostro codice di frange consistenti delle forze di polizia. Abbiamo già scritto altrove che si tratta di un calcolo miope e che prendere le distanze da eventuali episodi di tortura e dai torturatori gioverebbe, e molto, a tutte le forze di polizia.

 

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Questo numero della Rivista è l’ultimo ad essere stampato su carta. Dal primo numero del 2015 la Rivista uscirà in formato digitale. L’ultimo numero su carta chiude un ciclo e, come spesso accade, apre una straordinaria prospettiva.

Il ciclo che si chiude è cominciato molto tempo fa ed è stato molto importante per la magistratura e, se mi è consentito, anche per la storia di questo Paese. Tutto comincia quando (lo dico per i più giovani) un gruppo di magistrati di Md (nessuno dei quali per ragioni di età fa più il magistrato) si trovò nella casa bolognese di Federico Governatori per dar vita alla rivista Qualegiustizia. Ero anch’io nel folto gruppo di colleghi che a malapena entrava nella casa pur grande e accogliente di Federico. Eravamo convinti che occorresse svecchiare la cultura giuridica del nostro Paese e pensavamo che di giustizia non si dovesse parlare solo nelle paludate riviste giuridiche del tempo, che anche i non addetti ai lavori dovessero conoscere i problemi della giustizia, che si dovesse finalmente svelare la falsa neutralità del diritto e della giurisprudenza e che, infine, si potessero e dovessero criticare le sentenze, anche fuori dalle riviste specializzate di giurisprudenza.

C’era in quel gruppo entusiasmo e insieme rigore: fu questo il binomio che assicurò il successo della rivista. Fu la voce nuova, quella che ci voleva per mettere aria fresca in un mondo polveroso. Il successo fu notevole soprattutto tra i non magistrati; non so dire se vi fossero più lettori fra i magistrati oppure fuori della magistratura, ma ricordo bene che per il fronte progressista in Italia Qualegiustizia rappresentò per molti anni la bussola capace di orientare su tutte le questioni che riguardavano la giustizia.

Le vicende interne della Rivista furono tormentate tanto da determinarne la chiusura. Era l’agosto del 1977 quando fu consegnato all’editore il numero doppio 38-39, tutto dedicato alla giustizia disciplinare dei magistrati, con una formidabile presentazione di Salvatore Senese. Nel nostro ultimo numero facevamo il punto sull’incredibile persecuzione disciplinare che aveva colpito non solo Md, ma tutti quelli che si battevano per una giustizia moderna e non classista.

Ma Md non poteva rinunziare per troppo tempo a far sentire la propria voce, così com’era evidente la necessità da parte delle forze sociali e politiche di avere ancora a disposizione l’irrinunciabile elaborazione di quell’intellettuale collettivo che era diventata Md. La nascita di Questione Giustizia nel 1982 apparve a tutti naturale. Eravamo tutti convinti che, pur nella mutata veste grafica, la Rivista dovesse essere l’ideale continuazione di Qualegiustizia. E il suo primo direttore, che era il grandissimo Pino Borrè, individuò nel primo numero l’obiettivo: «riunire in un unico strumento le caratteristiche della precedente testata, quella di osservatorio sulla giurisprudenza, che costituì il maggior merito di Qualegiustizia e quella di momento di riflessione teorica….». Ora che sono passati trentatré anni da primo numero di Questione giustizia, possiamo dire che i fatti sono rimasti fedeli alle intenzioni dei fondatori. La Rivista ha continuato la sua puntuale critica sulla giurisprudenza e non ha mai smesso di riflettere sui mali della giustizia, sulle nuove prospettive della giurisdizione e sul modello di magistrato che le norme costituzionali propongono.

Si può dire, senza essere accusati di presunzione, che tutto questo è stato proposto ai lettori con uno ‘stile’ assolutamente nuovo che derivava direttamente da quella fucina di pensiero che per tanti anni è stata Magistratura democratica? I riconoscimenti di chi per anni ha seguito le nostre battaglie ci dicono che sì, che non c’è presunzione. Non posso dire se questo stile sia stato mantenuto anche negli ultimi anni della mia direzione, perché non spetta a me dirlo. Ma posso dire che ci abbiamo provato. Soprattutto ci ha provato un ridottissimo comitato di redazione costituito da persone di grande valore, così unite e solidali tra loro da riuscire a fare in pochi ciò che sarebbe stato difficile anche con una redazione più numerosa.

Con il 2015 Questione Giustizia  cambia completamente veste e diventa digitale. Si trasforma cioè in una rivista telematica e gratuita. Si tratta di una scelta capace di valorizzare le potenzialità delle nuove forme di comunicazione. Questione Giustizia sarà più ricca, più raggiungibile, più dinamica. Non sarà un salto nel buio, soprattutto grazie al lavoro che da due anni ha visto la redazione impegnata nella pagina web di questionegiustiziaonline, che ospita interventi più rapidi, essenziali, di immediato confronto con i fatti e le opinioni altrui.

Questa necessaria evoluzione, dovuta a molti fattori (i costi del cartaceo, i tempi degli editori per la stampa, l’odierna rapidità dei mezzi di comunicazione, ecc.) non sconvolgerà i nostri metodi di lavoro e, speriamo, neppure il cuore del nostro prodotto. Chi voglia verificarne la continuità col passato può farlo consultando gli indici di quanto è stato pubblicato dal 1982 al 2014, presenti sul sito di Md.

Naturalmente con il nuovo progetto editoriale non viene meno il legame culturale della Rivista con Magistratura democratica, il gruppo che l’ha promossa e ancora la sostiene e la finanzia, senza esserne il committente, convinto che i temi della giustizia richiedano un confronto aperto e uno sguardo critico e libero da condizionamenti.

La Rivista mantiene la periodicità e l’impostazione tradizionali, dato che l’articolazione in rubriche e il ricorso a “obiettivi” di approfondimento si sono rivelati nel tempo una soluzione efficace ed apprezzata.

Si aggiunga che i singoli numeri avranno la forma di un ebook, scaricabile secondo i formati più diffusi, così da consentire a chi lo desidera di stampare agevolmente il singolo volume e proseguire nella raccolta delle annate. Tutti potranno “portare con sé” la Rivista, fare ricerche e consultarla in ogni momento e in ogni situazione, dalla camera di consiglio al treno, dall’aula dell’università alla propria stanza.

Dunque una prospettiva affascinante, ancorata ad una certezza che viene dal nome del nuovo direttore. Renato Rordorf non è solo un membro autorevolissimo della Corte di cassazione, è uno dei magistrati di maggior spessore che possa vantare il nostro Paese. È una facile profezia prevedere che non solo il nuovo direttore guiderà la Rivista con l’autorevolezza che gli viene dalla sua straordinaria cultura, ma anche che assicurerà la continuità della linea della Rivista. Tutti noi sappiamo che le linee maestre della giurisdizione sono per Renato Rordorf quelle che derivano dalla feconda elaborazione di Magistratura democratica e delle altre forze vive che hanno alimentato il dibattito negli scorsi decenni.

Nell’augurare al nuovo direttore e al comitato di redazione ampiamente rinnovato un proficuo e fecondo lavoro, voglio salutare i lettori con una confessione. Ricordo che, quando ero un giovane pretore, avrei fatto qualunque cosa per scrivere su questa Rivista. Dirigerla in questi ultimi anni è stata un’emozione indescrivibile.

 

Beniamino Deidda

 

(chiuso in redazione il 9 maggio 2015)

 

 

24/07/2015
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