Magistratura democratica
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Il “dovere” della comunicazione giudiziaria

di Donatella Stasio
giornalista del Sole 24 Ore
Una magistratura consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità deve farsi carico del “diritto” della collettività ad essere informata
Il “dovere” della comunicazione giudiziaria

Una magistratura consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità deve farsi carico del “diritto” della collettività ad essere informata.

Attraverso una comunicazione corretta, trasparente e tempestiva, la giurisdizione “rende conto” della propria azione e si sottopone ad un effettivo controllo sociale, necessario contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura.

L’analisi di recenti vicende giudiziarie, di particolare rilevanza pubblica, conferma che la comprensione e l’ ”accettazione” delle decisioni passa attraverso un’ informazione chiara e tempestiva sul loro significato. Se la magistratura viene meno al “dovere di comunicare”, è destinato a crescere il pericoloso divario esistente fra la giustizia amministrata nelle aule giudiziarie e quella percepita dalla collettività. 

 

1. Due premesse.

La prima: la qualità di una democrazia dipende anche dalla qualità delle opinioni, delle discussioni, del dissenso. Quindi, dalla qualità della conoscenza. In definitiva, della comunicazione.

La seconda: la giustizia è soggetta al controllo sociale, contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura; ma per rendere effettivo il controllo sociale è necessario che la giustizia sia trasparente e comprensibile, che sappia parlare al cittadino e, dunque, comunicare, cosa ben diversa dal rincorrere il consenso popolare o un’immagine mediatica, magari funzionale alla costruzione di carriere parallele.

Queste due premesse sono indispensabili per una riflessione sulla “comunicazione giudiziaria” nella contemporaneità. La giustizia è potere, istituzione, servizio, funzione, e la comunicazione “di” e “su” queste sue molteplici facce è un momento fondamentale per la qualità della vita democratica di un Paese, che chiama in causa tutti gli attori. Nessuno può chiamarsi fuori dal diritto/dovere di comunicare. La velocità con cui oggi corre l’informazione e le piattaforme di cui si serve impongono quindi alla magistratura una consapevolezza maggiore, e per certi versi nuova, del suo diritto/dovere di comunicare, e delle modalità con cui farlo, per rendere effettivo il controllo sociale. La mediazione giornalistica è soltanto una delle forme di comunicazione della giustizia. 

Il tema è finalmente all’ordine del giorno della “formazione” dei magistrati ma la strada, non priva di insidie, appare ancora in salita. Autoreferenzialità, protagonismi veri o presunti, diffidenze, chiusure corporative in chiave difensiva, strumentalizzazioni politiche, rischio di confondere il piano giuridico e quello morale frenano il cammino dei magistrati verso la consapevolezza della comunicazione, premessa di qualunque ragionamento su modalità e tempi del comunicare. Ma poiché questa è la sfida da cui, oggi, passa anche la credibilità della giustizia, è su questo terreno che cercherò di svolgere le mie riflessioni, al di là dello stretto e consueto ambito dei rapporti magistratura-stampa. 

2. Il linguaggio.

Per restare nell’ambito processuale, il problema di una comunicazione corretta, trasparente e tempestiva va oltre i confini in cui viene tradizionalmente posto, cioè quello delle indagini. Riguarda ogni fase del processo e tocca Pubblici ministeri e giudici. Anzi, per certi versi è persino più pressante per questi ultimi, cui spetta la parola definitiva sul processo (o su una fase di esso), ma è una parola che continua a rimanere nel recinto di un linguaggio specialistico da addetti ai lavori e di tempi dilatati o comunque sfasati rispetto all’aspettativa dei cittadini di comprendere i motivi della decisione per formarsi un’opinione il più possibile informata, fuori da condizionamenti, luoghi comuni, reazioni emotive.

Ovviamente, l’arnese principale della comunicazione è il linguaggio. Quello del diritto, per sua natura tecnico, troppo spesso risulta oscuro - e perciò respingente – piuttosto che chiaro - e perciò “accogliente”. Un linguaggio oscuro e autoreferenziale rischia quindi di alzare un muro rispetto all’opinione pubblica mentre chiarezza e trasparenza consentono di abbatterlo, quel muro, e di misurarsi anche con una platea più ampia degli addetti ai lavori nonché con il cosiddetto sentimento popolare, specialmente quando questo invoca decisioni diverse da quelle pronunciate.

La chiarezza è una garanzia della giuridicità dei contenuti, ammoniva Piero Calamandrei. Tutto ciò che è oscuro non può appartenere al diritto, diceva Vittorio Scialoja. Ben più di recente, Giancarlo De Cataldo, consigliere di Corte d’assise d’appello ma anche scrittore e sceneggiatore (quindi uno che di comunicazione se ne intende), ha ammesso che per troppo tempo la magistratura ha considerato “volgare” la divulgazione, per paura di intaccare la sacralità della funzione giurisdizionale, mentre – ha spiegato durante un corso alla Scuola della magistratura - “bisognerebbe prendere atto della “desacralizzazione” e quindi abituarsi a pensare, ad esempio, che la sentenza non è solo un atto endoprocessuale ma sempre di più extraprocessuale”.

3. Il Pubblico Ministero.

Massimo Donini, ordinario di diritto penale all’Università di Modena, in un recente saggio su diritto penale e etica pubblica ha scritto che chi fa il giudice penale o il pm “non è un’autorità morale nella persona fisica che esercita quel ruolo né lo è sul piano istituzionale perché etica e diritto devono rimanere distinguibili anche se sono in parte sovrapponibili”. Tuttavia, “le Procure della Repubblica hanno in mano le sorti dell’etica pubblica, effettuano un controllo di legalità partendo dal diritto penale, così criminalizzando l’inosservanza delle regole dell’etica pubblica. Questa situazione rende impossibile distinguere etica e diritto penale almeno fino a quando l’etica pubblica non si sia essa stessa affrancata in definizioni indipendenti”.

Condivisibili o meno che siano, queste riflessioni stanno spesso sullo sfondo di alcune delle critiche di “protagonismo” o di “supplenza” rivolte, a torto o a ragione, alle Procure della Repubblica. Critiche che finiscono spesso per buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Il Pm deve saper coniugare il dovere del riserbo e la segretezza delle indagini con il “dovere” di comunicare. In questa direzione vanno anche le recenti raccomandazioni del Consiglio d’Europa ricordate da Giovanni Salvi, Procuratore della Repubblica di Catania, sempre alla Scuola della magistratura[1]. “Essere informati – ha detto Salvi - è un diritto della collettività e informare in modo trasparente e continuativo è un dovere del Pm e una componente della sua attività, perché è un modo per sottoporsi al controllo sociale”. Questo dato è stato “per troppo tempo oscurato”, ha aggiunto, perché negli ultimi vent’anni l’attenzione si è spostata “più sulla tutela del magistrato e sui limiti del suo diritto di esprimersi che sul dovere di informare”; ma il tema della comunicazione non può essere eluso, malgrado i rischi che certamente comporta e che sono ovviamente da evitare: la creazione di rapporti privilegiati con i giornalisti, la costruzione di un’immagine di sé da sfruttare in varie sedi, la commercializzazione del proprio lavoro.

Sempre più spesso, però, l’accusa di protagonismo - che risuona in reprimende politiche e istituzionali e trova facile risonanza mediatica – finisce per inibire il diritto/dovere del Pm alla corretta informazione. Pur riguardando specifici casi, anche un po’ datati, quell’accusa finisce per diventare una sorta di anatema preventivo generalizzato nei confronti di magistrati – soprattutto Pm – alle prese con procedimenti di forte impatto sull’opinione pubblica per le loro ricadute economiche e sociali o politicamente sensibili. E frena il difficile cammino verso la consapevolezza del dovere di comunicare.

Niente di più nefasto.

Nella “rete” del “protagonismo” è caduto anche il Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone in occasione dell’inchiesta Mafia-Capitale, che ha svelato intrecci tra il “mondo di sopra” (politico-istituzionale) e il “mondo di sotto” (criminalità organizzata). Accusato di aver mediatizzato l’inchiesta (partecipazione a convegni, conferenze stampa, interviste…) e di aver così accentuato lo squilibrio tra accusa e difesa[2], Pignatone è stato difeso ai livelli istituzionali più alti – Quirinale, Csm – ma l’indice puntato contro di lui è sintomatico della resistenza culturale – prima che politica - ad accettare che un rappresentante dell’accusa informi nel modo più ampio, trasparente e tempestivo i contenuti – anche tecnici – dell’inchiesta in corso, sia pure nel rispetto del segreto investigativo e della distinzione tra il piano del diritto penale e quello dell’etica.

Ciò non significa spostare i riflettori su mere ipotesi accusatorie penalizzando le ragioni della difesa, ma avere la consapevolezza che la giurisdizione deve “rendere conto” della propria azione, soprattutto quando sono in gioco la libertà personale, interessi economici o legami tra politica e criminalità. 

4. Il caso Fiorillo.

Anche il caso-Fiorillo è emblematico del diritto/dovere del Pm di informare con modalità e tempi che tengano conto della velocità con cui oggi viaggiano le informazioni. In quel caso, la catena gerarchica non aveva funzionato, quella della tutela istituzionale neppure, e i tempi del processo sarebbero stati inconciliabili, in concreto, con l’esigenza di ristabilire una corretta informazione.

Quindi, di fronte a una rappresentazione falsa della realtà fatta pubblicamente da un ministro della Repubblica (il ministro dell’Interno Roberto Maroni), la Fiorillo ha scelto – giustamente – l’unica strada che aveva per ristabilire la verità e tutelare l’onorabilità propria e della magistratura: ha usato la comunicazione mediatica. Il che le è costato un procedimento disciplinare con tanto di condanna alla censura (sanzione bizzarra in un contesto che ha a che fare con il diritto/dovere di informare!), ribaltato in Cassazione e, poi, definitivamente, dalla Sezione disciplinare del csm, che l’ha assolta.

Nella sentenza delle sezioni unite della Cassazione c’è un passaggio importante che a mio giudizio ha rappresentato una svolta nella percezione del valore della comunicazione: “La legittimità della condotta sul piano disciplinare”, si legge, va valutata in concreto e “non può limitarsi a individuare astratte alternative percorribili” senza prevederne gli effettivi risultati, poiché, scrive la Corte, “non può tacersi che nell’attuale società mediatica l’opinione pubblica tende ad assumere come veri i fatti rappresentati dai media, se non immediatamente contestati: la verità mediatica, cioè quella raccontata dai media, si sovrappone, infatti, alla verità storica, e si fissa nella memoria collettiva con un irrecuperabile danno all’onore”.

Come giornalista e come cittadina, aggiungo che il danno irrecuperabile non è solo all’onore della magistratura ma anche alla verità, o comunque alla corretta conoscenza dei fatti, cioè al diritto dell’opinione pubblica di essere informata correttamente, di cui devono farsi carico anche i magistrati.

5. THYSSEN: un caso di responsabilità comune

Il passaggio della sentenza delle sezioni unite sul caso Fiorillo mi consente di fare un altro esempio che “ci” riguarda – giornalisti e magistrati - perché mette in luce il corto circuito che a volte si crea tra media e magistratura in danno della comunicazione giudiziaria, con ricadute di varia natura: sociali, istituzionali, politiche.

Mi riferisco alla vicenda ThyssenKrupp e alla sentenza delle sezioni unite della Cassazione sul tragico rogo divampato nello stabilimento torinese in cui morirono 7 operai. La sentenza era molto attesa per sciogliere il nodo interpretativo sul “dolo eventuale” rispetto alla “colpa cosciente”, da cui dipendeva la conferma o meno della sentenza d’appello di condanna dei manager della Thyssen per omicidio colposo (e non volontario, come avevano invece stabilito i giudici di primo grado).

L’udienza è stata lunga e la camera di consiglio si è protratta oltre le 23.00, mentre all’esterno del Palazzaccio manifestavano i familiari delle vittime insieme a sindacalisti e operai di altri imprese, come l’Ilva. L’attenzione mediatica era comprensibilmente altissima.

Quando la Corte ha letto il dispositivo, i giornali erano quasi tutti già in seconda edizione o sul filo di lana della chiusura della prima edizione, alle prese con i titoli. Le agenzie di stampa si sono limitate a battere le prime righe del dispositivo, ovvero l’annullamento della sentenza d’appello relativamente alle pene, da ricalcolare in sede di rinvio, mentre la notizia della conferma della condanna per omicidio colposo aggravato, divenuta ormai irrevocabile, è passata in secondo piano e in qualche caso neanche è stata data: forse perché scritta alla fine del dispositivo, forse perché non compresa o passata inosservata. Cosicché tutti i media (o quasi tutti) hanno titolato: “Processo da rifare”, suscitando nei parenti delle vittime, e non solo, sconcerto, rabbia, sfiducia e un diffuso senso di ingiustizia. E’ stato un errore grave dell’informazione che, malgrado la rettifica del giorno dopo di fonti “anonime” della Cassazione, ha finito per cristallizzare nell’opinione pubblica l’idea di una giustizia lenta, inefficace e soprattutto ingiusta.

Al di là del giudizio – anche critico – sul merito di qualsivoglia sentenza, è indubbio che esso debba poggiare su dati di fatto reali, su elementi concreti di conoscenza. Nella vicenda Thyssen, i media hanno sbagliato due volte: hanno dimostrato scarsa professionalità e hanno soffiato sul fuoco del dolore, della rabbia e della sfiducia nella giustizia. Avevano l’attenuante dell’ora tarda, ma la responsabilità resta tutta. L’ho scritto allora e lo ripeto: meglio una notizia non data che una notizia sbagliata o distorta, tanto più se usata per cavalcare il sensazionalismo, l’emozione, il dolore.

Mi chiedo, però, se questo errore si sarebbe potuto evitare qualora la Cassazione avesse accompagnato il dispositivo con due righe o con un comunicato stampa che chiarissero immediatamente la portata e le conseguenze della sentenza, come peraltro hanno fatto il giorno dopo, sia pure in forma anonima. Se cioè avessero reso immediatamente comprensibile la portata del dispositivo letto a quell’ora tarda della notte.

Lo dico sebbene la Cassazione sia uno dei pochi organi giurisdizionali che si ponga il problema di una comunicazione informale rapida, soprattutto in occasione di processi di particolare rilevanza pubblica, attraverso la diffusione della cosiddetta “informazione provvisoria”. Che nella fattispecie, peraltro, è stata ignorata dai media pur riguardando il cuore del processo, ovvero la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente.

Ecco, il caso-Thyssen è un esempio di come la comunicazione della giustizia abbia perduto un’occasione importante per assolvere il proprio compito, anzi il proprio dovere: spiegare, far comprendere, non solo alle parti ma all’opinione pubblica intera, il significato di una decisione delicata e tecnicamente complessa, su cui da giorni erano accesi i riflettori. Prendersela soltanto con i media – e ribadisco che io l’ho fatto, quindi non cerco giustificazioni – è solo un modo per rimuovere un problema che riguarda anche i magistrati e al quale i magistrati non possono più sottrarsi. Neppure la Cassazione, che ha toccato con mano l’inadeguatezza dell’”informazione provvisoria”, forse ancora troppo rivolta agli addetti ai lavori piuttosto che a una platea più ampia. 

6. La consapevolezza e il consenso popolare

Quali sono le strade migliori, più efficaci per assolvere il dovere di comunicazione? La risposta non si improvvisa. Ma soprattutto, presuppone che sia già matura la consapevolezza del dovere di comunicare, che invece non è ancora radicata nella cultura della magistratura. Quindi è su questa consapevolezza che bisogna lavorare.

Piuttosto, torno ad alcune obiezioni o preoccupazioni ricorrenti – anche tra i magistrati - quando si parla di “comunicazione giudiziaria”. Ad una, in particolare: il rischio che la “comunicazione giudiziaria” diventi uno strumento di ricerca del consenso popolare e quindi finisca per intaccare l’imparzialità della giurisdizione.

Il pericolo esiste ma, come sempre, dipende da come viene gestita la comunicazione. Il principio-guida non può che essere quello della responsabilità: qualunque sia la decisione, chi la prende se ne assume la responsabilità. Non si tratta di giustificarsi né di convincere, ma di spiegare i motivi e i criteri che l’hanno determinata. Motivi e criteri su cui è legittimo discutere e anche dissentire; ma ciò che conta è la qualità della discussione e del dissenso, affinché non siano distruttivi bensì costruttivi.

E’ un terreno delicato. Del resto, gli stessi magistrati spesso si trovano “dall’altra parte della barricata” a discutere o a dissentire su decisioni di colleghi, anche sul loro grado di aderenza al sentire comune.

E’ avvenuto, fra l’altro, dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano sull’affidamento ai servizi sociali di Silvio Berlusconi. C’è chi ha contestato le modalità stabilite in concreto nell’applicazione della misura alternativa rispetto alla finalità di reinserimento sociale del condannato e chi, invece, il grado di aderenza di quella decisione proprio al sentire popolare, con il rischio che le misure alternative siano percepite dall’opinione pubblica come inutili; alcuni hanno obiettato che queste critiche sono ispirate all’idea che le sentenze debbano compiacere l’opinione pubblica; altri, pur avendo espressamente dissentito dalla decisione, hanno negato di averlo fatto sul presupposto che il giudice debba essere orientato dall’umore popolare, anche se questo, in certi casi, può coincidere con quello del giurista e del magistrato; e poi c’è stato chi ha sostenuto che la decisione, in sé non arbitraria, sia stata influenza da ragioni di opportunità politica e perciò fosse criticabile, al di là del merito. E così via…

Un confronto assolutamente democratico, costruttivo, che ha fatto riemergere un problema antico e reale, con cui va a impattare il tema del dovere di comunicazione, anche se non sempre in modo corretto.

7. Il caso ETERNIT 

Gli esempi sono davvero numerosi. Di recente, giuristi e opinione pubblica si sono spaccati in occasione della sentenza della Cassazione sul caso Eternit, che ha dichiarato prescritto il reato di disastro ambientale contestato dall’accusa. A tutt’oggi ancora non sono state depositate le motivazioni di quella decisione, che ha diviso – sia pure “al buio” - opinione pubblica e giuristi sulla sostanziale giustizia di quel verdetto e sui margini interpretativi della Cassazione per non azzerare il processo e “risarcire” le vittime con la condanna per un reato comunque accertato e dalle conseguenze micidiali.  In quell’occasione c’è stato chi ha criticato la Procura di Torino e i giudici di primo e secondo grado (che avevano confermato le accuse) di aver cavalcato un sentimento di giustizia mettendo in piedi un processo privo di fondamenta giuridiche e pervenendo a condanne destinate fatalmente a saltare. E chi, invece, se l’è presa con il formalismo della suprema Corte e con il suo tirarsi indietro rispetto alla possibilità di un’interpretazione evolutiva del diritto. Certo è che la Cassazione non è riuscita a spiegare subito le ragioni della sua decisione “controcorrente” – se non attraverso le solite dichiarazioni anonime – impoverendo così il dibattito pubblico o accreditando, indirettamente, le letture e le risposte della politica ai “falsi problemi” emersi dalla decisione.

Tutto ciò contribuisce ad aumentare la distanza del cittadino dalla giustizia e il suo senso di estraneità dalle istituzioni. Quante volte capita di sentire opinioni del tutto slegate dalla conoscenza dei fatti. Quante volte, di fronte alla notizia di un patteggiamento, sentiamo dire che è “una rinuncia o uno schiaffo alla giustizia”. O, nel caso di un’assoluzione, che è una “sconfitta della giustizia”. O ancora, che la condanna è ingiusta perché la pena non è stata “esemplare”. Reazioni spesso dettate – non sempre, ma frequentemente – più dalla pancia che dalla conoscenza dei fatti, delle leggi, dei meccanismi processuali, degli specifici comportamenti, oppure della valutazione sul disvalore sociale di una certa condotta in un determinato contesto storico e sociale.

Forse è una digressione: nel 2008 intervistai la giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, Ruth Bader Ginsburg, ormai 81nenne ma pilastro liberal della Corte. Parlando della pena di morte e della sua abolizione, mi rispose: “Se io fossi regina, non esisterebbe. Ma chi deve decidere sulla sua abolizione? Quando parlo con i colleghi europei che si sentono superiori perché non hanno la pena di morte, faccio notare che se avessero fatto un referendum quando hanno deciso di abolirla, probabilmente l'esito sarebbe stato negativo; se lo facessero oggi che la pena di morte è vietata, forse il divieto sarebbe confermato. Il problema è stabilire chi decide. È vero che l'America è un Paese democratico, ma ci sono temi che non possono essere lasciati alla gente e richiedono un livello diverso di decisione”.

Se questo è vero – e lo è - è altrettanto vero che alcuni temi richiedono un livello diverso di “conoscenza” affinché l’opinione pubblica non sia solo spettatrice o, peggio, succube ma protagonista informata dei grandi processi di trasformazione istituzionale, politica, giuridica.

8. Responsabilità e sentire comune

Il “livello diverso di decisione” che alcuni temi impongono a volte corrisponde al sentire popolare, a volte no, il che implica l’assunzione di una responsabilità politica o istituzionale. Ciò non significa sottrarsi al confronto con il sentire comune, anche se purtroppo – è un dato di fatto - il “sentire comune” non sempre coincide  con il “patrimonio comune” di principi e valori costituzionali. Questo, semmai, è il problema non più rinviabile con cui fare i conti. Quanto più ampio è lo scarto tra l’uno e l’altro, tanto maggiore è il dovere (della politica, delle istituzioni, dell’informazione) di ridurre quello scarto, anzitutto rendendo comprensibile il senso e la portata del patrimonio comune.

Ciò vale anche per il giudice e per le sue decisioni, al di là del fatto che siano impeccabili e criticabili. 

Il giudice non vive in un iperuranio giuridico, in un luogo metafisico al di sopra della sfera celeste, ma è immerso nella realtà nella quale fa vivere il diritto, applicandolo e interpretandolo di volta in volta. Altrimenti sarebbe un burocrate che applica meccanicamente la legge, secondo la concezione sillogistica del diritto, rassicurante ma anacronistica e pericolosa. 

Mai troppo citate le belle pagine scritte da Piero Calamandrei nelle sue “Opere giuridiche”, al capitolo “Giustizia e politica: sentenza e sentimento”.

“Ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare – scrive - vuol dire impoverirla, inaridirla, disseccarla. La giustizia è qualcosa di meglio: è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana. Ed è questo calore vitale, questo senso di continua conquista, di vigile responsabilità che bisogna pregiare e sviluppare nel giudice. Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici – continua - è l’assuefazione, l’indifferenza burocratica, l’irresponsabilità anonima. Per il burocrate gli uomini cessano di essere persone vive e diventano numeri, cartellini, fascicoli. Guai se questa indifferenza burocratica entra nei giudici! Noi non sappiamo che farcene dei giudici di Montesquieu, etres inanimés fatti di pura logica. Vogliamo giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia”.

Sono parole di grande attualità, che evocano l’immagine di una magistratura “in movimento”, consapevole del proprio ruolo, delle proprie responsabilità e dei propri doveri. Nonché della necessità di colmare la distanza tra giustizia e immagine della giustizia, tra realtà e rappresentazione (o percezione) della realtà, che rischia di diventare un baratro senza il suo apporto operoso. Non importa se la realtà sia migliore o peggiore dell’immagine; quel che conta è il dato di fatto della distanza. Colmarla o ridurla è indispensabile affinché il cittadino non si senta uno “straniero” - come il Meursault protagonista dell’omonimo libro di Albert Camus - ma sviluppi un senso di appartenenza alle istituzioni. 

 


[1]Considerazioni analoghe vengono offerte da G. Salvi in “I rapporti fra Procuratori e Media nel parere del CCPE (Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei)”, Questione giustizia online.

[2]L’esplicita censura agli «investigatori» per la «deliberata ricerca di una sponda mediatica tesa a creare consenso popolare» intorno all’inchiesta “Mafia Capitale” è stata espressa nel comunicato della Camera Penale di Roma del 16.12.2014, pubblicato in “Cronache del Garantista” , 16.12.2014. 

09/02/2015
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