Magistratura democratica
Magistratura e società

60 anni di Magistratura democratica *

di Elisabetta Cesqui
già magistrata

Campidoglio, 9 novembre 2024. L’incontro di oggi è una festa, perciò la mia è solo una testimonianza senza nessuna pretesa di organicità 

Sono stata in magistratura per 43 anni, in Md anche di più 

Conoscevo Md dall’università e incontravo i magistrati che ne facevano parte. Così, inconsapevolmente sono incappata da subito nella straordinaria specificità di Md, che è quella dell’apertura all’esterno.

Il segno distintivo e il fascino di Md mi sembrava stesse nell’impegno di quei magistrati per passare dai diritti scritti sulla carta, per quanto una Carta preziosa come quella fondamentale della Repubblica, alla realizzazione in concreto della promessa in essa contenuta, quella che per Lelio Basso era l’affermazione dei diritti non solo in favore dei soggetti più deboli, ma attraverso la spinta che questi imprimevano alla società. Per questo il tema dell’interpretazione della legge, cioè della sua applicazione al caso concreto, è stato sempre centrale nell’elaborazione culturale di Md, ma anche, per la stessa ragione, al centro degli attacchi che nel tempo, con varia e diversa intensità, le sono stati rivolti. Da lì nasceva l’attitudine a un’interpretazione costituzionalmente orientata (si parlava allora di “giurisprudenza alternativa”), come dal principio di soggezione solo alla legge nasceva l’impegno per la tutela dell’indipendenza dei magistrati sia verso l’esterno, nei confronti degli altri poteri, sia verso l’interno, e con esso lo sforzo per un diverso assetto degli uffici il cambiamento delle leggi di ordinamento giudiziario. 

Prospero, nella Tempesta, dice: «siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni»; Md è fatta della stessa materia di cui è fatta la Costituzione. Se questo è il suo connotato distintivo, è anche il suo destino al quale non può sottrarsi, la sua dolce condanna. E siccome è una festa, oggi parliamo solo del lato positivo del karma di Md; per parlare dei limiti ci saranno altre occasioni. 

Per me i primi anni furono di straordinario coinvolgimento, effervescenti e tragici al tempo stesso. Poi, via via, l’effervescenza è sfumata. Capitava di tutto…

Ti poteva capitare di partecipare (in nome della sezione romana) a un incontro alla Camera dei deputati (era la prima volta che ci mettevo piede) con gli antimilitaristi e gli obbiettori di coscienza, e trovare nell’austera stanza di riunione molti dei partecipanti che facevano discorsi serissimi con uno scolapasta in testa.

Così come ti capitava di vivere anche le riunioni tese e, a volte, laceranti della sezione romana, che era la più radicale e indisciplinata d’Italia. Basterà qui evocare, per la sua componente “di sinistra” – proprio quella più radicale e indisciplinata – i nomi di Gabriele Cerminara, Franco Marrone, Francesco Misiani, Luigi Saraceni, per farsi un’idea di quanto impegnative potessero essere quelle riunioni. Per di più, questo avveniva nella sede giudiziaria più contigua e sensibile alle pressioni del potere politico, che era percepibile e incombente nella vita quotidiana degli uffici. 

Ricordo interminabili riunioni in stanze piene di fumo, in cui, riflettendo un contrasto diffuso nel Paese, si contrapponevano le istanze espresse in maniera più forte dai soggetti istituzionali della sinistra, i sindacati, il partito: «il soggetto storico della trasformazione» e le posizioni più estreme del movimentismo e dell’antagonismo per le quali qualcuno parlava di «libero dispiegarsi delle dinamiche sociali» e che ponevano il problema della risposta non solo politica, ma anche giudiziaria (erano, peraltro, i temi attorno ai quali si era sfiorata la scissione al Congresso di Rimini del 1977). 

C’era, in quelle riunioni, un gran dispiegarsi di intelligenza e passione perché, al di là di contrapposizioni che oggi sembrano assai datate anche nel linguaggio con cui si esprimevano – e che per questo ho voluto ellitticamente richiamare –, vertevano attorno al tema centrale di come dovesse declinarsi, a fronte della legislazione penale speciale, il garantismo penale (nel 1978 c’era stato il referendum sulla “legge Reale”, che aveva visto posizioni molto differenziate all’interno della stessa sinistra), e perché tutti gli altri temi attorno ai quali si discuteva erano centrali nel rapporto tra la giurisdizione e la società ed erano quelli del lavoro, del diritto alla casa, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, che, nell’attività della sezione lavoro (Marco Pivetti ne è stato uno dei protagonisti) e della V e IX sezione della Pretura, si confrontavano con la loro concreta tutela e la loro quotidiana violazione.

Capitava poi che fatti terribili ti segnassero profondamente e indirizzassero le tue scelte professionali, come fu per me l’uccisione di Mario Amato e il successivo impegno del gruppo di magistrati della Procura che si occupava dell’eversione di destra.

Non fu risparmiato niente: procedimenti penali (solo per fare un esempio, gran parte della sezione romana finì sotto processo all’Aquila per diffamazione a causa di un volantino di critica ai capi degli uffici per la gestione di un processo), interrogazioni parlamentari (penso a quella dell’On. Claudio Vitalone, ex-magistrato dello stesso ufficio, per sapere quali accertamenti fossero stati fatti sui collegamenti tra alcuni magistrati romani - i soliti radicali indisciplinati della sinistra della sezione romana - e le formazioni terroristiche), schedatura dei servizi, procedimenti disciplinari a più non posso e violentissime polemiche pubbliche. 

Ma se ci ripenso oggi, la cosa più preziosa di quei primi anni è stato l’incontro con magistrati capaci di un esercizio “alto” della giurisdizione.

L’esercizio “alto” della giurisdizione richiede una grande competenza tecnica, ma anche una relazione piena con la realtà sociale (come diceva Marco Ramat, il contrario del «magistrato di clausura», che come le suore vive chiuso nel chiostro e protetto da ogni contaminazione, senza che questo però possa lasciare dubbi su quale sarà la sua scelta al momento del voto). D’altra parte, Pietro Ingrao, che al congresso di Giovinazzo del 1981 definì Md «uno strano animale», era colpito e incuriosito proprio dalla particolare declinazione con la quale, dentro Md, si incontrassero competenza professionale e sensibilità politica (il rapporto, come ebbe a dire, «tra politicità generale e competenze»). 

Per questo tipo di magistrato, di animo colto, l’applicazione del diritto al caso concreto nella “direzione” del progetto costituzionale viene da sola e restituisce provvedimenti chiari qualunque sia la materia trattata. Le domande di fondo sono sempre le stesse: chi ha veramente subito il torto? Chi ha necessità della tutela? Cosa ti dice di fare la legge interpretata secondo i principi costituzionali? Sono state rispettate le regole del processo, e queste che strada tracciano per arrivare alla decisione? Alla fine sembra quasi facile e, quando non si può andare oltre, ci si ferma o si va alla Corte costituzionale, o alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Se leggiamo una sentenza di Renato Rordorf è facile capire cosa voglio dire, così come era facile capire quale fosse la via maestra se ti capitava di fare l’uditore con Gianfranco Viglietta.

Md non ha né il monopolio né il copyright di questo modello di magistrato, ma io l’ho conosciuto lì. Poi ne ho incontrati tantissimi altri, di tutti gli orientamenti, ma i miei “Lorenz” li ho trovati tra quelli di Md. In questa giornata non possiamo non pensare a Renato Greco, che solo due giorni fa ci ha lasciato.

Se ripenso a quegli anni, non ricollego la mia personale esperienza alla dimensione di genere, pur avendo preso parte ai grandi cortei femministi degli anni settanta. 

Questo nasceva dall’illusione di non averne bisogno. Una volta che l’anonimato del concorso mi aveva permesso, senza pagare prezzi particolari per il fatto di essere donna, non di sfondare il soffitto di cristallo, ma di saltare la staccionata ed entrare nel recinto, mi sembrava che quella necessità, che tutte hanno messo in luce, di fare tutto meglio degli altri e di fare sempre tutto senza tirarsi indietro attenesse più a profili di insicurezza personale che a una questione, nella sostanza, di straordinaria portata sociale e politica. Allo stesso modo, pensavo che l’aneddotica maschilista che costella la storia professionale di ciascuna di noi servisse solo per sorriderci sopra. 

Il raggiungimento della parità comporta un processo lento e difficile, come difficile è stata la sua semplice affermazione formale. Giustamente Gabriella Luccioli, in occasione del 60° anno dell’ingresso delle donne in magistratura, ricorda come fosse diffusa e radicata la resistenza di molti degli stessi Padri costituenti all’accesso delle donne a tutte le funzioni pubbliche e quale panorama “desolante” di pregiudizi e di arroganza trasparisse dalle discussioni che portarono poi all’approvazione faticosissima del primo comma dell’art. 51 (poi integrato nella parte finale nel 2003), dietro al cui tenore testuale – per quella chiusa del primo comma: «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge» – si sono arroccati gli oppositori dell’ingresso delle donne, che si sono dovuti arrendere solo dopo la sentenza del 1960 della Corte costituzionale, che dichiarò l’illegittimità dell’art. 7 della legge n. 1176/1919. 

Alcune posizioni paradossali di allora (l’inattingibilità della “rarefazione del tecnicismo” propria delle giurisdizioni superiori, di cui parla l’On. Fanfani; oppure l’On. Molè, che richiama le teorie di Charcot sulla incompatibilità anatomo-fisiologica della donna all’equilibrio della decisione nei giorni del ciclo) non meritano neanche più di essere ricordate, ma lo stesso Legislatore costituente, che era volato altissimo nella formulazione dell’art. 3, fatica di più quando, poi, il principio di uguaglianza uomo/donna si specifica nell’accesso agli uffici pubblici e nella parità salariale (art. 37, prima parte). Maria Federici, che tenne fermo il punto quando si trattò di evitare che subordinate di qualunque tipo fossero introdotte nella stesura dell’art. 106 (accesso in magistratura), nella seduta del 10 maggio 1947, quando si trattava della parità salariale (quello che poi sarà il primo comma dell’art. 37), dice: «questo articolo è il riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Di qui a pochi anni noi dovremo addirittura meravigliarci di aver dovuto sancire nella Carta costituzionale che a due lavoratori di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetti la stessa retribuzione». Oggi, con amarezza, dobbiamo constatare che quel principio, sebbene sia stato introdotto in Costituzione, non riesce ancora a trovare attuazione. 

Quando ho cominciato a riflettere sul progressivo aumento della presenza delle donne avevo una preoccupazione indotta dal fatto che, nell’esperienza storica, il lavoro femminile si è sempre esteso per capillarità negli spazi che gli uomini lasciavano liberi, privilegiando altri terreni. Il timore era che, man mano che le donne prendevano piede, la funzione giurisdizionale ne risultasse in qualche modo marginalizzata. Era una preoccupazione sbagliata, non perché siano mancati tentativi di delegittimazione e marginalizzazione della giurisdizione, anzi, ma perché le donne possono rivendicare orgogliosamente di aver interpretato «con disciplina ed onore» (art. 54 Cost.) la loro funzione, senza subalternità e senza nessuna diminuzione dei contenuti tecnico-giuridici delle decisioni. Se posso spiegarmi con un esempio, sfido chiunque a sostenere il contrario dopo aver letto una sentenza di Stefania Di Tomassi. 

Secondo me le donne (per quanto sia arbitrario generalizzare e ogni generalizzazione si esponga al ridicolo della smentita puntuale) hanno con le regole un approccio più pragmatico e meno conflittuale; hanno più l’attitudine, che sollecitava Lorenza Carlassare, di domandarsi sempre: “Ma dove sta scritto? Perché avete fatto sempre in questo modo?” (lei si riferiva al diritto di voto delle donne prima della Seconda guerra mondiale e alla famosa sentenza di Mortara); nelle organizzazioni complesse sono più collaborative; hanno con il potere – e l’esercizio di un potere è coessenziale alla giurisdizione – un rapporto di minore identificazione e personalizzazione e, soprattutto, un approccio non proprietario come quello degli uomini.

Le donne, infine, sanno – e lo hanno insegnato anche agli uomini – essere persone a tutto tondo e non bassorilievi, che negano quelle dimensioni di sé che temono possano essere colte come un segno di debolezza. 

È stato soprattutto il pensiero delle donne che ha fatto capire come l’uguaglianza non stia nel negare le differenze, ma nel riconoscerle, tenendo conto, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, che il contrario dell’uguaglianza non è la differenza, ma la discriminazione. 

Allora la domanda vera è non è quanto sia numerosa la presenza delle donne (oggi il 57%, 5070 a fronte di 3841), ma cosa essa abbia significato nella sostanza. E penso, per quello che ho detto, che le donne abbiano fatto “bene” alla magistratura. 

Le conquiste delle donne possono essere lente, ma credo che siano inesorabili perché si tratta di un cambiamento non solo politico, sociale, normativo ed economico, ma anche antropologico, che ha inciso sul modo di essere, la natura non solo delle donne, ma anche degli uomini. È vero che questo vale soprattutto per il mondo occidentale (la lotta delle donne iraniane del movimento “Donna, vita e libertà” ci rimanda a una realtà ben diversa, come ci ricorda da ultimo l’appello di MEDEL di qualche giorno fa) e che, nel nostro mondo, la messa in discussione del diritto all’aborto aggredisce alla radice il principio di autodeterminazione, ma tutto questo non smentisce la natura del cambiamento, ci avverte solo della necessità di un impegno costante per realizzarlo compiutamente e per vigilare sui tentativi di arretramento. Stiamo purtroppo vedendo come nel mondo né la democrazia né soprattutto la pace siano irreversibili, ma sulla questione di genere non vedo la prospettiva di una definitiva inversione di marcia. 

Da questo, e dalla sua storia, io penso che Md, in un quadro generale per tanti versi cupo, possa trarre qualche ragione di ottimismo e sono sicura che continuerà nel suo impegno con quella «instancabile ragionevolezza» alla quale ci ha richiamato di recente Nello Rossi.

[*]

Testo dell’intervento pronunciato nella festa per i  sessant’anni di Magistratura democratica svoltasi a Roma nei giorni 9 e 10 novembre 2024 , destinato alla pubblicazione sul numero 4/2024 della Rivista Trimestrale

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