Magistratura democratica

Certezza del diritto e clausole generali

di Massimo Luciani

Il tema dell’opportunità o meno del ricorso alle clausole generali non può essere disgiunto da quello più ampio dell’interpretazione. Decisivo, in particolare, è interrogarsi sul rapporto caso/norma/interprete, chiedendosi se questi sia o meno tenuto a trovare soluzioni «adeguate al caso». La risposta data in questo scritto è negativa.

1. Principi, valori, clausole generali / 2. La giurisdizione, la legge, il caso / 3. I gravi rischi di una giurisprudenza orientata al caso / 4. Cenni conclusivi

 

1. Principi, valori, clausole generali

Enrico Scoditti sollecita la nostra riflessione sul «passaggio da una disciplina per clausole generali a una disciplina per fattispecie tipizzate» cui mira una recente iniziativa legislativa del Governo[1]. «Con la norma a fattispecie la disciplina del rapporto torna al legislatore», egli osserva, e si chiede se questo sia un bene o sia un male.

La sua risposta è formulata in modo cauto, ma appare evidentemente orientata pel secondo corno del dilemma.

Certo, «la giurisdizione per clausole generali è preposta alla realizzazione della giustizia commutativa, ma se il tema è quello della giustizia distributiva o redistributiva è la legge in forma di fattispecie astratta e generale che entra in gioco». Certo, «la clausola generale è strumento di superamento delle asimmetrie che impediscono la concorrenza perfetta, ma consentire l’eguale accesso a beni e servizi è un compito di riforma sociale che solo la legge in forma di fattispecie può attuare». Certo, «se il diritto vuole marcare la propria autonomia rispetto a una fattualità dominata dalle potenze sociali e guadagnare forza deontologica rispetto alla società non può fare a meno della principale eredità dell’illuminismo giuridico, la legge generale e astratta». Nondimeno, il ricorso alle clausole generali sembra essere apprezzato più di quello alle norme a fattispecie, visto che l’argomentazione che utilizza tali clausole è «diversa da quella per sistema: la controversia è risolta non mediante sussunzione del caso negli schemi del sistema, ma valorizzando le stesse circostanze del caso alla luce del valore che il legislatore ha positivizzato nella clausola generale». Una prassi argomentativa, poi, che è «segno di attivismo giudiziale», ma evidentemente va anche considerata una buona prassi, perché – scrive Scoditti – l’idea che «la giurisdizione per clausole generali» costituisca «un attentato alla certezza del diritto» sarebbe «un pregiudizio da cui liberarsi». Anzi, ius-dicere per clausole generali sarebbe uno strumento per applicare e attuare l’art. 3, comma 2, Cost., rimediando agli «abusi all’interno delle relazioni di mercato nella sede specifica della formazione del contratto o della sua esecuzione».

Ora, prendere posizione su questa delicata questione esigerebbe un complesso itinerario argomentativo, difficile da sviluppare negli esigui limiti di spazio che ci sono stati concessi. Andrò dunque per punti, rischiando – temo – l’apodissi.

i) Anzitutto, qualche precisazione terminologica.

“Clausole generali” e “principi generali” sono formule utilizzate sinonimicamente, ma non è affatto detto che sia così e non a caso vi sono molti che le distinguono. 
A mio parere, ben sapendo che vi sono plurime classificazioni disponibili, propongo[2] di qualificare “clausole generali” quelle espressioni linguistiche che:

a) sono utilizzate dal legislatore (costituzionale od ordinario, non importa);

b) sono caratterizzate da particolare ampiezza prescrittiva e indeterminatezza di contenuto semantico (sicché possono anche sovrapporsi senza troppi problemi ai “concetti giuridici indeterminati”);

c) non esibiscono solo questo tratto distintivo, perché altrimenti si differenzierebbero dalle comuni espressioni linguistiche giuridicamente rilevanti solo per un profilo quantitativo, non qualitativo, il che (a meno che non si condivida la “legge” della trasformazione della quantità in qualità)[3] non basta. In realtà, un proprium qualitativo c’è e passa per la frontiera che separa gli Erfahrungsbegriffe (“concetti empirici”) e i Wertbegriffe (“concetti di valore”)[4]. Si tratta infatti di espressioni linguistiche che esplicitano alcune opzioni assiologiche del legislatore e, grazie a questo, fanno valere esigenze di apertura e dinamicità dell’ordinamento (è il classico tema degli “organi respiratori” del diritto)[5]. Esempi tipici ne sono, come si sa, buona fede, utilità sociale, buon costume, etc.

I principi, invece, non sono necessariamente costrutti come le clausole generali, né ne posseggono le caratteristiche. Si pensi al principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Oppure al principio di proporzione fra danno e risarcimento. Anche in questo caso, come in qualunque previsione normativa, v’è un’opzione di valore, ma essa resta sullo sfondo e non è direttamente esplicitata da un’espressione linguistica[6].

ii) Come si sa, gli ordinamenti, per varie ragioni storiche, oscillano continuamente tra la fuga “nelle” e la fuga “dalle” clausole generali, tra la loro esaltazione e la loro ripulsa.

Contro le clausole generali – ha scritto Natalino Irti, riprendendo i classici spunti di Max Weber – militerebbe l’esigenza di certezza imposta dallo sviluppo capitalistico, che vorrebbe garantita la calcolabilità e la prevedibilità delle conseguenze degli atti dell’homo oeconomicus, a tutela degli investimenti.

A loro favore, invece, starebbero – secondo una diffusa opinione – la difficoltà (crescente, nelle società complesse) di una regolazione puntuale; la connessa crisi della fattispecie; l’inarrestabile fuga del legislatore dalle sue responsabilità; la messa in discussione della legittimazione e delle capacità della rappresentanza politica, che reclamerebbe la supplenza del potere legislativo da parte del potere giudiziario.

Quanto all’argomento critico, ribadirei quanto già a suo tempo osservavo, cioè che l’esigenza di certezza non è solo un portato del capitalismo, ma, più in generale, è, per un verso, una qualità consustanziale al diritto come strumento di regolazione sociale e, per l’altro, un lascito della modernità, la quale, se comprende il capitalismo, nel capitalismo non si esaurisce. Un lascito della modernità soprattutto politica, nel senso che lo Stato moderno nasce (nel disastro delle guerre civili e di religione) come erogatore di prestazioni di sicurezza (fisica) per i sudditi e che la certezza giuridica non è altro che la proiezione della sicurezza nel dominio del diritto. Statualità, sicurezza e certezza sono, dunque, una triade politica indissolubile, la cui costruzione precede di un paio di secoli i trionfi economici del capitalismo[7].

Quanto all’argomento simpatetico, direi che finisce per provare troppo, giustificando una crisi della politica e della rappresentanza che sono – puramente e semplicemente – crisi dello Stato democratico di diritto per come l’abbiamo conosciuto sino ad oggi, alla cui fine, volenti o nolenti, c’è la sua sostituzione con uno Stato aristocratico di giurisdizione.

 

2. La giurisdizione, la legge, il caso

E veniamo, appunto, alla questione – cruciale – della giurisdizione.

La posizione sostenuta nello scritto che sollecita il nostro dibattito è, come accennavo, relativamente prudente. Lo stesso richiamo al necessario mantenimento di presupposti illuministici non è cosa di poco conto, perché: a) il costituzionalismo della seconda modernità è figlio dell’illuminismo (in particolare, dell’idea che gli uomini siano padroni del loro destino e che possano disegnarne una parte significativa dandosi una Costituzione); b) la certezza del diritto (la sua difesa) è «uno dei cardini della concezione giuridica illuministica»[8]; c) l’illuminismo è in stretto rapporto con il positivismo giuridico[9].

Resta, però, la questione fondamentale del rapporto fra interprete e caso concreto. L’esigenza che traspare dalla posizione di Scoditti (espressiva, in questo, di un atteggiamento assai diffuso) è quella di non accontentarsi della «sussunzione del caso negli schemi del sistema», ma di valorizzare «le stesse circostanze del caso», sia pure «alla luce del valore che il legislatore ha positivizzato nella clausola generale».

In chiusura, Scoditti richiama quello che (almeno a me) sembra un recente dubbio (o un ripensamento?) del «padre del diritto mite», il quale ora si chiede: a) se sia davvero possibile, oggi, in una realtà sociale frammentata, rinvenire quella «“carnalità dell’esistenza” in cui il popolo trova la sua sostanza storico-concreta e in cui il diritto affonda le sue radici dalle quali i giuristi devono trarre la linfa del loro lavoro»[10]; b) se la legge non sia essenziale per fronteggiare il prepotere dell’economia e se «la sottovalutazione delle potenzialità riformatrici della legislazione non ci consegn[i] impotenti alla fattualità (...)»[11]. Un dubbio (o ripensamento) che, personalmente, registro con ovvia soddisfazione, ma che non si accompagna a quello che sarebbe davvero necessario, cioè al ripensamento del rapporto fra caso e norma, se è vero che ancora oggi il nostro Autore conferma che il giudice deve prima accertare il “bisogno di diritto” del caso concreto e solo dopo volgersi alle norme positive[12].

Così facendo, Zagrebelsky ribadisce l’esigenza di una giustizia “orientata al caso” già messa in luce in passato, affermando che l’ermeneusi «trova la sua pace nel momento in cui si compongono nel modo più soddisfacente possibile le esigenze del caso e quelle del diritto»[13]; che l’interpretazione giudiziale è «ricerca della norma regolatrice adeguata sia al caso che al diritto»[14]; che «nel conflitto tra il diritto e il caso, cioè le esigenze del caso, l’ordinamento sceglie queste ultime»[15]; che «le esigenze dei casi valgono di più della volontà legislativa e possono invalidarla»[16].

Ora, al di là del serissimo dubbio (che qui non posso motivare) sull’effettiva mitezza del “diritto mite” nella costruzione di Zagrebelsky[17], non posso che ribadire quanto a mio avviso sia discutibile (ovviamente la considerazione non riguarda il solo Autore qui ricordato) parlare di «esigenze del caso». Per farlo, infatti, occorre seguire un periglioso itinerario logico-argomentativo: si premette che il testo normativo è, in sé, “muto” perché non potrebbe parlare restando separato dal cotesto, senza essere immerso nel contesto e senza essere posto a raffronto con il caso; poi però si afferma che il caso – invece – ci “parla”, evidentemente per una virtù sua propria che non è delucidata. Delle due, in realtà, l’una: o è il caso che “parla” da sé, facendosi parametro[18], il che non può essere perché il caso non può essere all’un tempo oggetto e paradigma, oppure nel caso parlano, in realtà, aspirazioni morali e convincimenti etico-politici, non potendo le “esigenze” del caso essere elevate ad autoreferenziali paradigmi[19].

La posizione di Scoditti è – dicevo – più prudente, ma quella che ora ho descritto merita d’essere considerata con grande attenzione, perché gode di un seguito non irrilevante.

 

3. I gravi rischi di una giurisprudenza orientata al caso

Chi predilige una giurisdizione orientata al caso intende dunque far valere – implicitamente, ma non meno chiaramente – delle esigenze di carattere morale, ritenendo che una separazione fra diritto e giustizia non possa essere concepita e che questa sia – anzi – una delle colpe principali del positivismo giuridico. Tanto, in nome di esigenze di tutela di vario genere, attinenti ai diritti umani, alla dignità umana, all’eguaglianza, etc., che suggerirebbero di attingere a valori “oggettivi” o, al più, a un diritto posto al di là di quello positivo, da reperire nelle pieghe della realtà giuridica, nelle correnti profonde dell’autoregolazione sociale. Purtroppo, preoccupazioni morali di questo tipo non sono confortate dal diritto costituzionale positivo e dalla storia.

Quanto al primo profilo, per temperare l’inevitabile coloritura aristocratica della giurisdizione, l’art. 101, comma 1, Cost., vuole ch’essa sia «amministrata in nome del popolo», di quel popolo – cioè – che esercita la propria sovranità nelle forme stabilite dalla Costituzione (art. 1), epperciò anche nelle forme rappresentative (tramite la legge parlamentare). Il richiamo al popolo, però, non è quello alla nazione: l’art. 101 Cost., legando la giurisdizione al popolo e non alla nazione, vieta che le “correnti profonde” che l’interprete ritenga di percepire nel corpo sociale prevalgano sulla volontà popolare, per quanto contingente e per quanto mediata dalla rappresentanza (cioè dalla legge) essa possa essere[20].

Quanto al secondo profilo, le preoccupazioni morali di cui ho discusso, sebbene ascrivibili a intenzioni nobilissime, fanno purtroppo uso (l’ha ben colto Bernd Rüthers) dei medesimi argomenti teorici di chi con tali intenzioni non ha mai avuto nulla da spartire: il momento storico nel quale il gius-positivismo ha subito gli attacchi più duri e in cui la separazione fra diritto e giustizia è stata più radicalmente messa in discussione, infatti, è il decennio nazionalsocialista[21].

Parlando, nel suo vergognoso Der Führer schützt das Recht, del discorso di Hitler al Convegno dei giuristi tedeschi del 3 ottobre 1933, Carl Schmitt scrisse ch’egli «mostrò l’opposizione tra un diritto pieno di sostanza, non separato dalla moralità e dalla giustizia, e la vuota legislatività di un’irreale neutralità e sviluppò le contraddizioni interne del sistema weimariano, che si autodistrusse in questa legalità neutrale e si consegnò ai suoi propri nemici»[22]. Non solo: «tutto il diritto scaturisce dall’esperienza giuridica del popolo. Ogni legge statale, ogni pronuncia giurisdizionale contiene tanto diritto quanto gliene viene da questa fonte. Il resto non è diritto, ma un “complesso di norme obbligatorie”, di cui un abile delinquente si fa beffe»[23]. Così, a me sembra, traluceva la saldatura fra riconduzione del diritto alla vita concreta e rottura della separazione fra diritto e morale, secondo un approccio tipico del periodo[24], ma che oggi si sta riproponendo.

Ora, quando alla positività si sovrappone la pretesa “oggettività” dei valori e quando si ammette che possa esservi un diritto (positivo) che in realtà non è diritto si rischia davvero di cadere nell’abisso del soggettivismo più spinto e del più incontrollabile arbitrio etico-politico. È un paradosso che un giurista (un tempo) rigorosamente positivista come Gustav Radbruch l’abbia corso dopo l’orrore dell’Olocausto, sostenendo che potrebbero darsi ipotesi di diritto/non diritto quando il precetto normativo è contrario ai principi di giustizia[25]. Ed è un paradosso che oggi lo corrano i molti studiosi e magistrati che mettono in discussione la salvifica frontiera fra la morale e il diritto. Certo, allora si trattava di reagire alla barbarie del nazismo e oggi si tratta di reagire sia alla delusione per una legislazione dilettantesca sia al sentimento dell’ingiustizia di un assetto sociale diseguale quale mai era stato dagli anni settanta in poi, ma oggi come allora il prezzo che si paga è l’acquiescenza ai paradigmi argomentativi del proprio nemico (proprio discutendo di Radbruch, non ha forse dimostrato Hart che l’applicazione delle sue tesi da parte dei tribunali tedeschi nel secondo dopoguerra è stata segnata da preoccupanti abusi?)[26].

Compito del giurista, compito del giudice, non è trovare la soluzione “giusta”, ché una simile pretesa implica «la presunzione di essere nel possesso monopolistico della verità nelle questioni valutative»[27], ma solo di trovare la soluzione “esatta” (che ovviamente non vuol dire “unica possibile”)[28], nell’esercizio di un’attività che, nella parte in cui è volta all’interpretazione, è cognitiva. Anche qui, però, non posso far altro che rinviare ad altri scritti per la dimostrazione (spero...) di queste affermazioni[29].
Se, ora, veniamo in particolare alle clausole generali, è noto che proprio il diritto nazionalsocialista ne era infarcito[30]. Esse, dunque, possono essere (e sono state in fatto) utilizzate contro le esigenze morali di cui sopra ho detto.

Va da sé che nelle ben diverse atmosfere della Costituzione i principi costituzionali, anche ove espressi nella forma di clausole generali, hanno ben altra intenzione e finalità. Tuttavia, il diritto per principi e Generalklauseln, tipico delle costituzioni del secondo dopoguerra, non comporta il travolgimento della divisione dei poteri e non consente all’interprete un posizionamento analogo a quello di colui che si incontra con il diritto naturale, in ragione del fatto che, «in presenza dei principi, la realtà esprime valori e il diritto vale come se vigesse il diritto naturale»[31]. Fra il diritto naturale (moderno) e il diritto positivo (ancorché di rango costituzionale) corre infatti una differenza non riducibile, che è data dall’intermediazione della volontà positivizzante. E la presenza di questo elemento volontaristico fa irrompere nel ragionamento dell’interprete elementi quali il testo (anzitutto!), la storia, la vicenda politica, le soggettività sociali, che precludono qualunque sovrapposizione di logiche e di effetti tra due mondi (quello del diritto naturale e quello del diritto positivo, appunto) che restano irriducibili l’uno all’altro (fosse pure nella chiave dell’evocativo Als-Ob della dottrina ora ricordata).

 

4. Cenni conclusivi

La questione delle clausole generali, in definitiva, non può essere separata da quella generale dell’interpretazione. La linea di frontiera dell’accordo o del disaccordo sul loro impiego passa fatalmente, allora, per la posizione che si assume quanto al triangolo caso/norma/giudice. La rinuncia alla concezione dell’interpretazione come attività cognitiva e l’abbandono del caso a se stesso – cioè (a me pare) ai paradigmi morali del giudice – non può non sollecitare, in chi la pensa diversamente, le perplessità più forti su un eccessivo ricorso alle clausole generali. Come rimuovere, allora, questa diffidenza?

Il ritorno a un’autocomprensione della giurisdizione come attività applicativa della legge (per evitare equivoci: delle fonti, Costituzione compresa) è essenziale. Anche le clausole generali possono essere lette e applicate in conformità a questo approccio, in particolare ricostruendone il contenuto non con il ricorso alle insondabili correnti profonde della società, ma con l’accertamento di come il diritto positivo, evolvendosi, le ha inverate nelle plurime norme a fattispecie delle quali si compone. Il giudice è il fondamentale punto di caduta delle garanzie giuridiche dell’ordinamento, ma mi permetto di ribadire: i veri amici della giurisdizione sono quelli che ne riconoscono il grande potere, ma anche gli insormontabili confini. Un giudice appiattito sul precedente e privo di autonomia di giudizio corre il rischio di essere sostituto da un robot, ma un giudice professionale che non colga appieno il legame che lo vincola al diritto positivo corre il rischio di essere sostituito da un giudice elettivo. Non mi sembra una prospettiva auspicabile.

 

[1] E. Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali, in questo fascicolo.

[2] Sulla necessità, qui, di una convenzione stipulativa, vds. F. Pedrini, Clausole generali e principi costituzionali, in Forum di Quaderni costituzionali, 29 giugno 2015, p. 7 (www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/06/pedrini1.pdf).

[3] Come è noto, la “legge” è elaborata, sulla base di uno spunto hegeliano (G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Schrag, Norimberga, 1812, p. 20: «die Quantität ist die schon negativ gewordene Qualität; die Größe ist die Bestimmtheit, die nicht mehr mit dem Sein eins, sondern schon von ihm unterschieden, die aufgehobene, gleichgültig gewordene Qualität ist»), da Friedrich Engels nell’Antidühring e in altri scritti (F. Engels, Antidühring (1878), trad. it. di G. De Caria, Rinascita, Roma, 1950, pp. 132 ss.).

[4] Cfr. Già W. Jellinek, Verwaltungsrecht, Springer, Berlin-Heidelberg, 1931 (terza ed.), p. 32. Per un meno sommario inquadramento del suo pensiero, M. Luciani, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Cedam, Padova, 1983, pp. 115 ss.

[5] K.G. Wurzel, Das juristische Denken, Moritz Perles, Vienna, 1904; V. Polacco, Le cabale del mondo legale, in Atti del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Reale Istituto, Venezia, 1908. Di Vittorio Polacco possediamo l’ampio e interessantissimo profilo tracciato da P. Grossi, “Il coraggio della moderazione” (Specularità dell’itinerario riflessivo di Vittorio Polacco), in Id., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 131 ss. (Grossi, simpateticamente, lo dipinge come «un personaggio che possiede la giovanile virtù di essere spettatore curioso della vita e pertanto il pregio raro di pensare»: ivi, p. 161).

[6] Non mi sembra dissimile l’impostazione di F. Pedrini, Clausole generali, op. cit., p. 26; Id., Le “clausole generali”. Profili teorici e aspetti costituzionali, Bononia University Press, Bologna, 2013, pp. 99 ss.

[7] Ho ripreso, qui, testualmente, quanto avevo scritto nel mio La decisione giudiziaria robotica, in Nuovo dir. civ., n. 1/2018, p. 6.

[8] M.A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Edizioni di Comunità, Milano, 1966, p. 16.

[9] U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano, 1965, p. 139.

[10] G. Zagrebelsky, Alla fine del mandato di giudice costituzionale di Paolo Grossi e al suo ritorno agli studi universitari, in Quaderni fiorentini per una storia del pensiero giuridico, vol. 47, 2018, p. 550.

[11] Ivi, p. 552.

[12] Ivi, p. 548.

[13] G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988 (nuova ed.), p. 41 (corsivo aggiuinto).

[14] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 179 (in corsivo nell’originale) – è qui ripresa la nota posizione di Luigi Mengoni.

[15] Ivi, p. 184.

[16] G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 1992, p. 183 (corsivo aggiunto).

[17] Mi permetto di rinviare, sul punto, al mio Quanto è mite il diritto mite di Gustavo Zagrebelsky?, in Aa. Vv., Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, Torino, 2016, pp. 36 ss.

[18] «Il fatto entra nell’esperienza giuridica quale parametro in base al quale ponderare i principi costituzionali» scrive E. Scoditti, Non solo forma: fenomenologia giudiziaria del diritto, ne Il pensiero. Rivista di filosofia, vol. LVIII, n. 2/2019, p. 130.

[19] Anche qui non posso che rinviare, per una più distesa argomentazione, alla mia voce Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del diritto – Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 391 ss.

[20] Aggiungo che la mescolanza fra morale e diritto, fra esercitare giurisdizione e fare giustizia è contraria a Costituzione anche per altre ragioni, che ho cercato di esporre nel mio Il “giusto” processo amministrativo e la sentenza amministrativa “giusta”, in Dir. proc. amm., n. 1/2018, p. 62.

[21] Cfr. B. Rüthers, Die heimliche Revolution vom Rechtssaat zum Richterstaat. Verfassung und Methoden. Ein Essay, Mohr, Tubinga, 2014-2016, trad. it. di G. Stella, La rivoluzione clandestina dallo Stato di diritto allo Stato dei giudici, Mucchi, Modena, 2018, p. 49. Prima ancora, Id., Die unbegrenzte Auslegung. Zum Wandel der Privatrechtsordnung im Nationalsozialismus, Mohr, Tubinga, 1968.

[22] «Er zeigte den Gegensatz eines substanzhaften, von Sittlichkeit und Gerechtigkeit nicht abgetrennten Rechts zu der leeren Gesetzlichkeit einer unwahren Neutralität und entwickelte die inneren Widersprüche des Weimarer Systems, das sich in dieser neutralen Legalität selbst zerstörte und seinen eigenen Feinden auslieferte»: C. Schmitt, Der Führer schützt das Recht, in Deutsche Juristen-Zeitung, 1934, p. 946.

[23] «Alles Recht stammt aus dem Lebensrecht des Volkes. Jedes staatliche Gesetz, jedes richterliche Urteil enthält nur soviel Recht, als ihm aus dieser Quelle zufließt. Das Uebrige ist kein Recht, sondern ein “positives Zwangsnormengeflecht”, dessen ein geschickter Verbrecher spottet»: C. Schmitt, Der Führer, op. ult. cit., p. 947. Ovviamente, tutto questo esigeva (allora come ora) una vera e propria rivoluzione metodologica: «Wir haben unsere bisherigen Methoden und Gedankengänge, die bisher herrschenden Lehrmeinungen und die Vorentscheidungen der höchsten Gerichte auf allen Rechtsgebieten neu zu prüfen» (ivi, p. 948).

[24] L. Mager, Das Recht im Nationalsozialismus. Wege völkischer Rechtserneuerung: Rechtsquellenlehre und Auslegung als Gesetzgebungsersatz, accessibile in rete (www.juracafe.de/ausbildung/seminar/self/rechtserneuerung.pdf): «Beim Rückbezug allen Rechts auf die Gemeinschaft sollte eine weiteres Merkmal des alten Rechts überwunden werden: die Trennung von Recht und Politik sowie von Recht und Sittlichkeit».

[25] G. Radbruch, Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in SJZ, 1946, pp. 105 ss.

[26] H.L.A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals, in Harvard Law Review, vol. 71, n. 4/1958, spec. pp. 618 ss.

[27] B. Rüthers, La rivoluzione clandestina, op. cit., p. 53.

[28] Sulla distinzione, devo ancora rinviare al mio Il “giusto” processo amministrativo, op. cit., p. 62.

[29] Vds., da ultimo, M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2019, www.questionegiustizia.it/rivista/2019/3/l-errore-di-diritto-e-l-interpretazione-della-norma-giuridica_682.php.

[30] Anzi, v’è chi – paradossalmente – ha rimproverato ai giudici dell’epoca di non aver approfittato dei margini ch’esse offrivano per rovesciarne la logica, applicandole con umanità: I. Staff, Justiz im Dritten Reich: eine Dokumentation, Fischer, Francoforte sul Meno, 1964, pp. 9, 59.

[31] Così G. Zagrebelsky, Il diritto mite, op. cit., p. 162, sulla premessa che nelle costituzioni moderne si realizzi l’aspirazione alla «determinazione della giustizia e dei diritti umani» (ivi, p. 155).