Magistratura democratica

Eguaglianza e contrattazione

di Fabrizio Di Marzio

Questo breve scritto affronta la questione della diseguaglianza nella contrattazione sotto il profilo del diverso grado di libertà contrattuale espressa dai contraenti, ed esamina il ruolo correttivo svolto dal diritto positivo con le diverse tecniche della fattispecie e delle clausole generali.

Esporrò qualche considerazione in tema di eguaglianza e diritto contrattuale. Vorrei concentrare l’attenzione non sull’atto, ma sull’attività, in modo da presentare il problema dell’eguaglianza con riguardo alle condotte degli agenti giuridici. Dirò quindi qualcosa su “eguaglianza e contrattazione”.

La possibilità di scambiarsi promesse meritevoli di riconoscimento e tutela giuridici, e più in generale di concludere contratti, si comprende immediatamente nella dimensione della libertà, piuttosto che in quella dell’eguaglianza. Secondo la concezione messa a punto da Isaiah Berlin, conta la libertà negativa, ossia la libertà di agire senza essere limitati dall’interferenza di altri nella stessa area di azione. Se insuccesso e limitazioni dipendono non da incapacità personali, ma da interferenze, sono considerati dovuti a ingiustizia. Così, nell’ambito economico, sostiene Berlin, «se la mia mancanza di mezzi materiali non è dovuta a incapacità fisica e mentale, allora comincio a parlare di privazione di libertà (e non semplicemente di povertà)»[1]. La mancanza di libertà economica che non è causata da incapacità personali può essere dovuta alla struttura dell’ordinamento: che, a questo punto, può apparire ingiusto.

Tuttavia, in una prospettiva avanzata, in cui si muovono oggi molti ordinamenti occidentali, la povertà in se stessa può apparire ingiusta, come dimostra il diffuso successo di misure di sostegno economico a poveri e disoccupati. Attribuire un reddito minimo appare un presupposto per l’esercizio della cittadinanza; non molto diversamente, la liberazione del debitore insolvente ma meritevole di riabilitazione dal peso schiacciante dei debiti vale come presupposto per il recupero alla vita produttiva. Ecco che la differenza che corre tra ricchi e poveri è spesso ritenuta non legittimata, o anche non giusta, o direttamente ingiusta. In quest’ultimo caso, questa differenza appare come “diseguaglianza”.

Il differente grado di libertà che può sussistere tra due soggetti conta anche dentro lo spazio segnato agli estremi dalla ricchezza (compiutezza di potere economico) e dalla povertà (assenza di potere economico). Se, infatti, la mancanza di libertà può giungere a escludere la possibilità di scegliere una condotta piuttosto che un’altra, l’insufficiente possesso di libertà può condizionare ingiustamente una scelta comunque esercitabile, ma in condizioni tali da escludere la cosiddetta “libertà del volere”.

Nel diritto dei contratti, le condizioni di differente potere economico possono determinare una diseguaglianza di potere economico; su questa premessa può consumarsi un abuso di potere economico di qualcuno ai danni di qualcun altro. In termini giuridici: un abuso della libertà contrattuale come sacrificio dell’altrui libertà di contratto. È stato proprio questo l’esito paradossale della contrattazione all’epoca del diritto eguale borghese. Ci si è accorti che la difesa di una formale libertà di contratto determinava, nel caso concreto, mortificazione di quella stessa libertà tutte le volte in cui l’asimmetria di potere economico (ma anche sociale e culturale) e dunque di potere giuridico determinava l’abuso nella contrattazione: del datore di lavoro ai danni del lavoratore; del professionista ai danni del consumatore; dell’impresa prevalente ai danni dell’impresa economicamente dipendente.

Gli ordinamenti si sono adeguati prevedendo regimi contrattuali protettivi delle categorie di contraenti maggiormente esposte al pericolo dell’altrui prepotenza di mercato. Ma tuttora nel dibattito si coglie, accanto a una maturata consapevolezza della necessità di ritagliare regimi contrattuali speciali con scopo protettivo, la difficoltà di comprendere come ciò che conta nel diritto sia la disuguaglianza di potere giuridico, piuttosto che le sue premesse (rinvenibili in altri ambiti della comunità).

L’argomento di Pietro Rescigno, secondo cui «Nel contratto, al quale è connaturale l’idea dell’accordo, e quindi dell’accettazione (che ciascun contraente compie) dell’altrui esercizio dell’autonomia, può aversi “abuso della situazione economica” nel senso che il contraente economicamente più forte può dettare all’altra parte condizioni inique; non ricorrerà “abuso del diritto” nel senso proprio dell’espressione»[2] conserva ancora un forte potere di suggestione, benché sia viziato dalla sottovalutazione, che in esso si mostra, del profilo della libertà del volere.

Ciononostante, le legislazioni si sono sviluppate secondo la tecnica legislativa di repressione degli abusi, la quale, pur perdurando le perplessità dottrinali, può ricondursi senza eccessiva difficoltà alla teoria tradizionale del divieto di abuso del diritto. Nel diritto positivo dei contratti il principio ispiratore del divieto di abuso del diritto, trasparente nella stessa terminologia adoperata nelle disposizioni legislative (dove spesso e volentieri si legge di condotte abusive, clausole abusive e così via), ha ispirato il ricorso alla clausola generale della buona fede e a concetti giuridici indeterminati come il “significativo squilibrio contrattuale” quali criteri di valutazione delle condotte contrattuali tenute in specifici contesti abusivi descritti nella legislazione recente: la relazione tra professionista e consumatore; tra impresa dominante su di un mercato rilevante e altre imprese e consumatori; tra impresa prevalente e impresa dipendente in un singolo monopolio relazionale. In questi settori, la violazione del dovere di buona fede realizza, nella fase della contrattazione, l’abuso della libertà contrattuale di una parte con mortificazione della libertà di contratto della controparte. La privazione di libertà riduce lo spazio della scelta e pregiudica l’eguaglianza dei contraenti.

La tecnica normativa si articola in più tappe, e consiste:

- nell’isolare specifici contesti della contrattazione in cui si svolgono determinate relazioni di mercato;

- nel ricostruire tipologicamente tali contesti, fissando fattispecie incentrate sullo status o sulla qualità delle parti contraenti, sulla posizione da esse ricoperta su un determinato mercato, sulle modalità della contrattazione;

- nello stabilire il divieto di abuso contrattuale, individuato nello squilibrio importante delle clausole contrattuali a vantaggio dell’una piuttosto che dell’altra parte e in condotte precontrattuali di ingiustificato rifiuto della conclusione dell’accordo;

- nell’attribuire al giudice poteri correttivi, o caducatori in funzione manutentiva, ai fini del riequilibrio del regolamento contrattuale.

La tecnica consiste dunque nello stabilire fattispecie in cui sono incluse clausole generali di relazione, come il canone di buona fede, o il principio del divieto di abuso (del diritto), di cui le prime sono espressione elettiva nel diritto dei contratti.

 Questa tecnica legislativa mostra una fondamentale differenza rispetto alla tecnica codicistica.

Mentre quest’ultima è articolata su fattispecie che includono inevitabilmente molti concetti indeterminati ma ben poche clausole generali, invece la tecnica attuale presenta un diffuso ricorso alle clausole generali (e tra di esse alla clausola di buona fede) oltre che al principio del divieto di abuso.

Mentre nel codice civile e nella legislazione complementare novecentesca il ricorso a clausole generali si realizza in disposizioni molto generali, che alludono per lo più all’obbligazione o a fasi della contrattazione, della interpretazione ed esecuzione del contratto, invece nella legislazione nuova il ricorso a clausole generali è effettuato nell’ambito di fattispecie dettagliate e costruite in vista dell’inserimento in esse delle clausole generali.

Così l’art. 1175 cc prescrive che debitore e creditore debbono comportarsi secondo buona fede e per l’art. 1337 cc devono comportarsi secondo buona fede le parti impegnate nella trattativa. La disposizione isola, nel primo caso, la relazione che chiamiamo “obbligazione”; nel secondo caso, il fenomeno che chiamiamo “trattativa”. Chi si trova coinvolto in un rapporto obbligatorio o in una trattativa deve comportarsi rispetto all’altra parte secondo buona fede. Molto diversamente, l’art. 33 ccons dispone l’abusività della clausola inserita in un contratto tra parti determinate (un professionista e un consumatore) se essa determina un significativo squilibrio degli obblighi contrattuali tra le parti, precisando che tale squilibrio deve essere contrario a buona fede. Tutta la disposizione è dedicata alla costruzione dei presupposti imperativi alla ricorrenza dei quali il giudice è chiamato a concretizzare la clausola generale nel caso sottoposto al suo esame.

Pertanto, mentre nel codice civile la disposizione di legge che richiama la clausola generale è funzionale a produrre l’effetto cosiddetto “valvolare”, reso possibile dal giudizio fondato sulla clausola generale e dunque aperto a valori extragiuridici, invece nella legislazione nuova l’utilizzo della clausola generale avviene nell’ambito di configurazioni predisposte perché quell’utilizzo si realizzi. In queste evenienze la disposizione di legge non serve a rendere rilevante la clausola generale in un contesto giuridico (e quindi a veicolare in esso, rendendoli rilevanti, elementi valoriali extragiuridici), bensì a costruire i presupposti imperativi per l’utilizzo della clausola generale.

Il nuovo diritto positivo dei contratti è dunque stabilito in ragione di presupposti del tutto diversi rispetto a quelli che presiedono alla disciplina contenuta nel codice civile; presupposti puntualizzati di volta in volta in ambienti normativi predisposti per l’attivazione della clausola generale. Sta qui la funzione servente della fattispecie rispetto alla clausola generale. La fattispecie medesima è costruita in relazione alla clausola generale e risponde al sistema valoriale che determina la clausola generale nel nuovo diritto. Ecco perché non accade più che il diritto positivo si apra alle clausole generali, ma si verifica che momenti significativi di quel diritto siano positivizzati in funzione della operatività delle clausole generali.

In sintesi, mentre nel diritto classico la fattispecie e le clausole generali costituiscono tecniche alternative a cui ricorre di volta in volta il legislatore, nel nuovo diritto queste due risorse della legislazione operano integrandosi a vicenda.

In forza di questa integrazione, la clausola generale opera in un contesto dettagliatamente predeterminato, che ne consente la funzionalizzazione alla rilevazione di abusi. Opera, cioè, in funzione servente al principio del divieto di abuso del diritto.

Per rimanere sul nostro esempio, attesa la portata generale dell’art. 1337 cc, anche il professionista e il consumatore debbono comportarsi secondo buona fede nelle trattative; ma, in forza dell’art. 33 ccons, il professionista che operi in un contesto prestabilito come abusivo – ossia nei confronti del consumatore, predisponendo unilateralmente un contratto e realizzando uno squilibrio del regolamento a proprio vantaggio – abusa della propria libertà di contratto, con ciò stesso realizzando una violazione qualificata del canone di buona fede.

Tutto questo che andiamo dicendo fornisce una chiarificazione del nuovo diritto e di come si articolano in esso – al fine dell’eguaglianza di libertà – le tecniche della fattispecie e delle clausole generali su di un piano puramente formale. Ma restano da illuminare le ragioni di questa combinazione normativa. Possiamo sintetizzare queste ragioni nell’obiettivo, perseguito dal nuovo diritto, di recuperare ai contraenti intenti in attività contrattuali spazi importanti di libertà; e ciò al fine ultimo di ripristinare, in sede di controllo degli atti di autonomia privata, condizioni di eguaglianza non disponibili sul mercato. Dunque lo strumentario giuridico è qui utilizzato dal legislatore politico per assicurare delle specifiche finalità (secondo un modus operandi inauguratosi nel secolo scorso con l’esperienza del cosiddetto “diritto regolatore” dello Stato sociale[3]).

L’obiettivo di assicurare un efficiente ambito di libertà a coloro che variamente concludono contratti sul mercato (obiettivo a sua volta funzionale a garantire un sufficiente grado di concorrenzialità) non potrebbe essere raggiunto vietando senz’altro determinati comportamenti alla parte prevalente, ossia con la tecnica della norma proibitiva presidiata dalla nullità. Proprio questo si verifica nel diritto classico dei contratti, pensato per consentire il sindacato non delle condotte, ma dell’atto che esse producono, nei termini della corrispondenza di quell’atto alle attese dell’ordinamento giuridico. Il diritto del codice civile, tuttavia, si disinteressa alquanto della libertà concreta delle parti e non si preoccupa affatto dell’uguaglianza. Per un ordinamento che abbia a cuore le uguali libertà, la tecnica delle norme imperative di divieto è del tutto insoddisfacente. Negare la libertà a una parte non comporta, di per sé, di ripristinarla per l’altra. Molto diversamente, occorre garantire la libertà di tutte le parti, ma al contempo inibire a ciascuna di esse l’esercizio abusivo di quella libertà, poiché quell’uso trasmoderebbe in arbitrio, con mortificazione (della propria e) dell’altrui libertà di contratto. Ecco, dunque, la richiesta al giudice che valuti condotte contrattuali consumate in contesti abusivi di verificare se l’altrimenti insindacabile uso della libertà contrattuale non realizzi in questi scenari delicati (perché pericolosi per la libertà) un abuso di una parte ai danni dell’altra. Nel contratto tra professionista e consumatore le clausole abusive non sono clausole aprioristicamente vietate, bensì ipotesi di disciplina diffuse nella prassi e catalogate nel diritto dispositivo dei contratti. Ad esse le parti possono ricorrere liberamente, ma – se la contrattazione avviene in un contesto a pericolo di abuso – non fino al punto di compromettere vistosamente l’equilibrio del regolamento contrattuale in violazione del canone di buona fede oggettiva. Qualora ciò accadesse, la nullità dipenderebbe non dalla violazione di una norma imperativa (come capita per le previsioni codicistiche sulle nullità), ma dall’utilizzo abusivo del diritto dispositivo[4].

Attraverso l’esame dell’atto si prende di mira una condotta: la contrattazione abusiva. L’invalidità che colpisce l’atto non è semplicemente caducatoria, ma per la sua natura protettiva, anche a contenuto manutentivo (dell’atto) e ripristinatorio (dell’equilibrio contrattuale). Attraverso la conformazione dell’atto si elimina l’esito pregiudizievole per l’interesse ordinamentale connesso alla condotta abusiva e si ripristinano artificialmente condizioni corrispondenti a una libertà contrattuale non presente al momento della trattativa.

Ha dunque ragione Enrico Scoditti quando nota che la tecnica della fattispecie è indispensabile per introdurre regole di eguaglianza nel diritto privato, e che questo risultato non si raggiungerebbe attraverso la normazione per clausole generali. Aggiungo, tuttavia, che nell’ambito dell’odierno diritto contrattuale la tecnica per fattispecie subisce una torsione, e viene impiegata al fine di rendere possibile, in determinati ambiti previamente selezionati, il sindacato del giudice in funzione correttiva attraverso l’utilizzo di clausole generali. L’obiettivo tendenziale dell’eguale libertà non può prescindere dall’uso di quest’ultima tecnica disciplinare. Come sempre accade, il legislatore non può fare a meno del contributo del giudice.

 

[1] I. Berlin, Due concetti di libertà, in Id. (a cura di H. Hardy e M. Ricciardi), Libertà, Feltrinelli, Milano, 2010 (ed. or.: 1958), p. 173.

[2] P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, pp. 225 ss., ora in Id., L’abuso del diritto, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 58.

[3] Cfr. J. Habermas, Morale, Diritto, Politica, Edizioni di Comunità, Milano, 2001, pp. 19 ss.

[4] Cfr. G. D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale nei contratti dei consumatori, in Riv. dir. civ., n. 6/2005, I, p. 651.