Magistratura democratica

Gnoseologia della fattispecie

di Mauro Orlandi

La clausola generale è lo spazio residuale rispetto ai significati intrinseci degli enunciati espressi mediante le disposizioni normative; essa occuperà tutto lo spazio lasciato aperto dalla semantica delle fattispecie enunciate dalle fonti linguistiche applicabili.  

1. Premessa / 2. Necessità (gnoseo-) logica della forma / 3. Posizione ermeneutica e posizione semantica della fattispecie / 4. Primato della espressione sulla concludenza. Primato della norma sulla clausola generale

 

1. Premessa

Che significa stabilire se Tizio deve fare X? La domanda subito si traduce ed eleva nell’altra: come l’uomo conosce giuridicamente il mondo?

La letteratura di questo scorcio storico ci presenta due “modelli” (come si è soliti dire): il modello della fattispecie, ormai dannato alla fatidica crisi; il modello della clausola generale, più duttile e giusto.

La fattispecie ci appare un arnese del passato, inchiodata al proprio rigido formalismo e insuscettibile di prevedere la cangiante e mutevole realtà delle cose; la clausola generale è in gran spolvero, capace com’è di adattarsi e di conseguire la giustizia del caso concreto, lasciando parlare i fatti e non le leggi.

Per stabilire se Tizio deve fare X si vorrebbe non applicare una fattispecie, ma declinare una clausola generale. Tizio dovrà fare X, non già in conformità alla norma A, bensì perché X è un comportamento di buona fede[1]. E cosa significa che X è un comportamento di buona fede?  Significa che – in base alle circostanze concrete – appare più giusto il comportamento X.

 

2. Necessità (gnoseo-) logica della forma

Non è questa la sede per risalire all’archè. E tuttavia, senza la consapevolezza del problema, i discorsi si riducono ad appelli simpatetici e retorici. Cominciamo con il riflettere che lo sguardo sul mondo è sempre un concepire, ossia un porre in concetto fatti e cose. Il mondo non ci si offre immediatamente; esso sempre reclama la mediazione del pensiero. Si può dire in una sintesi breviloquente che il mondo è una rappresentazione razionale. Un far presente in concetto; un concepire ciò che prima dell’idea è un nulla, opaco e assente.  

Quando ci si divide tra formalisti e antiformalisti semplicemente si ignora la dinamica gnoseologica elementare, che riposa sulla teoria del fatto e risolve ogni fatto in un giudizio sul fatto.

L’antitesi “formalismo/antiformalismo”, in cui può ridursi l’altra “fattispecie/clausola generale”, appare ingenua. Il ricorrere alla vitalità del fatto, e lasciare che sia esso a offrire immediatamente la “norma del caso concreto”, è – sul piano gnoseologico – un errore blu. Il fatto, ogni fatto, ogni cosa, ha «la opaca impenetrabilità della materia»[2].

Consideriamo l’istituzionale binomio “fattispecie astratta/fattispecie concreta”: esso è meno banale e ovvio di quanto possa (a uno sguardo superficiale) apparire. “Fattispecie astratta” – si insegna – è uno schema rappresentativo di una classe di fatti, futuri ed eventuali; “fattispecie concreta” è l’accaduto, qui e ora, con il proprio carico di singolarità e irripetibilità storiche. 
È da ragionare, tuttavia, come il nesso tra fattispecie astratta e fattispecie concreta non sia un rapporto tra ordine dei concetti e ordine dei fatti naturali.  La fattispecie concreta è, a propria volta, già fatto pensato, e non semplicemente esistente in sé e per sé. L’esistenza è già un predicato logico del fatto; essa postula la categoria del giudizio, con cui il pensiero classifica il fatto entro un paradigma spaziale e temporale[3].

Il fatto esistente, si direbbe sotto questa luce, è già un universale, ossia è già dal pensiero sottratto alla propria indicibile e brutale datità. Il dato, cui si riferisce ogni giudizio di esistenza e così pure il giudizio giuridico, appartiene a una realtà in sé chiusa e inattingibile. Ciascun dato è inserito nel proprio ordine e sottoposto a proprie leggi di formazione. La natura e la storia non si protendono per propria immanente e intrinseca energia verso la ragione – e, segnatamente, verso la ragione giuridica.

Constatare un fatto è già concepirlo, ossia elevarlo a uno schema mentale. Quaestio facti e quaestio iuris si unificano nella genesi astraente e predittiva del pensiero, la quale reca in sé il carattere ideale di un noema[4]; il concetto razionale del tempo e dello spazio[5].

Il cd. “giudizio di conformità” tra fatto e fattispecie non indica assunzione o penetrazione del fatto empirico nell’ordine del diritto. Il fatto rimane, e non può non rimanere, nel proprio ordine naturale. Nel proprio ordine, nell’intrinseca natura, il fatto non è mai giuridico; più radicalmente, non è.

Si dimostra l’importanza del giudizio, che congiunge il fatto con un predicato. Individuare il fatto come esistente è appunto giudicare il fatto, ossia collocarlo entro uno schema conoscitivo; che solleva il fatto all’ordine del pensiero: un illuminare l’evento, in sé oscuro e irrelato, alla luce di una categoria universale[6]. «Dire che “il fatto A è x” equivale a dire che il fatto A è scelto secondo il criterio x. Sul piano logico, scelta e predicazione coincidono, poiché scegliere un fatto è, al tempo stesso, pensarlo e giudicarlo»[7]. Sebbene sia nozione discussa, anche il predicato di esistenza è l’esito di un giudizio, che coglie il fatto e lo ordina nelle categorie logiche dello spazio e del tempo[8].

Fatto giuridico non è dunque fatto naturale o storico, che entra nell’ordine normativo con la propria intatta e naturale esistenza. Il fatto giuridico è già reso pensabile entro uno schema conoscitivo. Prima della propria schematizzazione e concettualizzazione, il fatto concreto appare estraneo al piano della giuridicità; e della stessa pensabilità.  

Così, “giuridico” è un fatto pensato secondo la corrispondente fattispecie. Il nesso che intercede tra fattispecie astratta e fattispecie concreta ha indole meramente logica. Giovandosi della descrizione normativa, il pensiero riduce il fatto a “caso particolare”, e lo schema del fatto esistente (fattispecie concreta) si rivela adeguato, ossia conforme, allo schema del fatto eventuale (fattispecie astratta).

Cade così l’antitesi tra astratto e concreto. Ogni fatto storico è già pensato e dunque già astratto. Perdendo la propria concretezza e individualità, ossia i connotati che rendono il fatto singolare, irripetibile, irrelato e irriducibile a qualsiasi astrazione, il fatto esistente si semplifica a “caso” del fatto possibile, previsto dalla norma; e il nesso che congiunge l’uno all’altro è nesso, logico e astratto, di particolare a generale.

La “norma del caso concreto” non attinge alla mera concretezza; essa si svela una fattispecie. Essa sempre postula la riduzione del fatto a caso della fattispecie. La norma del caso concreto è necessariamente preceduta dalla posizione del logos, che illumina il fatto, lo astrae a caso, lo rende pensabile e riproducibile come sostanza razionale.

La forma è logos trascendentale[9], idea che oltrepassa nel pensiero il fatto storico e transeunte. Essa è l’universale, capace di astrazione e durata; suscettibile di costituire oltre l’ineffabile e monadico hic et nunc una ratio unitiva, e perciò riconoscibile. 

La fattispecie è la forma giuridica del fatto ed è logicamente inevitabile[10].

Il problema diventa, allora, di studiare e teorizzare la tecnica di posizione della fattispecie.

 

3. Posizione ermeneutica e posizione semantica della fattispecie

Lo sguardo sul mondo è un ordinare in concetto i fenomeni che ci si pongono innanzi. Il mondo appare ai nostri occhi come un cosmo significante, e non come caos.

Il significare implica una relazione tra due termini: il termine significante, ossia il dato materialmente percepibile all’osservazione; il termine significato, ossia il concetto associato al primo.

Qui interessa notare come l’intelligenza delle cose, senso che l’uomo è capace di attribuire a fatti o a fenomeni della realtà materiale, si vale di due criteri fondamentali. Da un lato il nesso causale, con cui spieghiamo il divenire; d’altro lato, il linguaggio.

Un vetro rotto; una frana; una ferita. Ognuno di questi fatti appare alla nostra mente non già come chiuso e isolato in se stesso, bensì come dipendente da un altro fatto, in una relazione condizionale: la rottura del vetro si spiega – ossia assume un senso razionale – con il sasso, lanciato da Tizio; la frana, con la pioggia torrenziale; la ferita, con la caduta sulle scale; e così per ogni accadimento.

Ragioniamo su come la causalità si riveli una rappresentazione del divenire; e su come essa implichi nuovamente il porre in concetto la mera e materiale percezione e, così, l’erigere l’idea astratta della relazione. Tra realtà materiale e pensiero parrebbe scavato un abisso[11], giacché nessun fatto e nessuna cosa del mondo empirico sono pensabili senza rappresentazione, ossia senza la posizione in concetto. Torna il nostro corollario: tutto il mondo è una rappresentazione concettuale[12].

Se il significare istituisce relazioni di corrispondenza tra termini, allora anche l’ermeneutica dei fatti è una significazione, ossia la costruzione concettuale di relazioni tra termini che si tengono insieme.

Qui il giurista colloca il concetto di concludenza. «Il contegno – insegna Emilio Betti – si qualifica concludente in quanto impone una conclusione, una illazione logica fondata (…) sullo spirito di coerenza cui, secondo le comuni vedute, deve informarsi ogni comportamento tra consociati»[13].

Lo spirito di coerenza svolge la forza trascendentale della ragione e interpreta il mondo traendone un ordine razionale, ossia una relazione di logica dipendenza tra fatto e fatto.

Sotto questa luce, la rappresentazione dei fatti, quale ricostruzione razionale e concettuale di ciò che accade o che ci appare, si dimostra in primo luogo un esito ermeneutico, ossia una costruzione ideale tratta per concludenza razionale.  

Diremo “ermeneutica” la rappresentazione dei fatti che prescinde dal linguaggio, nella forma linguistica dei concetti. Si può dunque ordinare la dinamica della significazione in due fasi: la fase ermeneutica, volta alla rappresentazione causale (in senso lato) del divenire. La fase semantica, volta alla costruzione di codici di significazione, ossia di un ordine formale di corrispondenza tra segno e concetto.  

Da un lato l’ermeneutica, pre- ed a-linguistica; d’altro lato il linguaggio, quale forma codificata. La ratio ermeneutica si vale della concludenza; la ratio semantica della codificazione.

Introduciamo ora la nozione di “segno”.

Il segno in sé, come empirica alterazione del reale, è impenetrabile. Esso è in grado di suscitare nel percipiente una idea secondo una duplice modalità.

In primo luogo, con l’applicazione di un codice linguistico che consenta di de-codificare i segni percepiti e di isolarne il significato artificialmente prestabilito. Ad esempio: se percepisco (nel senso materiale: odo il suono o vedo lo scritto) la parola “bicchiere”, la mia mente si volge al concetto di una cosa, denotata da determinate forma e funzione. La parola è qui un dato (appunto, un segno) percepibile, al quale è convenzionalmente associato il concetto.

In secondo luogo, attraverso l’applicazione di un criterio di esperienza, sicché la posizione contingente del fatto, l’essere esso avvenuto in determinate circostanze di tempo e di spazio, lasci inferire ex post un qualche senso (Irti)[14]. Ad esempio: vedo Tizio che lascia una moneta e prende un giornale. Il fatto è ricostruito come scambio, giacché traggo dall’accadere in determinate circostanze di tempo e di luogo un concetto di senso.  

Emerge la nozione di codice linguistico: essa designa una convenzione sul significato dei (sull’idea associata ai) segni[15].

Il codice è una legge di corrispondenza o dipendenza, pensabile secondo lo schema logico del “Se>Allora” (“If>Then”). La comunità linguistica dei dialoganti istituisce la legge del segno e, così, codifica la disciplina formale del segnare[16].

Sul piano giuridico, queste categorie giustificano l’istituzionale dicotomia dichiarazione espressa/fatto concludente.

La dichiarazione si vale di simboli, che esprimono significati secondo un codice linguistico. Diremo qui che il significato preesiste al simbolo.

Il fatto concludente si vale di segni[17], che lasciano inferire per illazione un senso dalle circostanze, secondo una concludenza ermeneutica e non attraverso un codice linguistico. Diremo qui che il significato non preesiste al segno.

 

4. Primato della espressione sulla concludenza. Primato della norma sulla clausola generale

Esprimere implica la forza stipulativa e funzionale (nel senso proprio di corrispondenza necessaria tra due termini) del codice espressivo, ossia la legge formale del significare.

Per il giurista non tanto è vero che i significati debbano estrarsi esclusivamente per via simbolica (codificazione-decodificazione); quanto, piuttosto, che sia necessario stabilirsi un ordine giuridico dei significanti, delle fonti materiali capaci di restituire il significato; l’idea, ossia la fattispecie applicabile al caso.

E dunque avremo – nella semplificazione di queste pagine –, da un lato, il testo simbolico e il correlativo plesso dei significati espressi; dall’altro, il contesto situazionale[18] con il corrispondente novero dei sensi inespressi. La relazione tra tali fonti materiali suscita appunto il problema della disciplina e dell’ordine di priorità.  

La decodificazione e interpretazione testuali e co-testuali della fonte materiale precedono contesto e circostanze, perché i generatori della fonte (legislatore, in senso stretto; giudice; parti del contratto) hanno affidato il senso all’espressione simbolica.

Non possiamo attardarci oltre in questa sede. Veniamo dunque ai corollari.

La disposizione espressa, intesa qui come fonte scritta (semiotica) che reca la descrizione della fattispecie, precede sul piano logico qualsiasi altra tecnica di posizione, perché essa è dotata di un enunciato intrinsecamente significante. Diremo più in generale che qualunque enunciato rilevante (e così anche la sentenza che rechi un precedente) appare precedere e superare la fase ermeneutica della concludenza[19].

La concludenza ermeneutica si riduce allora a connotazione circostanziale, ossia allo stabilire se e come il caso, con i propri connotati storici congiunturali di tempo e di luogo, si conformi alla fattispecie espressa.

La clausola generale è lo spazio residuale rispetto ai significati intrinseci degli enunciati espressi; essa occuperà tutto lo spazio lasciato aperto dalla semantica delle fattispecie enunciate dalle fonti linguistiche applicabili.

“Tutti sono eguali dinanzi alla legge”. È vero.

La legge è infatti una prigione semantica, che solleva il mondo dalla irrazionalità dell’hic et nunc; e distende i singoli entro la eguagliante conformazione dei nomi[20] e delle norme. Offrendo loro l’ordine universale della lingua. 

 

[1] Appena da considerare come, sul piano logico, positivo e negativo siano equivalenti: dovere di fare X; ovvero dovere di non fare X. Come pure equivalente è la declinazione dal lato del potere: potere e non potere Y. 

[2] Secondo la suggestiva formula di N. Irti, La ripetizione del negozio giuridico, Giuffrè, Milano, 1970, p. 93.

[3] «Che qualcosa accada», scrive C. Diano (Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 37), «non ba­sta a farne un evento: perché sia un evento è necessa­rio che codesto accadere io lo senta come un acca­dere per me (…). Id quod cuique evenit. L’accadere, messo in rapporto con me e tratto nel mio ambito, è costituito in evento, localizzato nell’hic e temporaliz­zato nel nunc». 

[4] Prezioso lo studio di N. Irti, Rilevanza giuridica, in Jus, n. 1-2/1967, pp. 55 ss.; anche in Noviss., dig. it., vol. XV, Utet, Torino, 1968, pp. 1094 ss., e in Id., Norme e fatti. Saggi di teoria generale del diritto, Giuffrè, Milano, 1984, p. 57 (da cui la citazione); G. Calogero, voce Sussunzione, in Enciclopedia italiana, Treccani, Roma, vol. XXIII, 1936, p. 23.

[5] «(...) qualsiasi realtà  è sempre  una realtà  per  qualcuno, una  realtà  dal punto  di vista di chi la guarda, una realtà in una prospettiva»: N. Abbagnano, voce Fatto, in Dizionario  di filosofia, Utet, Torino, 1961, pp. 371-72. E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, vol. I, Giuffrè, Milano, 1955, p. 394: «la stessa qualifica del materiale siccome fonte di cognizione storica (cioè l’euristica) presuppone un orientamento della ricerca e avviene in funzione di una determinata impostazione della questione storica».  

[6] «Ogni cosa è un sillogismo» si direbbe con lo Hegel dell’Enciclopedia. Per questi svolgimenti da consultare F. Berto, Che cos’è la dialettica hegeliana? Un’interpretazione analitica del metodo, Il Poligrafo, Padova, 2005, pp. 188 ss. 

[7] N. Irti, Rilevanza, op. cit., p. 45.

[8] «Se si vuol parlare in genere della realtà», nota H. Vaihinger (Die philosophie des Als Ob, Felix Meiner, Amburgo, 1922; tr. it.: La filosofia del “come se”. Sistema delle finzioni scientifiche, etico pratiche e religiose del genere umano, Ubaldini, Roma, 1967, p. 82), «la si deve indicare con una categoria, altrimenti non solo è impensabile, ma è addirittura anche inesprimibile».

[9] Indispensabile N. Irti, Riconoscersi nella parola. Saggio giuridico, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 11-12: «La forma, chiudendo i fatti nel giro logico di uno schema, li rende visibili, intellegibili, riconoscibili. E perciò li unifica, nel senso di isolarli dalle individuali particolarità e di stringerli insieme in una fi­gura tipica, che ritorna nello spazio e nel tempo. Si è definita la regola come “forma di un processo che si impone all’evento”, sicché gli eventi accadono mol­teplici e inattesi, e la forma sta lì, fissa e immota, quasi ad attenderli e riceverli. Gli eventi non consu­mano la forma, così come i singoli atti dei giocatori non consumano le regole costitutive del giuoco». 

[10] Le fattispecie, di cui ci serviamo per attribuire significato giuridico agli eventi naturali o storici, si lasciano paragonare agli schemi trascendentali della filosofia kantiana, ossia a concetti che contengono «l’unità sintetica pura del molteplice in gene­rale» (I. Kant, Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, libro II, cap. 1). La fattispecie è, appunto, unità sintetica, descrizione volta al futuro in cui si colloca la molteplicità degli eventi. Mercé l’im­piego di uno schema normativo, si compie il giudizio, e si distin­gue — ancora in lessico kantiano — «se qualche cosa sia o no sotto una regola data (casus datae legis)». Vds. N. Irti, Riconoscersi nella parola, op. cit., p. 19, nota 12. 

[11] «Opposizione insuperabile», scrive il Cacciari, (M. Cacciari, Filosofia e tragedia. Sulle tracce di Carlo Diano, introduzione a C. Diano, Il pensiero greco, op. cit., pp. 23-24), quella tra forma ed evento, soggiungendo che, se tale paradossale relazione «si presentasse in una forma logicamente definibile, entrambi i suoi mem­bri si ridurrebbero ad essa e vi sarebbe Forma sol­tanto». E forse è proprio così: l’esito teoretico conduce (gentilianamente?) alla verità unitiva del pensiero.

[12] «La logica», osserva il Cacciari (Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 64), «non scopre la logicità del mondo, ma definisce gli strumenti e i modi del no­stro impossessarci del mondo».

[13] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, vol. I, Giuffrè, Milano, 1955, p. 138.

[14] Vds. N. Irti, Testo e contesto, Cedam, Padova, 1996, pp. 10 ss. Il Sacco – vds. R. Sacco e G. De Nova, Il contratto, Torino, Utet, 2016 (quarta ed.), p. 725 – scrive di «autosufficienza della dichiarazione», negandone il senso assoluto. Vds. anche A. Gentili, Senso e consenso, vol. I, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 190 ss. 

[15] Si tratta di fenomeni ampiamente studiati sul piano linguistico. «Dal punto di vista semiotico» – leggiamo in R. Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari, 1992 (seconda ed.), p. 31, – «le lingue sono codici (un termine equivalente a sistemi di segni, ma molto più comodo nell’uso), cioè sistemi di corrispondenze tra l’ordine dell’espressione e l’ordine del contenuto, destinati alla trasmissione di informazione tra un emittente e un ricevente, attraverso la produzione e la diffusione di messaggi». Egli spiega che «l’operazione di formazione di un messaggio da parte di un emittente me­diante le risorse offerte da un codice si dice codifica» (ivi, p. 32); «l’uomo», soggiunge l’Autore, «non è soltanto utente di codici ma anche formatore di codici (dispone, potremmo dire, di illimitata semiopoiesi)». Per il giurista, il mero segno costituisce un fatto concludente, il quale non esprime un significato secondo un codice linguistico, ma lascia inferire un’ipotesi secondo una regola d’esperienza. 

[16] «La lingua come forma è forma del parlante e di chi ascolta, cioè di due soggetti della comunicazione»: T. De Mauro (e A. Pagliaro), La forma linguistica, Rizzoli, Milano, 1973, p. 74.

[17] Meri segni; non simboli. Il segno non è codificato; il simbolo è un segno codificato. E. Betti, Teoria generale, op. cit., pp. 105 ss.; A. Pagliaro, Il segno vivente. Saggi sulla lingua ed altri simboli, ESI, Napoli, 1952, pp. 265 ss.; T. De Mauro, Introduzione e commento all’ed. italiana di Saussure (1916), Laterza, Bari-Roma, 1967, p. 13; C. Hagège, L’homme de paroles. Contribution linguistique aux sciences humaines, Fayard, Parigi, 1985; tr. it.: L’uomo di parole, Einaudi, Torino, 1989, pp. 55 ss. 

[18] N. Irti, Testo e contesto, op. cit., pp. 23 ss. 

[19] Perplessità suscita, su questa linea, la conclusione di E. Scoditti, Non solo forma: fenomenologia giudiziaria del diritto, in Il pensiero, n. 2/2019, p. 134, secondo cui «non può adoperarsi nel case law l’espressione fattispecie concreta, perché la species facti rinvia a uno schema, mentre qui intervengono semplicemente due casi concreti, i quali nel mondo reale non si presentano mai perfettamente identici». È che il mondo reale parrebbe radicalmente inattingibile a prescindere dalla forma/fattispecie che lo pone in concetto. Ma si aprirebbe qui un groviglio di problemi teoretici, estranei alla nostra economia. Dico solo: come ogni giudizio, il giudizio giuridico esige di necessità uno schema astratto, quale tertium comparationis. Il giudizio ha sempre struttura triadica. 

[20] Leggiamo in C. Diano, Il pensiero greco, op. loc. cit.: «La reazione del­l’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatigli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento». «Il primo modo di “chiusura”», nota N. Irti (Riconoscersi nella parola, op. cit., p. 31) è il nome, «che dà forma all’evento, e permette anche di ripro­durlo».