Magistratura democratica

L’equità civile: suggestioni settecentesche

di Marco Nicola Miletti

Il profondo ripensamento che, nel secolo XVIII, investì il delicato equilibrio tra legge ed equità giudiziale è stato indagato con prevalente riguardo al versante criminalistico. Attraverso le voci di grandi intellettuali-giuristi meridionali (Vico, Genovesi, Filangieri), il lavoro propone un rapsodico sondaggio sul terreno civilistico, contrassegnato da proposte meno radicali ma altrettanto suggestive per il cultore del diritto attuale. 

1. La legge civile e il «maneggio del giudice» / 2. Vico e il regolo di Lesbo / 3.  Filangieri e il «misterioso ritrovato»

 

1. La legge civile e il «maneggio del giudice»

Legge, equità, interpretazione (giudiziaria): a questo trinomio cruciale la cultura italiana del secolo xviii fornì un imprescindibile contributo, che segna tutt’oggi uno spartiacque nel giudizio sulla modernità giuridica. Ciò nonostante, ci s’imbatte non di rado in frettolose irrisioni della presunta ingenuità “illuministica”. Giudizi cosi sommari trascurano, ad esempio, che il sillogismo di Beccaria, peraltro dotato d’una pressoché intatta incisività comunicativa, non esaurisce affatto la varietà di approcci ermeneutici circolanti nella gius-filosofia dei Lumi. Ovvero che le ossessioni della certezza, della semplicità, della chiarezza del dettato normativo, oggi marchiate come stucchevoli, non trovano sempre riscontro se si sfogliano i testi sacri, anche quelli francesi (Esprit des lois[1], Encyclopedie[2]), i quali anzi riservavano alla jurisprudence un ruolo stabilizzatore di tutto riguardo[3].

In realtà gli slogan propagandistici, che invero non mancarono, servirono a denunciare con fragore plurisecolari opacità legislative e giudiziarie. E comunque rimbombarono in prevalenza, et pour cause, nei settori “costituzionalmente” sensibili del diritto pubblico e criminale.

Quando ci si affacci entro il recinto, tutt’altro che negletto, del diritto privato, si scopre che il rapporto legge-interpretazione era sviscerato in termini non omologabili a quelli della vulgata penalistica. Pietro Verri, il più drastico nell’asserire che «interpretare vuol dire sostituire se stesso» al legislatore, riconosceva che la soluzione dei casi omessi si atteggiava diversamente tra cause penali e civili: nelle prime ci si doveva attenere a uno stretto criterio di legalità; nelle seconde un codice avrebbe potuto «togliere la metà delle liti col circoscrivere la capricciosa libertà degli uomini nel patteggiare o donarsi fra di loro», riservando al legislatore la facoltà di risolvere le residue vertenze «coi principii della semplice equità» in attesa di provvedere con «legge generale» ai futuri casi simili. Nell’ottica verriana, il giudice sia civile sia penale restava, dunque, «mero e servile esecutore della lettera della legge»: ma nel civile, più malleabile, non avrebbe destato scandalo l’aggiustamento equitativo, seppur ad opera del legislatore[4].

Ancor meno stereotipata l’impostazione di Antonio Genovesi. Anche l’abate salernitano, sottintendendo un’accezione di interpretazione quale sinonimo di discostamento da un testo univoco e autoritativo, si domandava: «Debb’egli il Giudice interpretar la legge, ed è questo più utile allo Stato, che l’eseguirla letteralmente?». Con la pacatezza che gli era propria, lo studioso rispondeva che era «impossibile, che un Giudice non interpreti per niente nessuna legge. Ogni legge è generale, e perciò risguarda un’infinità di casi simili»; e tuttavia – qui si percepisce una mutuazione da Montesquieu – la «moltiplicità delle circostanze» della vita morale, accentuata dalle difformità nella disciplina degli status soggettivi e dei beni («laicali, ecclesiastici, feudali, burgensatici, sottomessi e fedecommessi, e liberi, dotali, estradotali, ecc.»), impediva a qualsiasi legge di «combaciare» con i casi reali se non grazie a «qualche interpretazione e maneggio del Giudice»[5].

Genovesi si mostrava aggiornato sul dibattito europeo in corso: «So, che si dice da alcuni dotti, a cui è in odio ogn’interpretazione, che fa men male una legge eseguita sempre letteralmente» di quella rimessa all’arbitrio del magistrato. Sul punto egli si dichiarava d’accordo con riferimento alle leggi criminali, ma paventava che una generalizzazione del criterio generasse «quel summum jus, che diventa iniquità». L’Autore della Diceosina si rendeva conto che un’«interpretazione» lasciata senza freni sarebbe equivalsa ad «abolire le leggi scritte»: ma confidava che, se rimessa a giudici «bastantemente savj ed onesti», e solo a questa duplice condizione, essa sarebbe stata meno temibile dell’«inflessibilità della legge»[6].

 

2. Vico e il regolo di Lesbo

L’opzione di Genovesi per un magistrato eticamente irreprensibile piuttosto che per una legge inderogabile s’inseriva, forse inavvertitamente, nel solco della tortuosa e geniale riflessione di Giambattista Vico sull’interpretazione equitativa.

Nel De ratione, discorso d’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Napoli tenuto il 18 ottobre 1708, Vico, nel confrontare il metodo di studio degli antichi e quello dei moderni, constatava come la nuova methodus scientista e calcolatrice fosse inadeguata a penetrare le scienze morali. In particolare, la prudentia della vita civile, contrassegnata dalla varietà delle circostanze esistenziali, trainata dalla libido e dalla fortuna ben più che dalla saggezza, non gli sembrava valutabile mediante la recta e rigida mentis regula: essa necessitava, invece, del regolo di Lesbo, lo strumento flessibile, in grado di piegare se stesso verso i corpi (e non viceversa), adoperato sull’isola greca per misurare superfici rocciose e già evocato da Aristotele nell’Etica Nicomachea [V.10.1137b] a suffragio dei pregi dell’epieikeia[7].

Piuttosto che profondersi in un’acritica celebrazione della portata salvifica dell’equità, Vico – sia nel De ratione, sia nel più maturo Diritto universale – ne rintracciava le cangianti matrici nella storia dell’esperienza giuridica romana. Egli immaginava che nella Roma repubblicana, dove una benefica legum religio, simile a un ignoto nume, teneva compatta la comunità, vigesse una disciplina civile rigorosa quanto quella militare. Il pretore era un mero custode del ius civile; contratti, scambi di denaro, actiones necessitavano di solenni formalità, alle quali si derogava – ma a condizione che sussistesse un interesse pubblico – mediante fictiones o espedienti quali il post-liminio o le vendite fittizie simulatrici di emancipazioni e testamenti: escamotage che denotavano la propensione dei giureconsulti antichi, a differenza dei moderni, ad adattare non le leggi ai fatti, ma i fatti alle leggi[8]. Vico avrebbe più tardi precisato che il pretore “repubblicano” aveva contribuito allo sviluppo della giurisprudenza benigna o ateniese, alternativa a quella rigida o spartana incardinata nel ius civile: i suoi editti si erano guadagnati da Baldo degli Ubaldi la definizione di «lingua con la quale parlò Dio»[9].

Durante il principato, proseguiva il De ratione, fu consentito al pretore di lenire con l’equità le leggi troppo severe (asperiores) e di supplire per benignitatem a quelle mancanti: non, dunque, di mutarle, bensí di renderle inefficaci – sotto l’apparenza d’un religioso ossequio – mediante finzioni quali la bonorum possessio e l’azione rescissoria. Il pretore divenne, così, sia custode del ius civile sia ministro di equità: nel senso che concedeva azioni dirette se supportate da leggi di inequivoco tenore letterale, azioni utili allorché le parole della legge fossero dubbie o mancanti[10]. Il De uno, peraltro tracciando una periodizzazione non del tutto sincronica con quella del De ratione, aggiungeva che questa nuova giurisprudenza, non più rigida et rudis come la spartana, né sinuosa et benigna come l’ateniese, bensí elegante, seria (gravis) e onesta, tendeva all’equità naturale, ossia al verum (anziché al certum), all’aequum aeternum bonum, alla parificazione delle «inique utilità»[11]. La sottolineatura dell’equità naturale come aequatio di diseguaglianze rimandava a una rigogliosa tradizione platonica, cui Vico era sicuramente sensibile, in materia di giustizia distributiva[12]. D’altronde la Sinopsi (1720), testo introduttivo al Diritto universale, in polemica con gli «scettici» profeti dell’utilitarismo (Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Bayle), precisava che nell’«idea dell’egualità» risiede «la cagione eterna del giusto»[13].

A seguito dell’Editto perpetuo di Adriano, ipotizzava Vico con disappunto, il diritto stretto cedette il passo all’equità. Da scientia justi, severa e indeclinabile come tutte le scienze, la giurisprudenza divenne ars aequi, cioè accomodante (commoda) e compiacente (morigera). Mentre, durante la Repubblica, i fatti meritevoli di valutazione equitativa restavano in-giusti finché non li fosse tratti ad jus tramite fictiones, sotto il principato il jus (scil. strictum) era in-giusto se non lo si fosse adattato ai fatti tramite benigna interpretatio. I giureconsulti, una volta difensori istituzionali delle parole della legge, ne tutelavano ora la mens. Il pretore, dapprima viva juris civilis vox, si erse ad absolutissimus arbiter dell’intero diritto privato, al pari – la chiosa era allusivamente polemica – d’un giudice odierno. Le leggi, un tempo redatte tenendo conto di ciò che accadeva ut plurimum, iniziarono a occuparsi de minutissimis factis; divennero sovrabbondanti e così minutae da assomigliare a privilegi[14]. Il bilancio di questa metamorfosi era, per Vico, in passivo: la rinuncia alla rigidità della legge aveva privato la collettività di un utile timore reverenziale; i privilegi erano stati, sì, aboliti, ma avevano lasciato il posto a minutae leges che, a differenza dei primi, erano estensibili ad exemplum[15].

Il nocciolo politico del ragionamento era condensato in chiusura del capitolo XI del De ratione, laddove, tornando all’attualità, si ricordava che compito del giurista era di ordinare ogni sua attività verso l’aequitas civilis (sintagma equivalente all’italiana giusta ragione di Stato), e cioè al commune bonum invece che alla privata utilitas[16]. Una recente monografia ha letto in questo passaggio sull’equità civile un vero e proprio programma di politica “giurisprudenziale”, volto a rilanciare, a mo’ di argine contro le disinvolture dell’interpretazione ex mente, la priorità del bene pubblico quale missione del giurista[17]. D’altronde lo stesso Vico ribadiva che la giustizia e il diritto consistevano, rispettivamente, nella cura costante e nella salvaguardia della communis utilitas, e che i medesimi obiettivi avrebbero dovuto sovrintendere all’interpretazione di istituti tipicamente privatistici, a cominciare da quelli successori[18].

Un commendevole esempio di consesso giudiziario vocato all’equità civile era individuato da Vico nel Sacro Regio Consiglio, tribunale di vertice del Regno di Napoli. Di quest’organo egli rimarcava l’abitudine a pronunciarsi senza imbarazzi, grazie alla formula ex certis caussis, contro le Romanae leges, anteponendo, se del caso, l’aequum civile al naturale. L’inesorabile ricambio generazionale, avvertiva l’intellettuale partenopeo, rischiava di disperdere quella felice prassi: sicché egli suggeriva di istituzionalizzarla[19]. La proposta avallava la strategia del Sacro Regio Consiglio di porsi quale propulsore di regole ad ampio respiro e motore di trasformazione sociale e di prosperità economica. Il modello equitativo, nella variante moderata e sapienziale dell’equità civile, avrebbe permesso di metabolizzare per via giurisdizionale pratiche mercantili sovrastatuali; di affrancarsi dai lacci del ius Regni; di allentare i condizionamenti cetuali e le disparità tra capitale e province; e, soprattutto, di candidare credibilmente i giuristi a guidare la cosa pubblica[20]. Non a caso il De ratione faceva balenare dinanzi agli avvocati versati nella doctrina civilis, oltre che nella giurisprudenza, la chance di accedere alle cariche di governo[21].

Non è inverosimile che l’auspicio, peraltro sfumato, d’un riconoscimento “ufficiale” ai repertori di decisiones dei supremi tribunali sortisse un effetto controproducente sulle ambizioni del proponente. La richiesta di consolidazione della giurisprudenza, infatti, da un lato consacrava la potenza creatrice della magistratura, dall’altro ne comprimeva, in prospettiva, il raggio di discrezionalità[22]. Forse non fu questa la ragione che, nel 1723, costò all’appartato professore di retorica l’agognata cattedra primaria di Diritto civile della mattina[23]: ma una tesi così ardita non lo aveva probabilmente aiutato a procacciarsi l’appoggio dei commissari togati.

 

3. Filangieri e il «misterioso ritrovato»

Per formazione, convinzioni storicistiche e teoretiche, aspirazioni (frustrate), Vico era ancora pienamente immerso nell’orizzonte del giureconsulto d’Antico regime. Il Diritto universale si chiudeva con l’orgogliosa constatazione che il diritto civile-romano era stato elaborato non custodia, sed inventione dai prudentes[24].

La raffinata immagine dell’equità vichiana si rovescia come in uno specchio nelle sulfuree Riflessioni politiche su l’ultima Legge del Sovrano (1774) di Gaetano Filangieri. In appoggio ai dispacci tanucciani che obbligavano i supremi magistrati del Regno di Napoli a motivare le sentenze sulla base delle «leggi espresse e letterali», lo studioso si faceva beffe delle vibranti proteste dei giudici, fondate sulla pretesa di «supplire coll’equità al giusto rigore delle leggi». A suo avviso l’equità, nelle mani dell’«ambizioso magistrato», era divenuta un «misterioso ritrovato, atto a nascondere le ingiustizie più manifeste», uno strumento incostante di arbitrio, un «sacrilego attentato» alle leggi, un pretesto di «commoda flessibilità». Equità, interpretazione, arbitrio – arrivava ad affermare l’Autore – disegnavano una parabola verso il dispotismo: pertanto l’interpretazione doveva restare prerogativa del sovrano, contro ogni sconfinamento costituzionale[25].

Filangieri non sottovalutava, ma reputava un male minore, l’eventualità che il legislatore, non potendo più avvalersi del supporto interpretativo dei giudici, fosse costretto a emanare norme sempre più puntuali e dunque a inflazionarle. In effetti – egli ammetteva – in tutta Europa, «se un disordine si fa appena sentire in una Nazione, una nuova legge si emana. Essa non ha per oggetto, che quel nuovo caso particolare, che potrebbe essere facilmente compreso in una legge anteriore, alla quale non mancano, che due o tre parole per accennarlo. Ma il destino delle legislazioni è di correre sempre innanzi, senza mai rivolgersi indietro. Ecco la causa dell’immenso numero delle leggi, che opprimono i Tribunali d’Europa, e che rendono lo studio della Giurisprudenza simile a quello delle cifre de’ Cinesi, i quali dopo uno studio di venti anni appena hanno imparato a leggerle». Per uscire dall’impasse il pamphlet proponeva la nomina d’un censore: questi avrebbe dovuto sia «supplire» alle lacune delle leggi, estendendole ai casi non previsti, sia indicare al legislatore quelle cui derogare perché «inutili, o perniciose», in modo da purgare i codici da ridondanze e antinomie[26].

La Scienza della legislazione, pubblicata dal 1780, avrebbe posizionato Filangieri su un versante del costituzionalismo meridionale più propenso a recuperare la mediazione del ceto giuridico in chiave anti-assolutistica, seppur nelle forme della collaborazione con i governi “illuminati”[27]. La «bontà delle leggi» – recitava l’Introduzione – «unico sostegno della felicità nazionale» era «inseparabile dall’uniformità»: e quest’ultima non era più rinvenibile in una legislazione vecchia di «ventidue secoli». Bisognava dunque costruire una scienza legislativa dotata di «principii fissi e di regole», giammai «vaga ed incerta». Le monarchie, delle quali Filangieri propugnava un assetto aristocratico, esigevano «leggi generali, precise, semplici e chiare» che lasciassero «ai magistrati l’adattare queste leggi ai casi particolari», senza tuttavia consentir loro di arbitrarle, interpretarle «a capriccio», svincolarsene «col pretesto dell’equità»[28]. Una tesi, come si vede, appena meno categorica di quella brandita nelle Riflessioni.

Tra i compiti del legislatore virtuoso Filangieri annoverava quello di «ben ripartir[e]» le ricchezze. Sfoggiando l’empirismo proprio del più luminoso riformismo meridionale, egli suggeriva quanto meno di ovviare all’accumulo delle risorse e di garantire a ogni cittadino «un lavoro discreto di sette, o otto ore per giorno», in modo da approssimarsi non tanto all’«eguaglianza delle facoltà, che è una chimera», ma a quella «della felicità» tra «classi», «ordini» e «famiglie». Una più «equabile diffusione» delle risorse esigeva, a suo avviso, la rimozione degli «ostacoli» frapposti dalla legislazione vigente, tra i quali le sostituzioni e i maggiorascati, la manomorta ecclesiastica, l’afflusso del denaro verso le capitali a danno della restante «truppa d’infelici». La legge avrebbe potuto correggere siffatte distorsioni, ad esempio concedendo nelle compravendite immobiliari una prelazione al proprietario meno abbiente; oppure promovendo un moderato lusso[29].

Così Filangieri recuperava il sogno vichiano di aequare iniquas utilitates. Egli però, e non era un dissenso di dettaglio, sottraeva la gestione della giustizia distributiva all’establishment giudiziario, che a suo parere ne aveva fatto uso irresponsabile, e la affidava al giurista-intellettuale, cui spettava, al tramonto dell’Antico regime, portare la fiaccola della filosofia civile in soccorso dei governi[30]

 

[1] C.L. De Secondat De Montesquieu, De l’Esprit des lois (1748), tr. it.: Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, Utet, Torino, Utet, 1952 (De Agostini, Novara 2015), libro VI – Conseguenze dei princípi dei diversi governi in relazione alla semplicità delle leggi (…) –, cap. I – Della semplicità delle leggi civili nei diversi governi –, pp. 221-222, giustificava la pluralità delle leggi propria delle monarchie come strumento di tutela dell’onore, obiettivo che imponeva di prevedere restrizioni, estensioni, eccezioni su basi soggettive e oggettive a discapito della «semplicità». Critico sul punto A.L.C. Destutt De Tracy, A Commentary and Review of Montesquieu’s Spirit of Laws (1811), tr. it.: Comentario sopra lo spirito delle leggi di Montesquieu, s.l., Napoli, 1828, p. 35, il quale avrebbe contrapposto al modello montesquieviano il «governo rappresentativo» fondato sull’eguaglianza e connotato da «leggi civili» semplici e uniformi.

[2] L. De Jaucourt, Loi (Droit naturel, moral, divin, & humain), in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (...), vol. IX, Samuel Faulche & Compagnie, Neufchastel, 1765, pp. 644-646, riproponeva la dicotomia montesquieviana tra (limitata) flessibilità della legge monarchica e divieto di «interpréter une loi» repubblicana. Per lo scienziato francese una legge equivoca e imprecisa è sempre «vicieuse» e ingiusta «parce qu’elle frappe sans avertir»: egli tollerava una ragionevole estensione dai casi disciplinati a quelli omessi, ma ricordava che la subtilité d’esprit restava contraria ai sentimenti di umanità e al volere del legislatore. A.G. Boucher-d’Argis, Loi (Jurisprudence), ivi, p. 649, esortava a un’interpretazione (giudiziale) che cogliesse «sens et esprit» della legge anziché fermarsi alle parole: l’A. ammetteva l’estensione «dans les matières favorables», mentre invitava alla restrizione in quelle «de rigueur».

[3] Nella monarchia, scriveva Montesquieu, Lo spirito, op. cit., ibid., le decisioni dei tribunali «devono essere conservate» e «apprese, affinché si giudichi oggi come si giudicò ieri, e affinché i beni e la vita dei cittadini vi siano assicurati e stabiliti come la costituzione stessa dello Stato». L’A. reputava «male necessario» le contraddizioni giurisprudenziali. Il brano fu ripreso da A.G. Boucher-d’Argis, Jurisprudence, op. cit., p. 82. Quest’ultmo A. (Jurisprudence des arrêts, ivi, p. 82) ammetteva il ricorso alla Jurisprudence des arrêts – dei cui repertori, peraltro, diffidava – nelle materie sguarnite di leggi puntuali.

[4] P. Verri, Sulla interpretazione delle leggi (1765), in G. Francioni e S. Romagnoli (a cura di), «Il Caffè» – 1764-1766, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 700 (definizione di interpretazione); ivi, pp. 701-703 (differenza civile/penale). Sull’esemplarità della tesi di Verri sull’interpretazione, vds. M.A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Edizioni di Comunità, Milano, 1966, pp. 52-53.

[5] A. Genovesi, Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto (1766-67), introduzione e testo a cura di N. Guasti, presentazione di V. Ferrone, tomo II, Centro di Studi sull’Illuminismo europeo “G. Stiffoni”, Venezia, 2008, p. 311 (lb. I, cap. XX, § XIV). Il brano sembra echeggiare Montesquieu, Lo spirito, op. cit., ibid.

[6] A. Genovesi, Della Diceosina, op. cit., ivi, p. 312 (§ XV).

[7] G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione – d’ora in avanti: De ratione –, a cura e con introduzione di F. Lomonaco, vol. VII, Diogene, Pomigliano d’Arco, 2014, pp. 82-84 e 88.

[8] Ivi, vol. XI, pp. 140-146.

[9] Rispettivamente: G. Vico, De universi juris uno principio, et finem unum. Liber Unus (...) (1720) – d’ora in avanti: De uno –, in Id., Diritto universale, a cura di Marco Veneziani, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2019, pp. 168-169 (cap. CLXXXVII); Id., De constantia iurisprudentis, Pars posterior, ivi, p. 389 (cap. XXXVI).

[10] G. Vico, De ratione, op. cit., vol. XI, pp. 152-154.

[11] G. Vico, De uno, op. cit., p. 169 (cap. CLXXXVII). Anche in questa sede si citava il regolo di Lesbo.

[12] Cfr., ad esempio, Platone, Repubblica, I, 349B-D, dove Socrate argomentava contro l’ingiustizia della pleonexía, ossia della pretesa di ottenere più di quanto spetti; Id., Gorgia, III, 489a. Ma vds. anche Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1130a.

[13] G. Vico, Sinopsi del diritto universale (1720), in Id., Diritto universale, op. cit., p. 4.

[14] G. Vico, De ratione, op. cit., vol. XI, pp. 156-160 e 164-166. Sulle imprecisioni vichiane relative all’Editto perpetuo vds. B.A. Naddeo, Vico and Naples. The Urban Origins of Modern Social Theory, Cornell University Press, Ithaca-Londra, 2011, p. 84.

[15] G. Vico, De ratione, op. cit., vol. XI, pp. 176 (rigore) e 182 (privilegi).

[16] G. Vico, ivi, p. 188. Sull’equivalenza tra ragion di Stato ed equità civile cfr. anche Id., De uno, op. cit., p. 154 (cap. CLXXIX); Id., La Scienza nuova 1744, a cura di P. Cristofolini e M. Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2013 (rist. 2019), p. 32. Sul tema vds. R. Ruggiero, Nova scientia tentatur. Introduzione al diritto universale di Giambattista Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2010, pp. 40 e 218.

[17] B.A. Naddeo, Vico, op. cit., p. 84.

[18] G. Vico, De ratione, op. cit., vol. XI, pp. 190-192 (communis utilitas) e 200 (istituti privatistici).

[19] Ibid., p. 202.

[20] Cfr. B.A. Naddeo, Vico, op. cit., pp. 85-87.

[21] G. Vico, De ratione, op. cit., vol. XI, pp. 200-202; il brano è segnalato da B.A. Naddeo, Vico, op. cit., p. 85.

[22] B.A. Naddeo, Vico, op. cit., pp. 160 e 168-169.

[23] I. Ascione, Seminarium doctrinarum. L’Università di Napoli nei documenti del ‘700. 1690-1734, ESI, Napoli, 1997, pp. 116-130.

[24] G. Vico, De constantia iurisprudentis, Pars posterior, op. cit., p. 391 (cap. ultimum).

[25] G. Filangieri, Riflessioni politiche su l’ultima Legge del Sovrano, Che riguarda la riforma dell’amministrazione della Giustizia (...), Stamperia di Michele Morelli, Napoli, 1774, rist. anast.: Bibliopolis, Napoli, 1982, pp. 19-20 (degrado dell’equità giudiziaria), 32 (dispotismo) e 42-43 (sconfinamento). Come notava S. Cotta, Gaetano Filangieri e il problema della legge, Giappichelli, Torino, 1954, pp. 27-28, la critica filangieriana all’equità non poteva logicamente coesistere con quella dell’illuminismo meno moderato allo status quo legislativo: eliminare l’accomodamento dell’aequitas comportava privarsi d’una trincea nella crociata contro l’irrazionalità delle norme vigenti.

[26] G. Filangieri, Riflessioni, op. cit., pp. 73-74 (male minore), 80-81 (tendenza europea a legiferare), 81-82 (censore).

[27] R. Ajello, I filosofi e la regina. Il governo delle Sicilie da Tanucci a Caracciolo (1776-1786), in Rivista storica italiana, vol. CIII, nn. 2-3/1991, pp. 685-686.

[28] G. Filangieri, La Scienza della legislazione e gli opuscoli scelti (...) (prima ed.: 1780), tomo I, Dai Torchj di Glauco Masi e Comp., Livorno, 1826 – Introduzione, p. 2 (uniformità); lb. I, cap. III, p. 52 (principi); cap. X, p. 101 (leggi per la monarchia).

[29] G. Filangieri, La Scienza, op. ult. cit., tomo II (1827) – lb. II, Delle leggi politiche ed economiche, capp. XXXIV-XXXV, pp. 125-127 (ripartizione, ore lavorative); cap. XXXVI, pp. 131 e 134 («ostacoli»; peraltro il frazionamento dei patrimoni era, per l’A., compatibile con la sopravvivenza dei feudi); cap. XXXVI, p. 135 (prelazione); cap. XXXVII, p. 137 (lusso).

[30] G. Filangieri, La Scienza, op. cit., tomo I – Introduzione, p. 5: per estirpare gli ostacoli alle riforme «la filosofia [era] venuta in soccorso de’ governi». La frase ispirò il titolo a G. Galasso, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli, 1989.