Magistratura democratica

L’attuazione del principio di eguaglianza tra legislazione e giurisdizione (qualche riflessione a partire da un saggio di Enrico Scoditti)

di Giovanni D’Amico

Più che di un “tempo delle clausole generali” bisognerebbe parlare, oggi, di un “tempo dei principi”. Non vi è una vocazione specifica della regolamentazione per clausole generali a realizzare la “giustizia commutativa”, e un’altrettanto specifica idoneità della regolamentazione per fattispecie a perseguire obiettivi di “giustizia distributiva”. Gli interventi che mirano a garantire l’eguaglianza sostanziale non possono che competere al legislatore, e non possono essere affidati all’attività giurisdizionale di concretizzazione di clausole generali.

1. Premessa / 2. Il “tempo delle clausole generali” o “il tempo dei principi”? / 3. Tutela dei diritti nel mercato, e tutela (dei diritti) dal mercato / 4. [Segue] Contratto e principio di eguaglianza (sostanziale)

 


1. Premessa

Il saggio di Enrico Scoditti (Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali, in questo fascicolo) che ha dato origine al dibattito ospitato in questo numero della Rivista si lascia apprezzare anzitutto per alcune prese di posizione, per così dire, “fuori dal coro”. Inoltre, esso prospetta un’analisi e delle valutazioni su diverse questioni, certamente assai dibattute negli ultimi anni, ma che cionondimeno sollecitano sempre una rinnovata riflessione – si pensi a temi come il rapporto tra legislazione e giurisdizione, o la domanda circa le modalità più idonee per dare attuazione a determinati “principi” (segnatamente, il principio di eguaglianza) etc.

Le posizioni “fuori dal coro” si intravvedono, in particolare, nella garbata ma decisa contestazione della “narrazione” corrente, secondo cui l’epoca attuale sarebbe contrassegnata da una (irreversibile) “crisi della fattispecie”[1] (espressione con la quale si fa riferimento sia a una pretesa “recessività” della tecnica legislativa di tipo “regolamentare”, ossia della tecnica che si propone di individuare in maniera il più possibile “precisa” la “regola” da applicare ai fatti presi in considerazione dalla  norma,  sia soprattutto all’asserito prevalere nella prassi giudiziaria di tecniche argomentative sempre più “slegate” dal “testo legislativo” e sempre più propense a motivare la decisione attraverso il ricorso a “principi”, più o meno generali). A questa “narrazione”, Scoditti replica che «ben lungi dal vivere un tempo di declino, la fattispecie ha vissuto una grande fortuna nella legislazione degli ultimi decenni», e individua in particolare nell’attuazione della disciplina comunitaria di regolazione dei mercati finanziari, bancari e di consumo, una circostanza che «ha comportato un’espansione straordinaria della tecnica della fattispecie». Per parte nostra, aggiungeremmo – con riferimento al secondo (preteso) indizio di una “crisi della fattispecie”, poc’anzi indicato – l’osservazione (fattuale, se si vuole, ma non per questo meno rilevante) che anche sul piano della prassi giudiziaria, pur dovendosi registrare (in  generale) una maggiore “libertà argomentativa” dei giudici, non sembra cionondimeno che si possa parlare di una prevalenza (nelle sentenze, e nei provvedimenti giudiziari in genere) delle motivazioni per principi, restando indubitabile che la stragrande maggioranza delle decisioni giudiziarie vengono adottate facendo riferimento al testo di (una o più) specifiche disposizioni legislative – naturalmente, a un “testo” (ormai lo sappiamo bene) che deve essere, e viene, continuamente “interpretato” dal giudice, la cui attività è ben lungi dall’avere una funzione meramente “dichiarativa”, pur non potendo peraltro qualificarsi come un’attività “creativa”, nel senso stretto e proprio del termine.

Venendo, adesso, al merito delle tesi che Scoditti propone, esso può probabilmente riassumersi nella proposizione secondo cui «la giurisdizione per clausole generali assolve (…) una funzione di tutela dei diritti nel mercato, ma se il problema è quello dell’eguale accesso a beni e servizi, in funzione di tutela dal mercato e di realizzazione dell’universalismo, è la fattispecie legale lo strumento da perseguire».

All’analisi critica di questa proposizione saranno dedicate le brevi considerazioni che seguono, non senza esplicitare sin dall’inizio che – al fine di evitare che il discorso abbia come riferimento un ambito troppo esteso, quale sarebbe quello coestensivo all’intero ordinamento giuridico (cui può ben riferirsi, in astratto, sia la dicotomia fattispecie/clausola generale sia il problema dell’attuazione del principio di eguaglianza), e quale parimenti apparirebbe anche il più limitato ambito del “diritto civile” – la particolare specola dalla quale osserveremo e analizzeremo il problema enunciato da Scoditti sarà quella (bensì circoscritta, ma comunque significativa) del diritto contrattuale, sì da rendere il discorso meno generico e indeterminato.

 

2. Il “tempo delle clausole generali” o “il tempo dei principi”?

Un primo interrogativo, che ci sembra opportuno sollevare in limine, riguarda il titolo stesso dell’intervento di Scoditti, dal quale sembrerebbe emergere l’idea che l’epoca attuale (nell’ambito della quale collocare la riflessione sulla funzione della “fattispecie”) si possa descrivere come il «tempo delle clausole generali».

È esatta questa premessa? Quello odierno è veramente qualificabile (ancora) come “il tempo delle clausole generali”?

Quando – ormai più di trent’anni or sono –, a conclusione di un convegno pisano sulla buona fede, Rodotà fece ricorso a questa formula per intitolare le Conclusioni del convegno[2], a lui affidate, il Maestro poteva effettivamente registrare che l’idea – che egli aveva lanciato, quasi venti anni prima – di una “legislazione per principi” (recte: di una legislazione che facesse sempre più ricorso alla tecnica delle “clausole generali”), era finalmente penetrata (specie in alcuni ambiti della disciplina dei rapporti civili) nella prassi del legislatore (pur non soppiantando la tecnica della legislazione “regolamentare”), e che di ciò era testimonianza l’interesse della dottrina (manifestato proprio da molte delle relazioni illustrate nel convegno pisano) nei confronti del tema delle “clausole generali”.

Già allora, peraltro, il contesto appariva alquanto diverso rispetto a quello che, a metà degli anni sessanta del secolo scorso, aveva fatto da sfondo alla proposta di Rodotà. In particolare, la “scoperta” da parte della dottrina italiana dell’ineliminabile momento valutativo/creativo insito nel processo di interpretazione/applicazione di qualsiasi disposizione normativa[3] aveva portato a relativizzare la contrapposizione tra “norme ordinarie” (le cd. “regole di fattispecie”) e “clausole generali”[4].

Non era, tuttavia, ancora affiorato – allora – il tema della “applicazione diretta” dei principi costituzionali, tema diventato invece centrale nella riflessione degli anni a noi più vicini. Quando si comincerà ad affermare – come oggi si tende sempre più a fare – che la cd. “unmittelbare Drittwirkung” può darsi non soltanto in presenza di una “lacuna legislativa” (situazione alla quale può, in qualche modo, ricondursi l’ipotesi del ricorso da parte del legislatore a clausole generali, che lasciano deliberatamente al giudice il compito di “costruire” la regola da applicare al caso concreto, dando spazio per l’appunto alle “direttive” ricavabili dai principi costituzionali), ma anche in presenza di una disciplina legislativa del fenomeno considerato, allora è evidente che la funzione specifica delle clausole generali, rispetto alle “ordinarie” norme di fattispecie, tenderà inevitabilmente a dissolversi (e non solo a diventare meno evidente e, per così dire, più “sfocata”)[5], giacché anche in presenza di una regolamentazione specifica ci sarà sempre spazio per una costruzione della “regola del caso” orientata ai “principi”, e ipoteticamente difforme (se necessario) dalla soluzione data al problema dal legislatore[6]. Più che di un “tempo delle clausole generali” bisognerebbe parlare, oggi, di un (sia pur problematico) “tempo dei principi”[7].

 

3. Tutela dei diritti nel mercato, e tutela (dei diritti) dal mercato

Anche con riferimento al merito delle opinioni sostenute da Scoditti, e pur ribadendo la condivisione dell’atteggiamento “realistico” (e, si vorrebbe dire, laico) che l’Autore mostra di avere nei confronti della disciplina legislativa, e in particolare della regolamentazione “per fattispecie”[8] – di cui il Nostro percepisce l’importanza (e l’ineliminabilità) nel contesto dei moderni ordinamenti giuridici, come attesta la stessa evoluzione degli ordinamenti cd. di common law – riteniamo si possano svolgere alcuni rilievi critici.

La tesi fondamentale enunciata da Scoditti consiste, come già accennato, nell’affermare che, quando il problema è quello della «tutela nel mercato», ossia della protezione dagli abusi (così in sede di formazione come in sede di esecuzione del contratto) all’interno delle relazioni di mercato, la tecnica della clausola generale è una tecnica funzionale all’obiettivo (come dimostrerebbe il ricorso, sempre più frequente in questi ambiti, alla “buona fede”). Quando, invece, il problema è quello della «tutela dal mercato», torna ad essere più adatta «la forma di legge, e dunque la tecnica della fattispecie legale».

Osserviamo subito che non è chiaro (o, comunque, non è esplicitato) in cosa risieda la differenza tra “tutela nel mercato” e “tutela dal mercato”, anche se un’indicazione si può ricavare dalla successiva affermazione dell’Autore, secondo cui «La giurisdizione per clausole generali è preposta alla realizzazione della giustizia commutativa, ma se il tema è quello della giustizia distributiva o redistributiva è la legge in forma di fattispecie astratta e generale che entra in gioco (…). La clausola generale è strumento di superamento delle asimmetrie che impediscono la concorrenza perfetta, ma consentire l’eguale accesso a beni e servizi è un compito di riforma sociale che solo la legge in forma di fattispecie può attuare» (corsivi aggiunti).

L’alternativa così posta è indubbiamente suggestiva (e contiene anche qualche elemento di verità), ma – considerata nel suo complesso – non persuade, per molteplici ragioni.

Pur a voler prescindere dall’ambiguità che da sempre avvolge il concetto di “giustizia” (contrattuale), e la ricorrente distinzione tra “giustizia commutativa” e “giustizia distributiva” (evocata anche nel brano citato), non sembra vero che ci sia una vocazione specifica  (o addirittura esclusiva) della regolamentazione per clausole generali a realizzare la “giustizia commutativa”, e una altrettanto specifica ed esclusiva idoneità della regolamentazione per fattispecie a perseguire obiettivi di “giustizia distributiva”.

Basti dire che la regolamentazione del fenomeno delle “clausole vessatorie” (che immaginiamo Scoditti ricondurrebbe al paradigma della “giustizia commutativa”) è articolata – nella disciplina contenuta negli artt. 33 ss. codice del consumo (e, prima ancora, nella direttiva europea, cui quegli articoli hanno dato attuazione) – in una serie di “fattispecie” legali specifiche (se pur, talora, formulate mediante il ricorso a concetti indeterminati), e in una “clausola generale” (affidata alla concretizzazione giudiziale), che enuncia la nozione di “vessatorietà”. La funzione e lo scopo di questa regolamentazione certamente non cambiano a seconda che, in un singolo caso concreto, trovi applicazione una fattispecie specifica di clausola vessatoria, previamente individuata dal legislatore (si vedano le varie cd. “liste nere”, presenti in quasi tutte le legislazioni in materia) oppure se il caso stesso debba essere deciso sulla base dell’applicazione della clausola generale. Ma ciò dimostra, appunto, che non si può discorrere fondatamente di una “vocazione” funzionale a priori diversa (e diversificata), ricollegabile rispettivamente alla regolamentazione tramite la tecnica delle “norme di fattispecie” ovvero tramite la tecnica della clausola generale.

 

4. [Segue] Contratto e principio di eguaglianza (sostanziale)

Nonostante i rilievi formulati nel paragrafo che precede, c’è un aspetto delle affermazioni di Scoditti che appare meritevole di particolare considerazione: precisamente, il passaggio in cui – al di là della poco convincente (almeno nella sua pretesa di generalità) contrapposizione tra (funzioni della) regolamentazione per clausole generali e funzioni della regolamentazione attraverso fattispecie legali – l’Autore afferma, come abbiamo già ricordato, che  «se il tema è quello della giustizia distributiva o redistributiva è la legge in forma di fattispecie astratta e generale che entra in gioco», perché «consentire l’eguale accesso a beni e servizi è un compito di riforma sociale che solo la legge in forma di fattispecie può attuare».

Queste affermazioni contengono, a nostro avviso, un importante nucleo di verità, sebbene abbisognino anch’esse di qualche precisazione.

Deve, infatti, ribadirsi che la “giustizia” che può essere perseguita nel contratto è – in linea di principio – solo la giustizia cd. “commutativa”, non quella cd. “distributiva”; il che – detto altrimenti – vuol dire, come altre volte scrivevamo, che «non può immaginarsi che il contratto (privato) possa divenire strumento di risoluzione di problemi sociali (indigenza, mancanza di lavoro, disagio sociale, etc.) che in ipotesi impediscano o limitino (più o meno gravemente) l’accesso al mercato di determinati beni o servizi da parte di soggetti socialmente svantaggiati»[9].

Questi problemi richiedono una risposta di tipo diverso, che non può essere (data dal, o) richiesta al privato[10], ma deve provenire dai pubblici poteri. Semmai – ma sempre nella prospettiva indicata (ossia nella prospettiva di un intervento pubblico) – il contratto potrà essere (al più) lo strumento (indiretto) mediante il quale perseguire obiettivi di carattere “sociale”, con costi però a carico non del (singolo) contraente privato, bensì a carico della fiscalità generale[11].

Siamo, come si vede, nel campo della politica economica (amministrazione dell’economia), e in questo senso è perfettamente vero che gli interventi a tutela di soggetti “svantaggiati”/deboli, al fine di favorirne l’accesso al mercato (e, con ciò, di garantire l’eguaglianza sostanziale) non possono che competere al legislatore, e non possono essere affidati all’attività giurisdizionale di concretizzazione di clausole generali (o, anche, di principi).

 

[1] Al tema è stato dedicato un convegno, svoltosi a Padova il 12 ottobre 2018, i cui atti sono stati poi pubblicati in Ars Interpretandi, n. 1/2019 (si veda, volendo, il saggio dal titolo L’insostituibile leggerezza della fattispecie, ivi, pp. 49-70, nel quale svolgiamo più diffusamente considerazioni in parte riprese anche in queste pagine).

[2] Cfr. S. Rodotà, Conclusioni: il tempo delle clausole generali, in Aa. Vv., Il principio di buona fede, atti della giornata di studio svoltasi a Pisa il 14 giugno 1985, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 249 ss.
Nel citato volume, erano pubblicate anche la relazione di L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, e quella di C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, già pubblicate in Riv. crit. dir. priv., 1986, rispettivamente pp. 5 ss. e 29 ss.).

[3] Non che questa consapevolezza non fosse affiorata anche prima nella nostra letteratura: basti qui citare il volume di L. Caiani, I giudizi di valore nell’interpretazione, Cedam, Padova, 1954, ma anche la riflessione – per molti versi “anticipatrice” – che sui temi dell’interpretazione giuridica e della sua “creatività” sviluppò, lungo tutto l’arco della sua vita scientifica, un autore come Tullio Ascarelli; sul punto, sia consentito il rinvio a G. D’Amico, Ascarelli e la teoria dell’interpretazione, relazione al convegno di Siena del 2 aprile 2019 sul tema “Ascarelli civilista”, i cui atti sono in corso di pubblicazione. Ma si era trattato di “punte di emersione” in un certo senso isolate, e che non erano penetrate a fondo nella consapevolezza culturale e metodologica dei giuristi italiani, ancora saldamente ancorati ai postulati del positivismo giuridico tradizionale.
Il momento della “rottura” può, probabilmente, collocarsi nella seconda metà degli anni sessanta del Novecento, a partire dal famoso Saggio sul diritto giurisprudenziale (1967) di L. Lombardi Vallauri, e dall’avvio della riflessione sull’incidenza dei principi costituzionali sull’interpretazione e applicazione della normativa ordinaria, riflessione che cammina di pari passo con una nuova impostazione del tema generale dell’interpretazione della legge. 

[4] Come aveva rilevato, con molta acutezza, C. Castronovo nella relazione svolta al convegno pisano, L’avventura, op. cit.

[5] Per più ampie considerazioni su questo punto, ci permettiamo di rinviare a G. D’Amico, Rodotà e la stagione delle clausole generali, in Giust. civ., n. 1/2018, pp. 129 ss., spec. pp. 140 ss.

[6] Per l’illustrazione di questo modo di ragionare, ci permettiamo di rinviare a G. D’Amico, Principi costituzionali e clausole generali. Problemi (e limiti) nella loro applicazione nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Id. (a cura di), Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 49 ss., spec. pp. 66 ss.

[7] Naturalmente questa conclusione è vera solo se si accetta la premessa della cd. “unmittelbare Drittwirkung” dei principi costituzionali (nei termini pervasivi descritti nel testo). Diversamente ragionando (come sembra fare anche Scoditti), invece, permane la differenza specifica di una disciplina ricavata (dal giudice) attraverso la concretizzazione di una clausola generale rispetto a una disciplina direttamente posta dal legislatore.

[8] Scoditti prende le distanze sia dalla posizione di chi paventa il rischio che una giurisdizione per clausole generali possa comportare la «perdita di calcolabilità e di prevedibilità del diritto», finendo per affidare la risoluzione delle controversie al «soggettivismo giudiziale» (N. Irti), sia dalla opposta visione di chi vede nella valorizzazione delle clausole generali «il ritorno a una legalità del caso concreto e alla dimensione fattuale del diritto, superando le barriere di una ragione giuridica astratta e formale» (si citano, al riguardo, Autori come P. Grossi e N. Lipari). 

[9] Per una giustificazione dell’affermazione, che nel testo formuliamo in maniera del tutto apodittica, vds. G. D’Amico, Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, in Europa e dir. priv., n. 1/2019, pp. 1 ss., spec. pp. 3 ss.

[10] L’esperienza insegna che quando il legislatore ha cercato di favorire l’accesso al mercato (di alcuni beni o servizi) a categorie sociali “svantaggiate” (o, comunque, ritenute meritevoli di una particolare tutela), imponendo ai proprietari di tali beni (o ai fornitori di tali servizi) di praticare condizioni contrattuali che si risolvevano in una più o meno accentuata “redistribuzione di ricchezza”, il tentativo ha incontrato enormi resistenze, e, quasi sempre, si è risolto in un fallimento.
Emblematico è il caso della legge sul cd. “equo canone” per le locazioni di immobili urbani a scopo abitativo (l. 27 luglio 1978, n. 392), legge che – com’è ben noto – ha alimentato (oltre a vaste aree di vera e propria violazione) il ricorso a innumerevoli modalità elusive, senza peraltro risolvere il problema “abitativo”. Il che ha finito per convincere il legislatore a... ritornare al mercato (vds. l. 9 dicembre 1998, n. 431), sia pure mantenendo forme di “controllo” dell’esercizio dell’autonomia negoziale delle parti, attraverso la previsione dell’“assistenza” delle associazioni rappresentative dei proprietari e dei conduttori.

[11] Si pensi alle varie forme di agevolazioni e incentivazioni fiscali per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di determinate categorie di soggetti (ad esempio: giovani; soggetti residenti in regioni economicamente depresse; etc.); o si pensi (per riprendere l’esempio del contratto di locazione, fatto nella nota precedente) alle agevolazioni fiscali previste dagli artt. 8 ss. l. n. 431/1998 a favore dei proprietari che accettino di definire il valore del canone (oltre che la durata del contratto e altre condizioni contrattuali) sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative.
Un altro esempio ancora può essere fornito dai rapporti “concessori” che operano in alcuni settori (ad esempio, nel settore del trasporto pubblico locale), nell’ambito dei quali è frequente (per non dire normale) l’imposizione, al concessionario, di cd. “obblighi di servizio” (ad esempio, per restare al caso del trasporto pubblico locale: assicurare almeno due collegamenti giornalieri tra un paesino di montagna e la città più vicina), obblighi che – siccome comportano per lo più lo svolgimento di attività “in perdita” (perché i ricavi non riescono a coprire i costi) – sono sovente accompagnati dalla previsione di un “contributo” economico “pubblico”.
In generale, evidenzia il rischio che il mercato reagisca (a misure che sovraccarichino il contratto di compiti di natura sociale) «estromettendo [dal mercato stesso] i più deboli e i più fragili» E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung: ripensando la complessità giuridica, Giappichelli, Torino, 2017, p. 58, ove si aggiunge che «per questa ragione devono ipotizzarsi meccanismi di collaborazione fra pubblico e privato finalizzati ad accompagnare i soggetti socialmente deboli dentro i meccanismi del mercato» (e, poco prima, a p. 51, l’Autrice discorre di una «ontologica dimensione individualistica del contratto, al cui interno può tutt’al più collocarsi una prospettiva di giustizia commutativa, volta a reagire ad un’asimmetria di potere contrattuale»).