Magistratura democratica

Principi, clausole generali e definizioni nella disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza

di Guido Federico

Il nuovo codice della crisi e dell’insolvenza persegue l’ambizioso obiettivo di ricondurre a linearità il sistema normativo della crisi d’impresa, enunciando i principi generali della materia e le definizioni più rilevanti, senza rinunciare a una dettagliata disciplina e all’utilizzo di clausole generali e concetti indeterminati; tale scelta metodologica appare coerente con un ripensamento dell’idea di “sistema”: da struttura rigida e definitiva a strumento per applicare al meglio il diritto e garantire certezza e prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali.

La legge fallimentare del ’42, coeva al codice civile, risente, com’è noto, dell’ideologia corporativa dell’epoca ed è caratterizzata da una forte connotazione pubblicistica[1] e dall’impronta inquisitoria del procedimento[2].

A fronte di tale assetto normativo, rimasto sostanzialmente immutato – a parte gli essenziali, ma specifici interventi della Corte costituzionale[3] – per oltre sessant’anni, il diritto fallimentare non è stato interessato dalla progressiva valorizzazione delle clausole generali, che ha caratterizzato dapprima il dibattito dottrinario e, successivamente, gli stessi orientamenti della giurisprudenza in ampi settori del diritto civile e soprattutto del diritto dei contratti[4].

In materia fallimentare, in assenza di modelli negoziali, non vi era spazio per la rilevanza delle clausole generali quale strumento per attenuare la rigidità dell’ordinamento e consentirne l’adeguamento all’evoluzione della realtà economica e sociale.

Con la riforma del 2005 e le successive leggi di settore[5], lo scenario muta profondamente[6]: la centralità attribuita al concordato preventivo e agli accordi negoziali, e l’introduzione di modelli dell’autonomia privata per la definizione della crisi d’impresa pongono all’interprete problemi analoghi a quelli già sperimentati nel diritto privato e nel diritto dei contratti: il superamento della struttura inquisitoria e dell’impronta pubblicistica che caratterizzava la legge del ’42 determina una nuova configurazione del ruolo del giudice, cui è sottratto il potere di gestione diretta e viene demandata la funzione di controllo della regolarità della procedura e di valutazione, in posizione di terzietà, degli accordi per la regolazione della crisi d’impresa e di garanzia dell’equilibrio tra impresa debitrice e ceto creditorio, oltre che tra le disomogenee (e, dunque, spesso confliggenti) posizioni creditorie[7].

Tramontato l’impianto autoritario della legge del ’42, anche nel settore della crisi d’impresa l’intervento del giudice diviene funzionale – e indispensabile – a dare concretezza alle indeterminate esigenze di tutela del mercato e dei soggetti a diverso titolo coinvolti nel dissesto, avuto riguardo alla specifica situazione di crisi valutata nella sua interezza e complessità.

Questa impostazione di fondo viene mantenuta con il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato con il d.lgs 12 gennaio 2019.

Il codice introduce una disciplina organica della materia e ha l’ambizione di «ricondurre a linearità il sistema normativo» e di realizzare l’obiettivo di «soddisfare imprescindibili esigenze di certezza del diritto, che postulano un sufficiente grado di prevedibilità della decisione del giudice» ma, soprattutto, di rileggere il sistema della crisi e dell’insolvenza alla luce delle fonti comunitarie[8].

Secondo una prassi mutuata dalle fonti comunitarie, il codice della crisi definisce in limine le nozioni più rilevanti ed enuncia i principi generali. Esso fornisce, peraltro, una dettagliata disciplina (talvolta sin troppo minuziosa) degli istituti, mentre diverse disposizioni continuano a essere connotate dall’utilizzo di clausole elastiche.

Tale scelta di tecnica legislativa e l’impianto utilizzato – senza entrare nel merito delle scelte effettuate, delle eventuali omissioni e dei profili di criticità della disciplina[9] – appaiono sostanzialmente efficaci, fatta eccezione per alcuni profili di incertezza[10], forse inevitabili in presenza di una riforma che, seppur in linea con gli interventi legislativi più recenti, muta radicalmente l’approccio alla crisi d’impresa rispetto alla legge del ’42, adeguandola ai principi della normativa europea[11], e nel contempo si sforza di recepire taluni consolidati indirizzi della giurisprudenza e best practices degli uffici fallimentari.

Il codice individua “a monte” e, mi pare, con sufficiente chiarezza i valori e le scelte di fondo, indicando presupposti e finalità dei diversi istituti e modelli di regolazione della crisi, mettendo in evidenza la rilevanza pragmatica alle categorie teoriche[12].

Naturalmente non è possibile esaminare, nemmeno sommariamente, i diversi principi generali e i concetti elastici che informano il codice della crisi: quelli di seguito indicati hanno il solo scopo di dare contezza dell’assunto appena enunciato.

Diviene centrale l’emersione anticipata della crisi e vengono introdotte misure dirette a favorire e implementare i processi di (tempestiva) ristrutturazione aziendale; la stessa nozione di “crisi” trova adesso una definizione sufficientemente precisa[13] e si introduce per la prima volta una disciplina organica anche dell’insolvenza del piccolo imprenditore e del cd. debitore civile.

Viene meno ogni valenza sanzionatoria tradizionalmente attribuita al fallimento[14], sostituito adesso da una procedura di liquidazione giudiziale, e il principio della par condicio creditorum, seppure fortemente ridimensionato, non è stato divelto[15].

Vengono con chiarezza indicati i doveri del debitore e, preminente su tutti, vero e proprio principio-cardine della valutazione della sua responsabilità, quello di adottare un adeguato assetto organizzativo e di dotarsi di misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi.

Viene altresì espressamente affermato, eliminando ogni dubbio sull’applicabilità del generale principio di cui all’art. 1175 cc, anche in ambito concorsuale, il dovere del debitore e dei creditori di comportarsi secondo buona fede e correttezza nell’esecuzione degli accordi e nella fase delle trattative.

Nella disciplina del concordato preventivo, che ha come precondizione il dovere di informazione completa, veritiera e trasparente del debitore (art. 3, comma 2), è particolarmente pregnante il ruolo del giudice: la valutazione circa la «fattibilità economica» del piano, che deve accompagnare l’«ammissbilità giuridica» della proposta (art. 47), la nozione di «atti di frode» quale presupposto per la revoca dell’ammissione (art. 106), implicano un controllo di fattibilità e ragionevolezza che si aggiunge a quello di legalità, e che trova la sua giustificazione nella generale vincolatività per tutti i creditori degli effetti del concordato omologato, nelle asimmetrie esistenti tra gli stessi appartenenti al ceto creditorio e nelle ricadute (più o meno rilevanti) sull’equilibrio di mercato degli accordi negoziali di regolazione della crisi d’impresa.

Quello che mi pare possa trarsi ai limitati fini del presente contributo è che la disciplina organica della materia realizzata dal d.lgs 12 gennaio 2019,

n. 14, che tende alla realizzazione (forse utopistica) di un assetto sistematico della regolazione della crisi dell’impresa e dell’insolvenza anche del debitore civile, combina principi generali – taluni enunciati nella propria sedes (Titolo I, Capo II, artt. 3 ss.), altri in relazione ai singoli istituti (vds., per esempio, l’art. 84 «Finalità del concordato preventivo») –, fattispecie giuridiche dettagliatamente disciplinate e concetti elastici.

In tale assetto, i principi generali enunciati dal legislatore delegato (oltre a quelli desumibili dalla legge delega e, in via ermeneutica, dal corpus normativo del codice) si qualificano come strumenti tecnici di configurazione giuridica delle singole fattispecie[16] e le clausole generali mantengono una essenziale funzione di adeguamento del sistema e di strumento per l’individuazione della regola del caso concreto.

Il riferimento a un sistema coerente, ancorché non irrigidito in una struttura definitiva[17], le cui linee generali mi sembrano ben individuabili, fornisce dunque all’interprete un essenziale strumento per la concretizzazione delle clausole generali e contribuisce a individuarne i limiti applicativi e i parametri per il relativo controllo di legittimità, sterilizzando il timore che l’utilizzo di concetti elastici, non eliminabile nell’esperienza giuridica contemporanea, determini un rischio per la certezza del diritto e la prevedibilità della decisioni.

E, in generale, tanto più l’individuazione dei criteri generali e di principi regolatori della materia risulterà con chiarezza e senza ambiguità dal testo di legge, tanto più potrà dirsi che il legislatore abbia svolto con efficienza ed onestà il proprio compito.


1. S. Satta, La nuova legge sulle procedure concorsuali, in Riv. dir. proc. civ., 1942, p. 37; F. Ferrara, Il Fallimento, Giuffrè, Milano, 1959.

2. L. Stanghellini, La genesi e la logica della legge fallimentare del 1942, in G. Morbidelli (a cura di), La cultura negli anni ’30, Passigli, Firenze, 2014.

3. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 141/1970, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15 rd n. 267/1942 nella parte in cui non prevede l’obbligo del tribunale di disporre la comparizione dell’imprenditore in camera di consiglio; con la sentenza n. 570/1989, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di detto secondo comma, come modificato dalla legge 20 ottobre 1952, n. 1357, nella parte in cui prevede il tetto di lire novecentomila quale limite del capitale investito nell’azienda, non oltre il quale gli imprenditori esercenti un’attività commerciale «sono considerati piccoli imprenditori».

4. S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., n. 3-4/1967; N. Irti, Rilevanza giuridica, in Jus, n. 1-2/1967, pp. 74 ss.; C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, pp. 24 ss.; A. Di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, ivi, 1984, pp. 539 ss.; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, ivi, 1986 pp. 5 ss.; A. Falzea, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv. dir. civ., n. 1/1987, pp. 1 ss.; per l’applicazione giurisprudenziale delle clausole generali, vedi E. Scoditti, Concretizzare ideali di norme. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in Giust. civ., n. 4/2015, p. 708.

5. A partire dal cd. “correttivo”, d.lgs n. 169/2007 e i successivi: dl n. 83/2012, conv. dalla l. n. 134/2012; dl n. 179/2012, conv. dalla l. n. 221/2012; dl n. 69/2013, conv. dalla l. n. 98/2013; dl n. 132/2014, conv. con modificazioni dalla l. n. 162/2014; dl n. 83/2015, conv. dalla l. n. 132/2015; dl n. 59/2016, conv. dalla l. n. 119/2016.

6. M. Fabiani, Concordato preventivo, in Id., Fallimento e concordato preventivo, vol. II, Zanichelli, Bologna, 2014, p. 29, definisce “epocale” l’intervento del dl n. 35/2005.

7. Vds. G. Minutoli, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezzza), in Fall., n. 9/2008, p. 1047.

8. Tali obiettivi, già enunciati nella legge delega n. 155/2017, sono espressamente indicati nella relazione illustrativa del d.lgs n. 14/2019.

9. Per una visione (a mio avviso eccessivamente) critica dell’impianto e di talune scelte di fondo del CCII, vds. G. Lo Cascio, Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: considerazioni a prima lettura, in Fall., n. 3/2019, pp. 263 ss.

10. In tal senso M. Fabiani, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche omissione, in Foro it., 2019, I, cc. 162 ss.

11. Vengono in rilievo, oltre alla raccomandazione 2014/135/UE della Commissione (del 12 marzo 2014), al regolamento UE del Parlamento e del Consiglio 2015/848 e alla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 novembre 2016, la direttiva UE 2017/1132, mentre la recente direttiva UE 2019/1023 viene specificamente citata nella relazione illustrativa al citato “schema di correttivo” al CCII.

12. Così L. Ferrajoli, in L. Ferrajoli e J. Ruiz Manero, Due modelli di costituzionalismo. Un dialogo su diritto e diritti, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, p. 119.

13. Nozione che viene ulteriormente precisata nello schema di decreto legislativo (ex art. 1, comma 1, l. n. 20/2019) recante disposizioni integrative e correttive sul codice della crisi.

14. Per un’evoluzione del fallimento e delle sue finalità, vds. F. Di Marzio, Fallimento, Storia di un’idea, Giuffrè, Milano, 2018.

15. L’azione revocatoria fallimentare, il più tradizionale strumento di tutela della par condicio creditorum, viene mantenuta con i limiti temporali e le numerose esenzioni già introdotte dal dl del 2005, ulteriormente depotenziata dalla previsione degli istituti di composizione della crisi (che di fatto coprono buona parte del cd. “periodo sospetto”) e dagli incentivi diretti a favorire la prosecuzione dell’attività aziendale.

16. Cosí G. Alpa, I principi generali, in G. Iudica e P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 145 ss.

17. Per la considerazione che è venuta meno la logica delle lacune con riferimento a un definito assetto normativo e che stiamo ormai passando dall’idea di sistema come struttura definitiva, prigione di significati, all’idea di sistema come fine al quale il giurista tende per facilitare la conoscenza del diritto, vds. N. Lipari, Diritto civile e ragione, Giuffrè, Milano, 2019, p. 97.