Magistratura democratica

La frontiera marocchina: uno spazio-tempo liminale che si cristallizza

di Anaik Pian

Alle frontiere dell’Europa esiste una vera e propria organizzazione sociale ad hoc: ne sono protagonisti i migranti subsahariani che, in Marocco, tentano con ogni mezzo di raggiungere la Spagna passando per le Canarie o le enclave di Ceuta e Melilla. Mentre l’esternalizzazione del controllo si inasprisce, le rotte migratorie si fanno via via più complesse e le connessioni più codificate. Il percorso di Cheikh è, al riguardo, emblematico.

Cheikh è arrivato in Marocco nei primi anni 2000. In Senegal viveva in una banlieue popolare di Dakar. Ogni giorno si recava in centro città, dove lavorava in un negozio di artigianato destinato a una clientela in prevalenza turistica. Sposato, era padre di una bambina di quattro anni quando ha preso la strada per la Libia. Allora i suoi piani erano piuttosto vaghi: partiva “all’avventura”, come usano dire molti senegalesi[1], includendo nell’atto di migrare o, più esattamente, di partire per “tentare altrove la fortuna”, una dimensione esistenziale assistita da aspettative di realizzazione personale ed emancipazione sociale che, pur non riducendosi a un progetto di natura economica, tuttavia non se ne affrancano interamente[2]. Per raggiungere la Libia, Cheikh ha attraversato il Mali e il Burkina Faso, sostando a Bamako e, in seguito, a Ouagadougou, per poi arrivare in Niger. Dopo una sosta nella capitale Niamey, ha soggiornato diverse settimane ad Agadez, trovando una sistemazione provvisoria presso la dahira mouride[3] della città per il tempo necessario all’acquisto di un titolo di trasporto presso un’agenzia viaggi informale, che noleggia camion sovraccarichi specializzati nella traversata del deserto libico. È importante qui un richiamo alla legge nigerina promulgata sotto pressione europea una quindicina di anni più tardi (legge 26 maggio 2015, n. 36): relativa al «traffico illecito di migranti», prevede una condanna fino a 30 anni di reclusione per le attività di trasporto associate a qualunque ingresso o uscita illegale dal territorio dello Stato. Al Niger – che occupa un posto strategico nella lotta contro l’immigrazione illegale sostenuta dai Paesi europei – è stata attribuita, nell’estate 2018, una dotazione di 21 milioni di euro, anticipati e seguiti da altri aiuti finanziari sulla base di diversi accordi e “partenariati” aventi in comune il medesimo obiettivo: un maggiore controllo dei flussi migratori[4].

Una volta giunto in Libia, rimanendo in una situazione di irregolarità[5], Cheikh ha lavorato per tre anni nel settore edile a Sebha, a sud della Capitale, in condizioni molto gravose. Alla durezza del lavoro quotidiano e alla bassa retribuzione ricevuta, si aggiungeva il confronto al razzismo e alla xenofobia. È a quel punto che il suo progetto di andare in Europa si è concretamente definito: non, però, dalle coste libiche, le condizioni della traversata verso l’Italia sembrandogli troppo rischiose, bensì dal Marocco attraverso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, nel nord del Paese. Il periplo che lo ha portato in Marocco si è prolungato per diverse settimane. Da Ghadamès, nella Libia occidentale, Cheikh ha raggiunto la città algerina di Asmazou dopo varie ore di marcia condotta da accompagnatori tuareg, pagati per il servizio di guida su queste piste particolarmente difficili. Dopo due ulteriori scali, è arrivato a Maghnia, città dell’Algeria settentrionale alla frontiera con il Marocco, sostando in uno dei “campi” informali di migranti allestiti nei pressi del confine. Qui ha progressivamente preso familiarità con le regole collettive seguite per le traversate verso l’Europa. In territorio marocchino ha infine raggiunto Oujda, poi Rabat dove, grazie ai contatti avuti a Maghnia, si è inserito in un residenza collettiva o “foyer” senegalese. Trascorso un anno, ha assunto la direzione di questo foyer e co-organizzato, in qualità di thiaman[6], le traversate clandestine verso le Isole Canarie effettuate a partire dal Sahara marocchino. Inoltre, ha re-indirizzato dei migranti verso i campi spontanei di Gourougou e Bel Younes, siti in prossimità delle enclave di Melilla e di Ceuta.

Nel 2005 i tentativi di passaggio “in massa” attraverso le stesse enclave sono stati fortemente mediatizzati, sia per il numero di migranti coinvolti che per la fortissima repressione che ne è seguita[7]. Da allora, gli ingressi in Spagna passando per quel canale sono proseguiti con intensità variabile secondo i periodi, il ri-orientamento delle rotte migratorie e la gestione politica dei flussi[8]. Nell’estate 2018, lo spettacolare scavalcamento del muro di Ceuta e Melilla passa di nuovo sotto i riflettori. Il 26 luglio, 600 migranti fanno ingresso a Ceuta dopo un assalto definito dalla stampa “particolarmente violento”. Quasi un mese dopo, il 22 agosto, altri 116 migranti oltrepassano la barriera malgrado dispositivi di sicurezza sempre più sofisticati, in uso intorno alle due enclave a partire dalla fine degli anni novanta. Qualche giorno dopo, i migranti sono respinti in Marocco per la riattivazione di un accordo bilaterale tra le autorità spagnole e marocchine.

Contrariamente a quel che lascerebbero pensare le immagini normalmente diffuse, i tentativi di passaggio non sono privi di organizzazione e si inscrivono in un disegno molto preciso della vita alla frontiera, espresso in forma sia verbale che scritta[9]. Dal periodo a cavallo tra fine anni novanta e inizio anni 2000, i campi sorti nella foresta mediterranea di Gourougou e Bel Younes sono stati teatro di un’organizzazione sociale sempre più codificata. A Gourougou, la direzione è assunta da un “presidente” della (autonominatasi) “Unione africana”, eletto per tre mesi all’interno del gruppo dei thiamen della foresta, di diverse nazionalità (vi sono, infatti, un thiaman congolese, uno maliano, uno senegalese, uno ivoriano, etc.). Gli accampamenti della foresta di Bel Younes sono, per parte loro, posti sotto l’autorità di un coordinatore che, proprio come il “presidente dell’Unione africana”, supervisiona il collegamento tra i diversi gruppi o “reti” di migranti. Con l’appoggio di una simile organizzazione, i tentativi di passare il confine in direzione delle enclave spagnole – che possono svolgersi secondo diverse modalità – sono divenuti sempre più dettagliati e coordinati. Per esempio, certi migranti hanno il preciso “ruolo” di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine per agevolare altri nel passaggio. Nei primi anni 2000, è stato attivato un dispositivo denominato “caschi blu”. Formata da migranti di varie nazionalità accampati nella macchia, questa organizzazione, che per mimesi si rifà alla funzione assunta dalla nota forza intergovernativa, rispondeva a un duplice obiettivo: da un lato, pacificare i rapporti fra migranti ed evitare il degenerare delle liti; dall’altro, scortare i “convogli”[10] che partono verso la frontiera[11].

Strutturando le reti migratorie e inquadrando la vita quotidiana di questi spazi “al margine”, tali forme di creazione istituzionale ad hoc costituiscono ancor oggi un’opportunità per “fare carriera” nell’economia delle migrazioni, sebbene oltrepassare i confini con l’Europa diventi in misura crescente un atto incerto e rischioso. Così è stato per Cheikh che, prima di partire per la Spagna a metà degli anni 2000, ha assunto la direzione di un foyer a Rabat, nel quartiere popolare di Takadoum. Quelli che i migranti chiamano “foyer” sono case a più piani, affittate a basso costo a cittadini marocchini, che albergano i candidati all’emigrazione verso l’Europa. Per risiedervi, i nuovi arrivati devono pagare un “diritto di ingresso”, al quale va aggiunto il prezzo della traversata, fissato agli inizi del decennio a un migliaio di euro. Ora, con il progressivo inasprirsi della lotta contro l’immigrazione irregolare sotto pressione europea, i thiamen hanno iniziato a gestire a distanza i foyer, abitando in quartieri residenziali più quotati, ma anche meno soggetti ai controlli della polizia[12]. Essi hanno, ciononostante, continuato a rivestire un duplice ruolo. Da una parte sovrintendono, tramite la delega a un capo-foyer, all’organizzazione della vita quotidiana della residenza collettiva, essendo quest’ultima strutturata sulla ripartizione dei compiti (pulizia e riordino degli spazi comuni, approvvigionamento) e delle funzioni (cassiere, polizia di sorveglianza, etc.); dall’altra, si fanno carico dell’organizzazione dei passaggi, lavorando in stretta cooperazione con i connexion men: incaricati di “connettere” le reti fra loro, questi migranti – anch’essi riconvertiti nell’ambito dell’organizzazione della migrazione – hanno la funzione di stabilire un partenariato con attori sociali marocchini[13], che negoziano con le autorità il passaggio dei confini.

Parallelamente, in funzione delle reti migratorie, è stato progressivamente istituito un insieme di regole allo scopo di limitare, o quantomeno disciplinare, il ruolo dei thiamen. Nei foyer senegalesi, ad esempio, stando al regolamento definito nei primi anni 2000, il prezzo del passaggio per la rotta marittima comprendeva tre tentativi. A un primo sguardo, tale modalità potrebbe apparire favorevole ai migranti, aumentando la loro possibilità di effettivo superamento della frontiera. Nondimeno, nella misura in cui questa “norma” poteva comportare una diminuzione del tornaconto personale per i thiamen, obbligati a far partire più volte una stessa persona, essa poteva dar luogo a svariati abusi, pregiudizievoli per chiunque tentasse di varcare il confine. Così, di fronte all’impazienza dei loro passeggeri che reclamavano la loro seconda o terza partenza, alcuni thiamen potevano decidere di far partire un convoglio pur sapendo che non avrebbe avuto speranze di riuscita.

La direzione dei foyer senegalesi si è, peraltro, rapidamente organizzata secondo un sistema a rotazione. Nello stesso periodo di riferimento, considerando un certo numero di passeggeri “consegnati” al connexion man e di successi ottenuti dai diversi convogli da lui organizzati, il thiaman era obbligato a cedere il suo posto. In ogni caso, avrebbe potuto fondare un nuovo foyer senza essere più soggetto, in qualità di fondatore, al sistema rotatorio – con la precisazione che, con l’eventuale successiva rinuncia a quello status, il sistema si sarebbe automaticamente rinnovato applicandosi al suo successore. L’avvicendamento avveniva in base all’ordine di arrivo, pur non trattandosi di una regola inderogabile. Più in generale, la funzione del thiaman era assistita da un’etica rigorosa all’insegna della serietà e dell’onestà: colui che sarebbe subentrato doveva anzitutto essere persona degna di fiducia. La sua abilità a gestire il funzionamento interno della macchina migratoria, con cui si era familiarizzato nel corso del proprio iter individuale, andava ugualmente riconosciuta. Se, spesso, la designazione del nuovo thiaman alimentava tensioni tra i pretendenti, il principio sul quale si reggeva questo ordine collettivo era percepito dai migranti come legittimo. La pratica del regalo (cadeau) consentiva, tuttavia, una deroga al sistema centrato sulla rotazione. Il principio era il seguente. Quando un certo numero di candidati alla partenza fosse passato con successo, il thiaman riceveva un “posto” di passaggio gratuito per conto del passeur marocchino con il quale era in relazione. Sul finire del mandato, egli poteva negoziare con il suo successore il mantenimento della posizione, trasferendo a lui il posto oggetto del regalo. In cambio, l’associato rinunciava alla successione immediata.

Quando la partenza del thiaman non era prevista, il regalo poteva essere attribuito o venduto a un prezzo interessante a un migrante che si fosse distinto per la sua buona condotta. In linea di principio, questa pratica permetteva a tutti di avere un’opportunità; di fatto, nutriva soprattutto la speranza di chi fosse privo dei mezzi materiali necessari a pagarsi la traversata. Inoltre, essa consolidava il potere del thiaman che, in tal modo, aumentava il proprio controllo sui passeggeri inclini a guadagnarsi i suoi favori. Nel corso della sua “carriera”, Cheikh ha utilizzato una volta il cadeau per beneficiare di un nuovo mandato, prima di riuscire, infine, a entrare in Spagna con l’aiuto di documenti falsi[14].

Alle frontiere dell’Europa, negli spazi-tempo dell’attesa, mentre le politiche di regolazione dei flussi migratori si inaspriscono si crea un intero mondo sociale, che tenta di adattarsi a dispositivi di controllo sempre più sofisticati. Occorre, ancora, sottolineare che il progetto di entrare irregolarmente in Europa può prendere forma in maniera progressiva nel corso delle costrizioni e delle opportunità incontrate lungo i percorsi migratori: se alcuni giungono in Marocco con la prospettiva predefinita di entrare in Spagna (attraverso le enclave di Ceuta e Melilla, la traversata verso le Canarie o a partire dallo Stretto di Gibilterra), non per tutti è così. Studenti, atleti, piccoli commercianti dapprima venuti in Marocco nel contesto – rispettivamente – di una formazione superiore, di progetti cooperativi di scambio in ambito sportivo o di attività commerciali possono, in un dato momento, decidere di tentare la fortuna nel Vecchio continente in seguito alle delusioni vissute in Marocco e al richiamo di un “altrove” migliore.

La traiettoria di Cheikh, e l’organizzazione della quale si è trovato a essere parte attiva, invitano a discutere dell’eterogeneità della figura del passeur. La mediatizzazione delle traversate illegali verso l’Europa calca l’accento su passatori senza scrupoli, associati al funzionamento delle reti criminali di trafficanti. In questi termini, nel settembre 2017 una proposta di legge francese «mirante a rafforzare la lotta contro i traffici di migranti» è stata presentata all’Assemblea nazionale[15]. Diffondendo il grido d’allarme lanciato da varie ong, la mediatizzazione dei drammi della migrazione allerta l’opinione pubblica relativamente allo sfruttamento sessuale dei migranti (donne, bambini, ma anche uomini) coinvolti in quelle reti: non solo dall’altro lato della frontiera, come nel Maghreb o in Africa subsahariana, ma anche in Europa, nel quadro di una visibilità/invisibilità più o meno ampia, come al confine tra Francia e Italia[16].

L’organizzazione dei passaggi clandestini implica, inevitabilmente, rapporti di potere e di dominio, in quanto soggetta a un controllo dell’informazione e al costituirsi di reti di relazioni di carattere corruttivo. Ora, più diventano rare e indispensabili per varcare la frontiera, più queste risorse accrescono il potere di chi le detiene, lasciando spazio – in un crescente processo di monetizzazione – a numerosi abusi.

Eppure, come mostra il caso dei thiamen in Marocco (che possono essere assimilati a un tipo di passeur), questa figura è più eterogenea di quella inquadrata nella categoria di “passeur criminale” o di “mercante di schiavi del XXI secolo”[17]. Le reti migratorie non si reggono esclusivamente su vincoli coercitivi quasi impossibili da sciogliere: possono anche strutturarsi intorno a relazioni contrattuali che, per quanto assistite da rapporti di potere, non ingabbiano i migranti nelle maglie di una dipendenza senza uscita. D’altronde, tutti i passeur – o, più esattamente, tutte le categorie di passeur – non sono “termini esterni” di un rapporto, ma attori pienamente inseriti in questo processo: è il caso dei capitani di pesca in Senegal, che, negli anni 2006-2008, organizzavano ed effettuavano materialmente il trasporto verso le Isole Canarie di centinaia di passeggeri accalcati nelle loro piroghe[18].

Oggetto di una legislazione sempre più repressiva in linea con l’evolversi delle politiche migratorie[19], la lotta ai passeur produce un doppio effetto di ambivalenza, che conviene qui sottolineare. In primo luogo, più le politiche migratorie sono restrittive, più il ricorso ai “passatori” diventa indispensabile per chi tenti di passare illegalmente i confini. Contribuendo a un circolo vizioso, tali politiche concorrono ad alimentare o, come minimo, a mantenere lo stesso processo che vorrebbero arginare. In secondo luogo, mossa sovente dalla preoccupazione di proteggere in via preventiva dallo sfruttamento le persone più vulnerabili[20], la lotta ai passeur concorre, paradossalmente, a compromettere la legittimità degli interventi umanitari. Le controversie suscitate, nel corso dell’estate 2018, dalle operazioni di salvataggio in acque mediterranee effettuate dall’Aquarius, nave gestita in partenariato da Sos Mediterranée con Medici senza frontiere, sono rivelatrici in proposito. Sempre di più, le ong sono ritenute responsabili non soltanto di creare un fattore di attrazione[21], ma anche di facilitare l’attività dei passeur, dal momento che questi ultimi farebbero affidamento sul soccorso umanitario prestato ai migranti, che raggiungerebbero l’Europa più facilmente.

Nel giugno 2018, l’idea avanzata dai Paesi europei di creare “piattaforme di sbarco regionali” nei Paesi confinanti con l’Ue allo scopo di riunirvi i migranti intercettati in mare, non è estranea a tali controversie. Difendendosi contro ogni accusa di collusione con i passeur, le ong, da parte loro, mettono in primo piano il rispetto del diritto internazionale del mare nelle azioni di soccorso condotte: il diritto europeo e internazionale, sottolineano, è regolarmente aggirato dalle operazioni di polizia transfrontaliere, tra cui quelle compiute nell’ambito operativo dell’agenzia europea Frontex, che procedono indistintamente effettuando respingimenti in mare aperto[22].


* Traduzione di Mosè Carrara Sutour.

1. Come altri migranti dell’Africa occidentale, sovente si auto-definiscono “avventurieri”, termine che ha un impiego durevole nelle migrazioni africane, peraltro variabile a seconda dei contesti e dei locutori.

2. In proposito, cfr. A. Pian, Migrations internationales au prisme des rapports familiaux. Les familles sénégalaises à l’épreuve des refoulements des îles Canaries, in Revue européenne des migrations internationales, vol. 27, n. 2/2011, pp. 77-100.

3. Il “muridismo” designa l’appartenenza alla confraternita musulmana dei Muridi – dall’arabo “murīd”, “colui che aspira (alla conoscenza di Dio)” –, fondata alla fine del XIX secolo da Cheikh Amadou Bamba (noto anche come Serigne Touba), mentre il Senegal è soggetto al dominio coloniale. “Dahira”, in estrema sintesi, indica un’associazione composta da taalibé (studenti muridi).

4. Per maggiori riferimenti, si veda ad esempio il report pubblicato, nel dicembre 2017, dall’associazione francese La Cimade, Coopération UE-Afrique sur les migrations. Chronique d’un chantage. Décryptage des instruments financiers et politiques de l’Union européenne (www.lacimade.org/publication/cooperation-ue-afrique-migrations-chronique-dun-chantage/).

5. Allora, prima della caduta del regime di Gheddafi, la legislazione libica in materia di immigrazione era relativamente limitata. Si riteneva “irregolare” chiunque non avesse fatto ingresso nel Paese per uno dei valichi di frontiera autorizzati e non fosse in grado di esibire i seguenti documenti validi: passaporto, certificato medico e contratto di lavoro. Cfr. D. Perrin, Ballets diplomatiques et droit des étrangers en Libye, in Maghreb - Machrek, n. 181/2004, pp. 10-23.

6. Derivato dall’inglese “chairman”, “presidente”, il termine è in uso tra i migranti per indicare chi, tra loro, si è reimpiegato nella gestione organizzata dei passaggi per l’Europa. Vds., specificamente, A. Pian, Aux nouvelles frontières de l’Europe. L’aventure incertaine des Sénégalais au Maroc, La Dispute, Parigi, 2009.

7. Cfr. La Cimade e Associazione degli amici e familiari delle vittime dell’immigrazione clandestina (AFVIC), Refoulements et expulsions massives des migrants et demandeurs d’asile : récit d’une mission de l’AFVIC et de La Cimade, 11 ottobre 2005 (https://algeria-watch.org/pdf/pdf_fr/afvic_cimade121005.pdf).

8. Per uno sguardo più approfondito, si vedano tra gli altri: Y. Bouagga e C. Barré (a cura di), De Lesbos à Calais : comment l’Europe fabrique des camps, Le passager clandestin, Neuvy en Champagne, 2017; C. Kobelinski e S. Le Courant (a cura di), La mort aux frontières de l’Europe : retrouver, identifier, commémorer, Le passager clandestin, Neuvy en Champagne, 2017. Cfr. altresì C. Kobelinsky, Exister au risque de disparaître. Récits sur la mort pendant la traversée vers l’Europe, in Revue européenne des migrations internationales, vol. 33, n. 2-3/2017, pp. 115-131.

9. Cfr. A. Pian, Aux nouvelles frontières de l’Europe, op. cit.

10. Termine usato dai migranti per indicare un gruppo di persone in partenza nel tentativo di oltrepassare la frontiera.

11. Per un approfondimento, vds. ancora A. Pian, Aux nouvelles frontières de l’Europe, op. cit.

12. Del resto, chiunque può essere impiegato come faccendiere per conto di un thiaman e percepisce un compenso per ogni nuovo cliente acquisito. Migranti in difficoltà economica, piccoli marabutti, attori del commercio informale o anche studenti privi di aiuti materiali possono essere tentati di entrare in questo gioco – a volte, per la durata di un solo giorno. Si tratta di un sistema che spinge alcuni migranti a incoraggiare altri compatrioti a venire in Marocco, ferma la piena consapevolezza degli ostacoli che presenta l’attraversamento della frontiera.

13. In Marocco sono principalmente i senegalesi a soprannominare “naar” i marocchini, appellativo direttamente mutuato dal wolof. Risalente all’epoca precoloniale, la parola originariamente significa “mauro” (in francese: “maure”) ed è riferita ai mauritani “bianchi”. In seguito, la sua area semantica si è estesa a tutti gli “arabi” (i.e.: ai rappresentanti le popolazioni di lingua araba). Nell’uso corrente, il termine si tinge di una connotazione dispregiativa, che suggerisce la scarsa affidabilità di chiunque sia indicato come tale. Attualmente, i senegalesi ne hanno ridefinito il significato trasformando “naar” in un acronimo (imperfetto, ma a pronuncia invariata) particolarmente eloquente sul piano dei rapporti interetnici: nel loro gergo, la parola corrisponde ormai alle iniziali dell’espressione “non africani respinti dall’Europa” (“nare”).

14. Questo, però, non vale per tutti i thiamen: alcuni si stabiliscono in Marocco, si reimpiegano in altre attività, falliscono, sono arrestati, scontano pene detentive, etc.

15. Vds. la proposta di legge n. 200 «mirante a rafforzare la lotta contro il traffico di migranti», depositata il 27 dicembre 2017 e trasmessa alla Commissione permanente «des lois constitutionnelles, de la législation et de l’administration générale de la République» (www.assemblee-nationale.fr/dyn/15/textes/l15b0200_proposition-loi).

16. Cfr. il contributo di Save the Children, Piccoli schiavi invisibili – Rapporto 2018 sui minori vittime di tratta e sfruttamento in Italia, 26 luglio 2018 (www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/piccoli-schiavi-invisibili-2018 – in particolare, cap. 4).

17. Vds. la già citata proposta di legge n. 200/2017.

18. Vds. A. Pian, Variations autour de la figure du passeur, in Plein droit, n. 84, marzo 2010, pp. 21-25.

19. Cfr. inoltre, sul tema, C. Kobelinski e S. Le Courant (a cura di), La mort aux frontières de l’Europe, op. cit., in particolare l’ultimo paragrafo dell’Introduzione: À quoi les passeurs sont-ils utiles, pp. 26-35.

20. Nel quadro del diritto internazionale, a partire dagli anni 2000 le Nazioni Unite adottano due protocolli addizionali alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale, finalizzati la lotta alla tratta di persone e al traffico di migranti per via terrestre, aerea e marittima. In base alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 16 maggio 2005 e al Protocollo di Palermo, addizionale alla Convenzione Onu sopra citata, la «tratta di esseri umani» è definita come «reclutamento, trasporto, trasferimento, accoglienza e ospitalità di persone, dietro minaccia di ricorso o ricorso alla forza o ad altre forme di costrizione, o tramite rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, o dietro pagamento o riscossione di somme di denaro o di altri vantaggi per ottenere il consenso di una persona avente autorità su un’altra, a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi». Il primo Protocollo addizionale (del 2000) alla Convenzione Onu definisce il «traffico di migranti» («smuggling of migrants») «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o altro tipo di vantaggio materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente» (art. 3, lett. a).

21. Vds., ad esempio, C. Macé, Réfugiés : le mauvais procès fait aux ONG, Libération, 5 luglio 2017 (www.liberation.fr/planete/2017/07/05/refugies-le-mauvais-proces-fait-aux-ong_1581852).

22. Vds. E. Ottavy e O. Clochard, Franchir les dispositifs établis par Frontex. Coopérations policières transfrontalières et refoulements en mer Égée, in Revue européenne des migrations internationales, n. 30 (2)/2014, pp. 137-156.