Magistratura democratica

L’innesto della giustizia ecologica nel codice civile. Eguaglianza e beni comuni fra legge e diritto

di Ugo Mattei

I beni comuni sono struttura dell’eguaglianza quale campo dell’impersonale umano in grado di unificare il genere sulla base della parità di accesso, della diffusione del potere e dell’illimitata inclusione di tutti. Di qui l’urgenza dell’introduzione dei beni comuni nel codice civile, slegando la loro tutela dalla titolarità, pubblica o privata, quale via maestra di ingresso dell’impersonale nel diritto.

1.

Colgo volentieri l’occasione offertami di riflettere sul diritto civile alla luce del nuovo libro di Aldo Schiavone, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia (Einaudi, Torino, 2020). Sia detto a scanso di equivoci: la presente non è una recensione, anche se l’esperienza di lettura è stata davvero straordinaria. Del resto, Schiavone, uno dei più autorevoli intellettuali italiani, è per me da anni punto di riferimento culturale imprescindibile. Colpisce come egli sappia eccedere sempre più ampiamente la dimensione del giurista romanista di gran scuola, sicché ai panni dello storico delle istituzioni e delle idee, che con Ius aveva dimostrato al mondo di saper indossare come nessun altro[1], aggiunge ora con grande eleganza e agio quelli del filosofo, neppure solo della politica. Con questo libro Schiavone aggiunge il proprio prestigioso nome a quel movimento di Italian Theory che, intorno a Roberto Esposito, Giacomo Marramao, Antonio Negri (per citare solo quelli i cui lavori sono a me più noti), restituisce prestigio internazionale ai nostri studi umanistici critici. Tutto ciò, naturalmente, senza minimamente insinuare (non avrei affatto gli strumenti per farlo) che questa etichetta sia dotata di alcun contenuto teorico unificante “spesso”[2].

Non recensione, dunque (anche se avrei una gran voglia di litigare sul trattamento davvero poco generoso riservato a Marx, sulla lettura di Gramsci, nonché su un tasso di eurocentrismo a mio vedere eccessivo), ma orgogliosa recezione della staffetta che Schiavone passa al pensiero benicomunista nel suo ultimo capitolo[3]. Egli, fedele all’idea (forse illusione?) per cui gli studi storici contengono in un certo senso il DNA del futuro (sono ben conscio di entrare in un campo minato), tenta una riflessione sul “potrebbe essere” assegnando ai beni comuni il compito di tradurre in prassi giuridica l’“impersonale” di Esposito[4]. Che cosa sarebbe successo se, al centro del Ius e della sua complessa istituzionalizzazione dell’eguaglianza, ci fosse stato l’impersonale e non la persona della Western Legal Tradition? In un certo modo, insinua Schiavone (seppur ben conscio che con i se non si fa la storia), si sarebbe potuto immaginare un diverso destino istituzionale, se l’idea impersonale e dunque di specie dell’umano fosse riuscita a emergere. Se quella sintesi fra infinito e finito che Hegel trovò nello Stato etico, come superfetazione della tradizione cristiana del Dio-persona, fosse emersa da una diversa genealogia con al centro il comune umano e non l’individuo. Diverso avrebbe potuto essere allora il modo in cui il soggettivismo cartesiano e kantiano si sarebbero potuti infine superare. Schiavone indica la genealogia in Antifonte, Averroè, Montaigne, Bruno e infine Spinoza. A questi, con un saggio di qualche anno fa, aggiungemmo Leonardo da Vinci, per evitare che il diritto universale di specie potesse mutarsi in specismo come effetto (non conscio) del nuovo umanesimo[5]. In ogni caso, gli esiti appena accennati da Schiavone vanno nella direzione da noi condivisa di un processo di istituzionalizzazione dei beni comuni come possibile superamento di aporie insuperabili nel costituito della modernità giuridica. Egli ipotizza: «[s]i renderebbe possibile così la formazione intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali. Contesti nei quali le soggettività provvisoriamente svaniscono, non hanno peso rispetto alla considerazione dell’umano in quanto tale, nella sua universale indeterminazione. Chi entra in contatto con questi territori si desoggettivizza e mantiene valore soltanto in quanto frammento indistinguibile d’umano. (...) È facile proporre degli esempi – classi di beni compresi in queste sfere – senza alcuna pretesa di completezza: la recente riflessione soprattutto giuridica sui cosiddetti “beni comuni” ne consente una prima ricognizione»[6].

Emerge anche qui, quasi testualmente, la visione di un diritto dei beni comuni come isola di ordine in un mare di disordine, per utilizzare la suggestione di Ilya Prigogine[7]. Ma come ottenere quest’ordine giusto ed egualitario, fondato sull’accesso e non sull’esclusione, nel quadro di leggi civili (in primis, i codici) basate su tutt’altri presupposti? Certo, i beni comuni nella loro teoria, e soprattutto nella prassi laddove riescono a istituzionalizzarsi in un nuovo “diritto dei privati” (il riferimento a Cesarini Sforza recentemente riproposto da Michele Spanò non è casuale[8]), costituiscono la sola epifania ad oggi conosciuta di un’autentica uguaglianza fra diversi. Un’eguaglianza che va ampliata in modo globale, in un quadro di giustizia ecologica, fondata sul principio del bisogno e dell’impegno, che sono categorie personali certo, ma dell’essere, non dell’avere[9], nella cura del comune (la «casa comune» di Papa Francesco[10]). La cura “in comune” dei beni, non certo ridotta al lavoro (capitalistico) in uno spazio fisico o virtuale che sia, pone al centro l’umano universale e impersonale di cui parla Schiavone; si riesce perfino ad ampliarne ulteriormente la portata in una nozione del vivente che non si dà solo qui e adesso, ma che si rivolge perfino a chi ancora non c’è, a chi non è prossimo nella visione di Nietzsche.

Il fatto è che la costituzione della borghesia, contenuta nel diritto privato codificato a partire dai primi codici civili, ha tradotto il diritto nella legge, facendoci smarrire ogni valenza assiologica dello ius nell’abbraccio mortale con la lex. Ciò che, pure etimologicamente, evocava il giusto, il retto, il lineare, si trova oggi legato (appunto dalla lex, locuzione priva di ogni valenza diversa dall’essere coercizione) in un letto di Procuste che ha formalizzato il fallimento intellettuale della modernità. Tutta la modernità, non certo solo la sua epifania statalista sovietica, che in qualche modo Schiavone imputa a Marx, senza tener conto di sfumature assai rilevanti come, ad esempio, il tentativo giuridico immanentista (direi anticipatamente olistico) di Pašukanis, nonché l’abisso storico e culturale fra il giurista Lenin e il burocrate e militare Stalin[11]. Ora, mi pare chiaro che il progetto giuridico della modernità abbia dato forma a un immane sforzo politico ed economico volto a perseguire l’individualizzazione giuridica[12] – Prometeo liberato –, trasformando il valore d’uso in valore di scambio, i beni comuni in capitale (assai necessario agli albori della modernità), la produzione dominante da agricola a industriale, il luogo della vita dalla campagna alla città. In una parola, l’astrazione (merce, denaro e lavoro) ha fatto da schermo e favorito l’estrazione (brutale al di là di ogni immaginazione) che in un battito di ciglio storico ci ha condotti alla catastrofe ecologica attuale, oltre che naturalmente a quelle politiche del secolo trascorso. In questo quadro, la legalità occidentale, esportata a punta di baionetta in tutto il mondo, ha saputo articolarsi soltanto e unicamente ratione imperii. Invero, imperio rationis le priorità, almeno dall’immediato dopoguerra, avrebbero dovuto essere tutt’altre, in primis il perseguimento della giustizia ecologica e non certo la crescita produttiva senza fine[13] (ancor oggi politicamente dominante e ispirazione del Codice civile italiano del 1942) o l’insensato confronto militare della Guerra fredda (oggi sostituita dall’atlantismo anti-cinese, anti-russo e anti-islamico).

Questo imponente dispositivo giuridico della modernità ha fatto uso in gran parte, dello strumentario del diritto privato (civile e commerciale) progressivamente trasformato esso stesso in diritto dello Stato e non dei cittadini. Proprietà privata, contratto, responsabilità extracontrattuale, società di capitali – certo non soltanto la sovranità dello Stato – sono stati profondamente plasmati dal trionfo dell’individualismo possessivo dominante il pensiero giuridico, politico e filosofico dell’Occidente (da Machiavelli a Hobbes, da Cartesio a Locke). Era questo un brodo di coltura velenoso per ogni idea di uguaglianza sostanziale e di solidarietà fra umani, figuriamoci per idee universaliste impersonali e (oggi) antispeciste.

 

2.

Il diritto, reso cinico dalla sua riduzione a legge, non ha saputo riconoscere i beni comuni resistenti come propri ambiti di sperimentazione. Eppure, le prassi di autentico commoning istituzionalizzato non mancavano neppure in Occidente, nelle esperienze di autogoverno dell’industria (soprattutto nell’Inghilterra degli shop stewards), nel movimento cooperativo operaio, nel mutuo soccorso contadino, nelle organizzazioni femminili di base, tutte esperienze neppure riconosciute come giuridiche, proprio perché estranee al progetto ossessivo di trasformazione dei beni comuni in capitale[14]. Del resto, perfino oggi, in cui certo non è più necessario l’accumulo di nuovo capitale, distribuito per di più in modo sempre più oscenamente sperequato, non solo fra cittadini della stessa nazione (dotati di uguali diritti civili e politici), ma pure da una parte all’altra del mondo, la struttura profonda della giuridicità estrattiva non muta. Il diritto civile ridotto a legge è immancabilmente corrotto dalla sua economia politica, ossia dalle dinamiche economiche di produzione normativa che lo determinano sempre più direttamente: si pensi al profluvio di regolamentazione europea, o alla normatività “prendere o lasciare” delle piattaforme digitali[15]. Questi imperativi di riproduzione capitalistica, lungi dal farsi carico del fatto che in un mondo in cui il capitale eccede e i beni comuni soffrono drammaticamente, l’inversione di rotta deve essere radicale e immaginare un diritto che, incrementalmente, trasforma il capitale in beni comuni (meglio ancora una legge che obblighi il capitale a rigenerare i beni comuni), spingono pervicacemente da tre secoli sempre nella stessa direzione. Quella crescitista dell’accumulo senza fine di una «immensa raccolta di merci»[16] qui e adesso, che scarica ogni costo dell’estrazione e dell’astrazione sull’ambiente, sui poveri e su chi ancora non è nato. Con buona pace dell’eguaglianza.

Del resto, l’assenza della politica è determinata da questi nuovi equilibri (anzi squilibri) prodotti dall’accumulo ormai completamente senza controllo del capitale tecno-finanziario (per mutuare la terminologia di Schiavone). La politica rappresentativa (ridotta a un certo numero di individui che la praticano) risulta corrotta e impotente, un mero apparato ideologico fra tanti altri, ancor meno libera, se possibile, dell’università, dell’informazione o della magistratura, perché troppo spesso ridotta al carrierismo dell’individuo competitivo comunque ipnotizzato dai dispositivi della sorveglianza[17].

In questo scenario, in cui la legge è schiava dell’economia, come si può immaginare di correre nella giusta direzione con in mano la staffetta consegnataci da Schiavone? A me pare che in concreto la riflessione italiana sui beni comuni, articolata dal 2007 intorno al disegno di legge delega della Commissione Rodotà, ci abbia consegnato alcuni punti fermi[18]. Innanzitutto, facendo di necessità virtù, visto che nessuno schieramento politico ha fin qui davvero provato a trasformare la proposta in legge[19], i beni comuni sono riusciti comunque a diventare diritto vivente, facendo riemergere con una certa chiarezza la distinzione fra normatività imperio rationis e ratione imperii. Innanzitutto, la letteratura giuridica sui beni comuni in Italia, davvero sterminata, costituisce il più ambizioso tentativo di indirizzare la riflessione giuridica verso un compito ecologico, ossia quello di offrire interpretazioni del diritto positivo che lo funzionalizzino al compito non più procrastinabile di trasformare finalmente il capitale eccedente in beni comuni rigenerati[20].

 

3.

Sul piano costituito, i beni comuni hanno così ottenuto negli ultimi dieci anni significativi riconoscimenti giurisprudenziali (il più celebre è il pronunciamento delle sezioni unite del 2011 sulle cd. “valli da pesca” della laguna veneta), hanno trovato accoglienza in numerosi statuti regionali e comunali, nonché in centinaia di regolamenti comunali, a partire da quello di Bologna del 2014, incentrato sull’idea di patti di collaborazione fra amministrazione e cittadini attivi[21]. Non si tratta di modelli statici o uniformi: l’ultimo nato, quello di Torino, entrato in vigore il 23 gennaio 2020, prevede la categoria civilistica del negozio civico attraverso la quale i più diversi “soggetti civici” (formali o informali) possono dar vita a istituzioni anche complesse come la Fondazione “Bene Comune” o due diversi modelli di uso civico urbano[22]. Si tratta di un importante recupero di autonomia civica, che rivendica la capacità creativa di un nuovo “diritto dei privati” (o meglio, diritto dei soggetti civici) produttivo di istituzioni di autogoverno dei beni comuni urbani anche complesse, proponibili all’amministrazione pubblica anche per fatti concludenti. Questa possibilità sposta il diritto dei beni comuni urbani, per così dire, dal piano costituito a quello costituente di una nuova legalità, perché con il regolamento torinese il protagonismo civico (che dovesse manifestarsi in occupazioni volte all’emersione di beni comuni) non può più essere ingabbiato nella morsa formalista rappresentata dalla dicotomia “legale/illegale”, ma va letto come una proposta di negozio civico a cui il Consiglio comunale (ossia la politica) deve rispondere politicamente, piuttosto che gestirlo, come purtroppo spesso avviene, come un problema di ordine pubblico.

Questa vocazione dei beni comuni a offrire un cappello teorico-giuridico (e ora anche pratico) a quei conflitti sociali dai quali fisiologicamente sgorga il diritto è, a mio modo di vedere, l’aspetto più interessante di questa evoluzione giuridica[23]. In un certo senso, mi azzarderei a dire che, con i beni comuni, l’Italian Theory entra nel vivo della giuridicità pratica, proponendo nuove strade di emancipazione e attirando al contempo grande attenzione internazionale[24]. Si riconosce, finalmente, come un diritto che mantenga un collegamento assiologico con la realtà non possa vivere negli angusti limiti della legalità formale, ma debba saper riconoscere e incorporare quelle rotture della legalità costituita che meglio perseguono il fine ultimo di un ordine sociale desiderabile e almeno decente dal punto di vista valoriale. Non è necessario invocare il diritto/dovere di resistenza teorizzato dai giuristi ugonotti, proprio negli anni in cui le teorie della statualità sovrana assoluta divenivano dominanti, o il gran gesto di Rosa Parks, o ancora la marcia del sale di Gandhi, per dar conto di come la rottura del diritto possa essere un atto costituente, se informata a parametri valoriali alti e condivisi. Del resto, la tutela del possesso, perfino di malafede, mostra all’opera queste idee nel cuore del diritto civile, laddove il principio supremo ne cives ad arma veniant si pasce proprio di questa capacità di interpretazione funzionale di ogni dispositivo giuridico.  Cosa, mutatis mutandis, ampiamente riconosciuta e ben teorizzata nel mondo statunitense[25].  Certo, un pubblico ministero potrebbe pur sempre, anche in presenza dello schema del regolamento torinese, iniziare un’azione penale nei confronti di un’occupazione, come purtroppo è avvenuto molte volte in cui esperienze di beni comuni informate a solidarietà, uguaglianza e mutualismo si sono scontrate con la tetragona difesa della proprietà ancorché assenteista ed estrattiva in forza del brocardo, sconfitta della ragione, dura lex sed lex[26]. Sebbene astrattamente sorretta dalla teoria delle fonti e dalle sue gerarchie, tuttavia, una simile azione sarebbe quanto mai improbabile negli esiti, considerato l’impatto sull’elemento soggettivo di una tale proposta di negozio civico.

In ogni caso, il collegamento funzionale fra beni comuni e bisogni fondamentali della persona, la loro emancipazione dal titolo proprietario, sia esso privato o pubblico, il loro modello di governo aperto e condiviso e nell’interesse delle generazioni future, la loro azionabilità diffusa, non vincolata a requisiti formali di legittimazione attiva, sono tutti elementi che compongono un quadro radicalmente trasformativo della decrepita legalità formale incentrata sulla dialettica fra proprietà privata romano-borghese (per utilizzare una locuzione di Schiavone, ora oggetto di un libro di Anna Di Robilant) e sovranità statuale di matrice assolutista-giacobina. È ormai chiaro a tutti che la contrapposizione pubblico/privato altro non è che falsa coscienza proto-capitalista, che cela dietro quell’antinomia inventata due dispositivi pressoché identici sul piano funzionale di concentrazione del potere, esclusione e dunque necessaria diseguaglianza di ricchezza o di status. I beni comuni sono struttura dell’eguaglianza (anche intergenerazionale) fondata su parità di accesso, diffusione del potere e illimitata inclusione di tutti. Sono, da questo punto di vista, un vero superamento teorico della giuridicità corresponsabile della catastrofe che stiamo vivendo[27].

In quanto superamento teorico, mi pare possano prosperare nel mondo dell’interpretazione, sia essa professionale o fondata sull’attivismo civico anche disubbidiente: invero, una norma si interpreta anche resistendole – Rosa Parks docet. In questo senso, i beni comuni possono innervare la giuridicità nuova quanto mai necessaria per fronteggiare, in comune e non in solitaria, la trasformazione tecnologica che sconvolge il nostro presente. Viviamo oggi infatti una stagione di profonda e strutturale illegalità, meglio direi di a-legalità, perché le più importanti trasformazioni del nostro tempo avvengono in rete, luogo in cui rapporti di fatto e non di diritto stanno costruendo le fondamenta del capitalismo globale della sorveglianza. È nell’ambito di queste trasformazioni strutturali che la singolarità e l’individualizzazione divengono quanto mai sinonimi di impotenza. La costruzione di una giuridicità impersonale e, in questo senso, collettiva (un collettivo che comprende anche chi ancora non è e chi non è umano) può finalmente porre dei limiti, anche ex ante, dettati da esigenze di precauzione volte a impedire che certi terreni di bene comune (si pensi alla genetica) possano essere transitati da chicchessia per scopi altri rispetto alla tutela dell’impersonale. Limiti, questi, posti dunque non nell’interesse di un individuo, ma dell’umano in quanto specie[28]. Quanto più efficace potrebbe essere una tale soluzione impersonale e volta al futuro rispetto a tanti vuoti discorsi in materia di privacy, frontiera invece della nuova ipocrita individualizzazione a matrice dominicale!

Certo, per fiorire in tutta la loro forza rigenerativa di un ordinamento civile che rischia quanto non mai oggi di essere spazzato ai margini dell’azione economica e sociale, i beni comuni dovrebbero divenire legge. Da un lato, infatti, le attuali pratiche amministrative fondate sulla condivisione e sui beni comuni hanno bisogno di una copertura formale di legge primaria, se non altro per proteggere tanti generosi cittadini e funzionari, che vogliono sperimentare un’amministrazione condivisa, dagli occhiuti formalismi della Corte dei conti (per non parlare della necessità di tutela giuridica nei confronti dei pubblici ministeri delle generose pratiche di solidarietà sociale che ricorrono all’occupazione). In questo senso, il diritto (dei beni comuni) ha bisogno della legge. Ma forse è ancor più la nostra legge civile, in particolare il codice, ad aver bisogno del diritto che i beni comuni hanno saputo generare.

Come accennavo in precedenza, la trasformazione tecnologica dirompente, soprattutto nell’ambito delle comunicazioni in rete, ha spostato il baricentro del capitalismo in modo non minore di come la produzione industriale lo avesse fatto rispetto all’agricoltura (anche su questo, l’ultimo capitolo del libro di Schiavone offre pagine essenziali). In rete, tuttavia, la giuridicità moderna fondata sull’individualizzazione soffre una concorrenza irresistibile di tecniche informatico-normative basate sulla collezione di masse enormi di dati che schiacciano e marginalizzano l’individuo. Insieme all’individuo è la stessa legge, con le sue ristrettezze di accesso alla giustizia e i suoi formalismi meccanicistici agevolmente replicabili da algoritmi, a dimostrarsi impotente[29]. Come già era avvenuto in passato, e già sta puntualmente avvenendo, le dinamiche giuridiche di frontiera (reale o virtuale, politica o tecnologica) ritornano altrettanto dirompenti nella madrepatria e impattano la morfologia del suo diritto e delle sue dinamiche sociali[30]. Ben presto la legge del più forte, fondata su rapporti di fatto fra organizzazioni economiche potentissime e individui ipnotizzati e impotenti, sarà interamente riprodotta off line e lo stesso diritto civile, se non si presenta compatto e trasformato, nulla potrà.

Di qui l’urgenza di un’operazione culturale, prima ancora che politica: introdurre i beni comuni al cuore del cuore dell’ordine giuridico, proprio dentro quel Libro III che, governando la proprietà, governa per irradiazione (o meglio, potrebbe farlo) tutti i rapporti civili e commerciali, pubblici e privati[31]. Slegare la tutela dei beni comuni dalla titolarità, pubblica o privata, è la via maestra di ingresso dell’impersonale nel diritto. L’uomo, nel suo ecosistema (con il suo ecosistema), ha bisogni primari che prevalgono rispetto a ogni forma di controllo ed esclusione: «Qualunque cosa sia necessaria a mantenere la vita deve essere considerata bene comune e solo il superfluo può essere riconosciuto come proprietà privata», dichiarava Robespierre, «rovesciando in radice – per così dire – e come su se stesso l’intero impianto del diritto formale e quindi di ogni eguaglianza da esso dedotta senza poterli sostituire, in quel contesto, con niente di parimenti strutturato né economicamente, né socialmente, né culturalmente»[32]. Oggi il contesto è mutato: nell’agonia dello Stato di diritto, faticosamente emerso anche grazie al martirio dell’Incorruttibile, i beni comuni sembrano essersi strutturati nel diritto vivente a sufficienza per sostituire con un modello di uguaglianza fondato sulla giustizia ecologica quella fondata sulle forme, produttrice di una diseguaglianza sostanziale del tutto insopportabile.

 

4.

Nel diritto, alla fine dell’Olocene, l’impersonale non è più virtù, ma necessità. Come far sì che un tale cambio di paradigma penetri nel nostro diritto in modo più pervasivo ed efficace, soprattutto in termini più rapidi di quanto non sia possibile con una pura operazione culturale, quale quella che, con Fritjof Capra, chiamavamo «alfabetizzazione ecologica»[33]? Come farlo dall’alto (tramite la legge esito della politica formale) e non solo dal basso (tramite la prassi giuridica, ossia le forze vive del diritto, per parafrasare uno straordinario libro di Laura Nader) nell’ambito degli attuali rapporti di forza[34]? Soprattutto, come far sì che il cambio paradigmatico possa infine diventare egemonico senza provocare effetti di rigetto?

Noi riteniamo che la definizione e la tassonomia della Commissione Rodotà, nell’inserire gli «interessi delle generazioni future» al cuore dell’ontologia giuridica dei beni comuni, indichi la via maestra che ogni interprete potrebbe agevolmente imboccare per agire nel presente a tutela del futuro. In una tradizione giuridica a somma zero fin dalle origini dello ius, in cui o vince l’attore o vince il convenuto, non dandosi pareggio se non transattivo (e dunque nel mondo del fatto e non del diritto), sarebbe il magistrato ecologicamente alfabetizzato a fare da rappresentante oggi dell’interesse di chi ancora non c’è. Il giudice ecologico, dunque, può far penetrare l’impersonale (e, auspicabilmente, dando ragione proprio a quello) nel conflitto fra due persone. Infatti, se il conflitto resta fra le persone, prevale inevitabilmente un interesse capace di manifestarsi in corte qui e adesso, perché la non-persona non può far sentire la propria voce: tamquam non esset. Entusiasmanti spazi di riscrittura di un diritto civile ecologico, non sostituibile dalle macchine perché finalmente capace di governare con metodo sistemico e qualitativo la grande trasformazione in corso, si aprirebbero in Italia all’interprete professionale se il ddl Rodotà finalmente diventasse legge dello Stato. Quanta fatica argomentativa e quante acrobazie concettuali una tal riforma risparmierebbe al magistrato ecologicamente sensibile, che già oggi costruisce e può costruire diritto dei beni comuni, ma è costretto a farlo senza una clausola generale capace di guidarlo. Se mi si permette una metafora botanica (ma che il diritto dei beni fosse una pianta lo diceva già il grande Pugliatti[35]), i beni comuni nel codice civile funzionerebbero come un innesto, capace di dare carattere generativo a un codice che riproduce una mentalità nettamente estrattiva. Proprio come, per un ciliegio selvatico, un piccolo germoglio inserito nel tronco rigenera l’intera pianta, cosa che ben sappiamo quanto sia necessario fare (soprattutto per il Libro III).

Agire qui e adesso, in Italia, per le generazioni future (chissà se, un giorno, si potrebbe avere l’intervento nell’interesse delle generazioni future di un apposito pubblico ministero per i beni comuni, come oggi avviene talvolta nell’interesse della legge) potrebbe non bastare perché siamo piccola semiperiferia, mentre il degrado dell’antropocene è planetario e la giustizia ecologica o è globale o non è.

Ma questo non può essere alibi per l’inazione. Del resto, Bolivia ed Ecuador (sul piano costituzionale), Nuova Zelanda, India, Colombia, Olanda, Oregon hanno iniziato un dialogo giuridico ancora balbettante volto alla costruzione di un diritto impersonale ecologicamente sensibile (magari, come Ms Jourdain, costruiscono l’impersonale senza saperlo!)[36]. Se una cultura giuridica come la nostra, dotata di antica tradizione, mettesse mano al cuore del codice civile introducendovi beni comuni e generazioni future, offrirebbe un esempio destinato certamente a diffondersi.

Se il diritto impersonale dei beni comuni è l’Italian Theory fattasi prassi, allora è verosimile credere che esso riceverebbe la medesima attenzione internazionale e finirebbe per essere imitato, dando così un contributo globale. Si concretizzerebbe, in tal modo, quella dialettica fra il bottom up e il top down nella costruzione del giuridico capace di portare la giustizia ecologica nel diritto.

 

[1] A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino, 2005.

[2] D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna, 2012.

[3] U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino, 2015.

[4] Vds. almeno R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino, 2007.

[5] Vds. F. Capra e U. Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca, San Sepolcro, 2017.

[6] A. Schiavone, Eguaglianza, op. cit. in paragrafo, p. 294

[7] Vds. I. Prigogine, La fine delle certezze. Il tempo del caos e le leggi della natura, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.

[8] Vds. W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Quodlibet, Macerata, 2018.

[9] Il riferimento al maestro di Francoforte è scontato: E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 2018 (seconda ed. it.).

[10] Vds. Papa Francesco, La dittatura dell’economia, a cura di U. Mattei, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2020.

[11] Sul Lenin giurista e sul generoso tentativo di Pašukanis, vds. U.  Mattei, The Cold War and Comparative Law. A Reflection on the Politics of Intellectual Discipline, in American Journal of Comparative Law, vol. 65, n. 3/2017, pp. 567-607.

[12] Il tema è sviluppato in qualche dettaglio, dal punto di vista degli istituti fondamentali del diritto privato, in U. Mattei e A. Quarta, Punto di svolta. Ecologia, tecnologia e diritto privato, Aboca, San Sepolcro, 2018.

[13] Vds., da ultimo, L. Fioramonti, Il mondo dopo il PIL. Economia e politica nell’ era della post-crescita, Edizioni Ambiente, Milano, 2019.

[14] Cfr. R. Zangheri - G. Galasso - V. Castronovo, Storia del movimento cooperativo in Italia. 1886-1986, Einaudi, Torino, 1987.

[15] Sulla cui valenza sovversiva delle fonti del diritto insiste, da ultimo, A. Quarta, Mercati senza scambi. Le metamorfosi del contratto nel capitalismo della sorveglianza, ESI, Napoli, 2020.

[16] È, come noto, l’incipit del Capitale di Marx, che rimanda alla sua Critica dell’economia politica.

[17] Fra gli affreschi generali del nostro presente meritano di essere letti, almeno, Y.N. Harari, Sapiens da animali a dei. Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano, 2017 e S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss, Roma, 2019.

[18] Si vedano i lavori raccolti in U. Mattei - E. Reviglio - S. Rodotà (a cura di), Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2010.

[19] Il sito “Generazioni Future” (https://generazionifuture.org/) offre informazioni aggiornate sul lavoro politico in corso volto a far diventare legge il ddl Rodotà, ripresentato nel novembre del 2019 come legge di iniziativa popolare dopo aver raccolto le firme necessarie.

[20] Si può trovare una bibliografia di base aggiornata in U. Mattei, Beni Comuni. Piccola guida di resistenza e proposta, Marotta&Cafiero, Napoli 2020; si vedano, almeno: A. Quarta e M. Spanò (a cura di), Beni Comuni 2.0. Controegemonia e nuove istituzioni, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2018; R.A. Albanese ed E. Michelazzo, Manuale di diritto dei beni comuni urbani, Celid, Torino, 2020; A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Bari 2013. M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Corte, Verona, 2012.

[21] Vds. il sito www.labsus.org/. 

[22] Vds. R.A. Albanese ed E. Michelazzo, Manuale, op. cit.

[23] Vds. S. Bailey e U. Mattei, Social Movements as Constituent Power. The Italian Struggle for the Commons, in Indiana Journal of Global Legal Studies, vol. 20, n. 2/2013, pp. 965-1013; U. Mattei e M. Mancall, Communology. The Emergence of a Social Theory of the Commons, in South Atlantic Quarterly, vol. 118, n. 4/2019.

[24] Vds. l’ampia trattazione della riflessione italiana in P. Dardot e C. Laval, Del comune o della rivoluzione del XXI Secolo, DeriveApprodi, Roma, 2015.

[25] Vds. E. Penalver e S. Katyal, Property Outlaws. How Squatters, Pirates and Protesters improve the law of Ownership, Yale University Press, Yale, 2010.

[26] Vds., almeno, A. Quarta, Non proprietà. Teoria e prassi dell’accesso ai beni, ESI, Napoli, 2016.

[27] U. Mattei, Beni Comuni. Un Manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011.

[28] Vds. il brillante saggio di C.M. Mazzoni, Quale dignità? Il lungo viaggio di un’idea, Olschki, Firenze, 2019, pubblicato poco prima della sua improvvisa scomparsa. All’amico, giurista e intellettuale finissimo, voglio dedicare queste pagine che avrei tanto desiderato potesse leggere.

[29] Si veda la mia voce Smart nelle Parole Chiave del XXI Secolo, in corso di pubblicazione per Enciclopedia Treccani.

[30] J. Lanier, L’alba del nuovo tutto, Il Saggiatore, Milano, 2019.

[31] Vds. A. Gambaro, La proprietà, in G. Iudica e P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2018 (seconda ed., interamente riveduta).

[32] A. Schiavone, Eguaglianza, op. cit., p. 148 (corsivo aggiunto).

[33] F. Capra e U. Mattei, Ecologia del diritto, op. cit.

[34] Cfr. L. Nader, Le forze vive del diritto, ESI, Napoli, 2003.

[35] Cfr. A. Di Robilant, Property. A Bundle of Sticks or a Tree?, in Vanderbilt Law Review, vol. 66, n. 3/2013, p. 872 (https://scholarship.law.bu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1075&context=faculty_scholarship).

[36] Fra i vari casi, si vedano, per la Nuova Zelanda: Te Urewera Act, 27 luglio 2014, n. 57 (www.legislation.govt.nz/act/public/2014/0051/latest/096be8ed80eb08ac.pdf); Te Awa Tupua (Whanganui River Claims Settlement Act, 20 marzo 2017, n. 7 (www.legislation.govt.nz/act/public/2017/0007/latest/whole.html); per l’India, il caso “Ganga and Yamuna Rivers”: Mohd Salim v. State of Uttarakhand & others, WPPIL 126/2014, High Court of Uttarakhand, 20 marzo 2017 (http://lobis.nic.in/ddir/uhc/RS/orders/22-03-2017/RS20032017WPPIL1262014.pdf); per la Colombia: Rio Atrato, Corte Constitucional, sentenza T-622/2016, del 2016 (www.corteconstitucional.gov.co/relatoria/2016/t-622-16.htm); Amazonia Colombiana, Corte Suprema de Justicia, Sala de Casación Civil, STC 4360-2018, del 5 aprile 2018, (www.cortesuprema.gov.co/corte/wp-content/uploads/2018/04/STC4360-2018-2018-00319-011.pdf). A questi, volti a soggettivizzare o personificare la natura, si aggiungano quelli sul riscaldamento globale, fra i quali l’Olanda con il caso Urgenda, recentemente confermato dalla Cassazione, ha assunto la leadership.