Magistratura democratica

L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica

di Massimo Luciani
Il tema dell’errore di diritto nell’interpretazione delle norme giuridiche induce a interrogarsi sugli approdi e sulle aporie della dottrina della natura creativa della giurisprudenza e sulle insidie che essa nasconde per la legittimazione del giudice e della sua funzione.

1. L’errore che non c’è

L’errore di diritto nell’interpretazione delle norme giuridiche non esiste. Se non fosse salvata dalle sue stesse aporie, è questa la conclusione cui dovrebbe logicamente pervenire la dottrina della natura creativa della giurisprudenza – che d’ora innanzi (in opposizione all’anticreazionismo) denominerò creazionismo giuridico[1]. Poiché gravi aporie la segnano, però, a simile logica conclusione tale dottrina non perviene.

Avremo modo di soffermarci sulle sue incongruenze e sulle sue contraddizioni, ma dobbiamo segnalare sin d’ora che essa si presenta in due vesti assai diverse. Nella prima, che potremmo denominare del creazionismo integrale, muove dal postulato che creatore della norma non sia il legislatore, ma l’interprete, e conclude nel senso che le pronunce di quell’interprete specializzato che è il giudice sarebbero “fonti” in senso proprio (cioè strumenti autenticamente produttivi di “norme”). Nella seconda, che potremmo denominare del creazionismo moderato, non va oltre l’affermazione che nell’azione interpretativa si ravviserebbero inevitabilmente dei momenti creativi, imputando questo fenomeno ora alla complessità dell’ordinamento, ora all’ambiguità del linguaggio naturale[2]. La prima posizione è condivisa da una parte significativa della dottrina e ha successo soprattutto tra i costituzionalisti, i civilisti e i filosofi del diritto[3]. La seconda, che peraltro recepisce (magari inavvertitamente) molti paradigmi e – perché no – stilemi dell’altra, emerge a singhiozzo negli arresti giurisprudenziali.

Diversa dall’una e dall’altra, poi, è la ben più prudente posizione di chi si limita a constatare che il fenomeno giuridico è alimentato anche dalla giurisprudenza (il che è assolutamente ovvio, perché lo stesso potrebbe dirsi per l’amministrazione o per l’attività dei privati). Ma diverse sono anche quella di chi qualifica la giurisprudenza fonte del diritto non perché essa abbia funzione creativa della norma, ma perché la norma vive nell’interpretazione che la giurisprudenza ne dà[4], o quella di chi sostiene che «il significato della norma si ricava soprattutto» – dunque non “solo” – «osservando la quotidiana opera del giudice»[5], e riconosce che la supplenza nomopoietica del giudice è patologica e la giustifica solo in forza della crisi della legislazione[6].

Vedremo più avanti quanto pesi l’adesione all’uno o all’altro indirizzo sulle conclusioni che si raggiungono in tema d’errore di diritto. Prima di farlo, però, dobbiamo definire i concetti rilevanti, stabilendo cosa intendiamo quando, negli usi linguistici dei giuristi, parliamo in generale di “errore” e, in particolare, di “errore di diritto”.

2. La questione generale dell’errore giuridicamente rilevante

È probabile che, in tema di errore, nessuno scritto più di Irrtum und Rechtsgeschäft, che Ernst Zitelmann pubblicò nel lontano 1879, abbia influenzato la discussione fra i giuristi. Per un verso, i civilisti vi trovarono una prima e salda teorizzazione della natura e della rilevanza dell’errore nel negozio giuridico; per l’altro, i pubblicisti poterono non sentirlo estraneo, considerata la posizione generale di Zitelmann sul rapporto fra diritto privato e diritto pubblico, ch’egli vedeva legati da una stretta connessione concettuale, dovuta all’unità della forma logica del diritto[7].

Per Zitelmann, appunto, è falsa «diejenige Vorstellung, welche mit dem vorgestellten Object nicht übereinstimmt» («la rappresentazione che non concorda con l’oggetto rappresentato»), ovvero, per meglio dire, visto che a essere vero o falso è sempre un giudizio, è falso «das Urteil, dass einem Vorgestellten das Prädikat des Existirens oder irgend ein anderes Prädikat zukomme, wenn ein der Subjectsvorstellung entsprechender Gegenstand überhaupt nicht existirt, oder wenn ihm wenigstens das Prädikat, welches ihm im Urteil zugesprochen wurde, nicht zukommt» («il giudizio che attribuisce a un oggetto rappresentato il predicato dell’esistenza o un qualsivoglia altro predicato, soprattutto quando un oggetto corrispondente alla rappresentazione soggettiva non esiste, ovvero, quanto meno, non gli appartiene il predicato che gli è stato attribuito dal giudizio»)[8]. Aggiunge, poi, Zitelmann, che l’ignoranza è diversa dall’errore: «das Nichtwissen ist wirklich nichts als eben nur ein Nichts» («il non sapere, in realtà, non è proprio altro che un nulla»)[9] e l’ignoranza «steht gleichsam als Nullpunkt zwischen der wahren und der irrigen Vorstellung» («si situa quasi come punto zero tra la rappresentazione esatta e quella errata»)[10].

Non sfuggirà ad alcuno la lontana ascendenza di queste affermazioni, che riecheggiano da vicino la tradizione aristotelica e tomistica. Per Aristotele, infatti, «è nel falso chi formula pensieri diversi dalla realtà delle cose»[11], mentre «l’ignoranza sta nel non aver contatto diretto» con la cosa[12]. Per San Tommaso, ancor più chiaramente, «differt nescientia, ignorantia et error». La nescienza, infatti, comporta la semplice negazione della scienza; l’ignoranza è la privazione della conoscenza («nihil est aliud quam carere scientia (...)»); l’errore è «approbare falsa pro veris». L’errore, dunque, è qualcosa di più, perché alla mera condizione dell’ignoranza aggiunge un atto («addit actum quemdam super ignorantiam»), cioè l’affermazione del falso: quando qualcuno «falsam sententiam fert de his quae nescit, tunc proprie dicitur errare»[13]. Sia pure più complessa, perché tripartita, è la medesima concettuologia che Zitelmann riprende a sei secoli di distanza e che anche noi possiamo tranquillamente continuare a impiegare.

3. La questione specifica dell’errore di diritto

Entro il generale campo concettuale dell’errore sta quello particolare dell’errore di diritto.

Quella di errore di diritto è una nozione di diritto positivo, ancorché una definizione esplicita non ne sia normativamente data, né nel dominio del diritto sostanziale né in quello del diritto processuale.

i) L’errore di diritto non è esplicitamente definito dai codici di procedura, che concentrano la loro attenzione su quello di fatto. Così, il codice di procedura civile, all’art. 395, n. 4, peraltro richiamato dal successivo art. 391-bis, definisce «errore di fatto» quello che si ha «quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare»; il codice di procedura penale, all’art. 625-bis, si limita ad ammettere il ricorso straordinario «per la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione»; il codice del processo amministrativo, all’art. 106, comma 1, semplicemente, rinvia al cpc; quello della giustizia contabile, all’art. 202, comma 1, lett. f, dà anch’esso la sola definizione di errore di fatto (revocatoriamente rilevante) come quello che «ricorre quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

È sul piano dei rapporti sostanziali, semmai, che la normativa codicistica considera specificamente l’errore di diritto. Così, l’art. 1429, n. 4, cc lo isola, distinguendolo dalle plurime ipotesi di errore di fatto nei rapporti negoziali e dichiarandolo essenziale quando «è stato la ragione unica o principale del contratto»[14], mentre l’art. 47, comma 3, cp dispone che «L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato». Questa disciplina parrebbe di scarsa rilevanza ai nostri fini, ma poiché la questione del rapporto fra interpretazione ed errore si pone anche nel dominio del diritto sostanziale e poiché – come vedremo – la concettuologia del diritto sostanziale è utilizzata anche in tema di errore di diritto del giudice, non può essere trascurata.

ii) Sempre sul piano sostanziale, non sono poche le norme internazionali pattizie che, “nazionalizzate” in leggi italiane, danno per scontata o rendono esplicitamente rilevante la distinzione fra errore di fatto ed errore di diritto sia nei rapporti fra gli Stati, sia nei rapporti fra gli Stati e gli individui.

Così, la l. 30 settembre 1993, n. 388[15] dispone, all’art. 106, comma 2, che «Se una delle Parti contraenti che non ha effettuato la segnalazione [nel Sistema d’Informazione Schengen] è in possesso di indizi che fanno supporre che un dato contiene errori di diritto o di fatto, ne avverte al più presto la Parte contraente che ha effettuato la segnalazione; quest’ultima deve obbligatoriamente verificare la comunicazione e, se necessario, correggere o cancellare senza indugio il dato»; all’art. 110, che «Ciascuno può far rettificare dati che lo riguardano contenenti errori di fatto o far cancellare dati che lo riguardano contenenti errori di diritto»; all’art. 116, comma 1, che «Ciascuna Parte contraente è responsabile, conformemente al proprio diritto nazionale, dei danni causati ad una persona in seguito all’uso dell’archivio nazionale del Sistema d’Informazione Schengen. La disposizione si applica anche quando i danni siano stati causati dalla Parte contraente che, avendo effettuato la segnalazione, ha inserito dati contenenti errori di diritto o di fatto».

La l. 23 marzo 1998, n. 93[16], all’art. 38, comma 1, dispone, in materia di trattamento di dati rilevanti a fini di polizia, che «Ciascuno Stato membro è responsabile, conformemente alla sua legislazione nazionale, di qualsiasi danno causato ad una persona in ragione di dati contenenti errori di diritto o di fatto, memorizzati o trattati in sede di Europol»[17]. La l. 12 luglio 1999, n. 232[18], infine, all’art. 32, stabilisce che «Un errore di fatto è motivo di esclusione dalla responsabilità penale solo se annulla l’elemento psicologico del reato» (comma 1) e che «Un errore di diritto concernente la questione di sapere se un determinato tipo di comportamento costituisce un reato passibile della giurisdizione della Corte non è motivo di esclusione dalla responsabilità penale. Tuttavia, un errore di diritto può essere motivo di esclusione dalla responsabilità penale quando annulla l’elemento psicologico del reato, o sulla base di quanto preveduto dall’articolo 33» (comma 2).

iii) Non casualmente, la distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto emerge con decisione nel dominio del diritto tributario. A questo proposito, va ricordato in particolare il dPR 22 luglio 1998, n. 322[19], il quale, oltre a dettare plurime disposizioni sulla disciplina dell’errore del contribuente, stabilisce, all’art. 2, comma 8-bis, che «Resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggiore debito d’imposta o, comunque, di un minore credito» e, all’art. 8, comma 6-quinquies, che «Resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggiore debito d’imposta o, comunque, di una minore eccedenza detraibile».

Emersione non casuale, si diceva, perché la magmatica complessità del nostro diritto tributario, formatosi per stratificazioni successive e costantemente modificato senza un filo logico unificante, rende necessaria un’applicazione flessibile di quel principio ignorantia legis non excusat che già la Corte costituzionale, sin dalla storica sentenza n. 364 del 1988 (che, come è noto, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile»), ha reso meno compatto nel delicato dominio del diritto penale.

Certo, come ha scritto la Cassazione, «L’errore di diritto scusabile è configurabile soltanto in presenza di una oggettiva ed insuperabile oscurità della norma o del complesso di norme aventi incidenza sul precetto penale»[20] e «l’ignoranza dovuta ad errore nell’interpretazione della norma penale non può essere considerata inevitabile quando tale interpretazione sia tutt’altro che confusa e caotica, non sia oggetto di particolari difficoltà e l’errore circa l’esistenza e la portata della disposizione incriminatrice possa essere evitato con la normale diligenza»[21]; ma, anche con questa delimitazione concettuale, l’idea dell’oscurità insuperabile del dettato normativo resta, perché «Ai fini della sussistenza del fumus criminis ed in particolare dell’integrazione dell’elemento soggettivo, va considerato, in relazione agli aspetti del caso concreto, come non sia possibile esigere dal privato cittadino una corretta interpretazione della normativa di per sé intrinsecamente ed oggettivamente antinomica, con la conseguenza che va accertato quale ricaduta abbia avuto il testo normativo su un eventuale comportamento assunto in “buona fede” da parte dell’indagato»[22]. Anzi, considerate le condizioni penose in cui versano vasti settori dell’ordinamento, ci si dovrebbe chiedere se valga ancora incondizionatamente quanto a suo tempo ritenevano i classici – penso a Puchta –, che escludevano la scusabilità dell’errore «per i giurisperiti»[23].

iv) Alla frontiera tra piano sostanziale e piano processuale, infine, sta la disciplina dell’errore rilevante per l’affermazione della responsabilità civile del magistrato. “Alla frontiera”, perché se processuale è il terreno di coltura dell’errore, sostanziale è quello dei suoi presupposti e delle sue conseguenze, concretantisi nell’obbligazione risarcitoria. Qui, ovviamente, emergono soprattutto i primi due commi dell’art. 1 della l. 13 aprile 1988, n. 117 («Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati»), a tenor dei quali «Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali» (comma 1) e «Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» (comma 2)[24].

Come si vede, questa disciplina isola il campo della «interpretazione di norme di diritto» all’interno del più vasto territorio delle generali attività del giudice. Tale isolamento, peraltro, è operato dal nostro ordinamento anche ad altri fini, in particolare quanto alla delimitazione della responsabilità disciplinare[25] e alla definizione degli elementi rilevanti per le valutazioni di professionalità dei magistrati[26].

Anche nella disciplina ora descritta non abbiamo un’esplicita definizione di “errore di diritto”, ma – come poi vedremo – si offrono indicazioni normative preziose per disegnarne il concetto.

4. L’ambito dell’errore di diritto

Alla luce dei dati normativi ora sintetizzati, l’ambito dell’errore di diritto appare identificabile delimitandone i confini verso il basso e verso l’alto. Verso il basso, laddove va distinto dall’errore di fatto; verso l’alto, laddove va distinto dall’errore che comporta la fuoriuscita dalla stessa funzione giurisdizionale.

4.1. Il confine con l’errore di fatto

Nemmeno in diritti di derivazione largamente giurisprudenziale come quello romano[27] o quello intermedio[28] la distinzione fra error facti ed error iuris era negata, sicché si tratta di una questione di risalente ascendenza. Per semplificare il ragionamento, tuttavia, è bene limitarsi all’analisi del diritto positivo e – dando per scontato che le sue conclusioni non cambierebbero nemmeno se ampliassimo la prospettiva – in particolare all’esame della normativa processualcivilistica[29].

Qui, il confine tra errore di diritto ed errore di fatto sembra tracciato dall’art. 360 cpc in combinato disposto con l’art. 395, comma 1, n. 4[30]: non a caso, già la più antica dottrina processualcivilistica tracciava tale confine lungo la linea che separa il rimedio della revocazione da quello del ricorso per cassazione[31]. In effetti, le fattispecie di impugnabilità per cassazione delle «sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado» possono essere ricostruite – appunto – come ipotesi di errore di diritto proprio perché esse e soltanto esse sono assoggettate al sindacato di un giudice che è (solo) di “legittimità”, in quanto quaestiones di diritto[32]. Si tratta, come è ben noto, delle ipotesi di ricorribilità:

  1. «per motivi attinenti alla giurisdizione»;
  2. «per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza»;
  3. «per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro»;
  4. «per nullità della sentenza o del procedimento»;
  5. «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

La giurisprudenza di legittimità ha affermato che «In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa»[33], ma è agevole notare che, in realtà, a parte un possibile distinguo tra «violazione» e «falsa applicazione»[34], tutte e tre le prime ipotesi dell’art. 360 cpc configurano vizi dell’atto interpretativo. Se la quarta, invece, implichi o meno un vizio dell’atto interpretativo dipende dalla forma concreta in cui essa si presenta[35]. Il problema, semmai, è costituito dalla quinta, che non solo non costituisce errore da vizio interpretativo, ma secondo alcuni non è qualificabile errore di diritto[36]. Vero è, però, che non si tratta certo di opinione unanime[37] e che quell’ipotesi consiste pur sempre in un «errore di attività logica»[38]. Poiché la soggezione del giudice alla legge ex art. 101 Cost. non avrebbe senso se non ne implicasse l’obbligazione al rispetto della logica, non sarebbe azzardato costruire la quinta ipotesi come una forma di sia pur riflesso errore di diritto per violazione della logica del processo. Come osservò Calamandrei, «il diritto processuale (…) non è che (…) un metodo di ragionamento»[39], che tuttavia dev’essere imposto autoritativamente dalla legge «se uguale per tutti deve essere il diritto sostanziale»[40]. In ogni caso, anche a pensare altrimenti, resterebbe fermo che il terreno dell’errore di diritto sarebbe comunque delimitato almeno dalle altre quattro fattispecie descritte dall’art. 360 cpc.

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha esportato nel diritto processuale la distinzione di diritto sostanziale (civile) tra errore ostativo ed errore vizio[41], distinguendo entrambi dall’errore revocatorio, ma tenendoli a loro volta reciprocamente distinti, affermando che l’errore ostativo «si concreta nell’erronea manifestazione della volontà del giudicante, ed è emendabile in sede di correzione (artt. 287 e 288 c.p.c.)», mentre l’errore vizio «si manifesta in un’errata valutazione delle risultanze processuali, ed è denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5»[42].

Che anche nel diritto processuale si evochino l’errore ostativo e l’errore vizio è comprensibile. In diritto sostanziale, il primo è stato definito in dottrina come «quello che determina divergenza fra una volontà correttamente formatasi e la corrispondente dichiarazione esteriore, per cui l’atto non è voluto»[43], oppure come «l’errore che cade sulla manifestazione della volontà o sulla trasmissione»[44], mentre la giurisprudenza l’ha (similmente) identificato laddove v’è «divergenza tra il dichiarato ed il voluto»[45], cioè quando la volontà «è correttamente formata, ma malamente espressa all’esterno»[46]. Quanto al secondo, la dottrina l’ha descritto come quello che incide «già sul procedimento interno di formazione della volontà, non impedendo che l’atto sia effettivamente voluto, ma alterando la rappresentazione delle motivazioni che stanno alla base della volizione»[47], ovvero come quello che «incide sulla formazione della volontà»[48]. La giurisprudenza, a sua volta, l’ha inteso come «vizio della formazione della volontà», che si risolve in una «falsa rappresentazione della realtà»[49]. Se è così, anche la volontà del giudice può risultare deformata o viziata da simili forme di errore, il cui richiamo – dunque – è giustificato. Occorre, tuttavia, precisare che ben diverso è il vizio della volontà (o della relativa manifestazione) in cui può cadere il privato che persegue il suo personale scopo negoziale dal vizio della volontà in cui può cadere il giudice, perché questi non persegue né può perseguire altro scopo che la pura e semplice applicazione delle norme di diritto. L’evocazione di una sistematica tipicamente privatistica non deve dunque indurre in equivoco: non essendo funzione del giudice rendere giustizia sostanziale secondo i suoi convincimenti morali, il tema dei vizi della volontà si pone, nel suo caso, in forma ben distinta. “Sentenza” non viene certo da “sentimento” (secondo l’ipotesi etimologica pur autorevolmente azzardata da Calamandrei)[50], ma da “sentio”. E “sentio” sta a indicare sia il percepire che il pensare che l’intendere. Attività che non implicano la messa in campo della tavolozza dei valori nei quali personalmente ci si riconosce.

Al di là di questo, va detto che la problematica della distinzione fra errore di diritto ed errore di fatto è stata sondata, in giurisprudenza, soprattutto in riferimento a due questioni: quella della revocazione e quella dell’omessa pronuncia (peraltro, come vedremo, strettamente intrecciate).

i) Quanto al rapporto fra errore di diritto, errore di fatto e revocazione, negli ultimi anni non paiono darsi sorprese. Già nel 2014 l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato aveva messo in luce il sostanziale accordo tra giurisprudenza amministrativa e giurisprudenza ordinaria, osservando che:

  1. «La giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione (…) hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell’errore di fatto revocatorio»;
  2. tale errore «deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (…); l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (…)»;
  3. l’errore di fatto «si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio» e «non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice», sicché «non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento)».

Questo indirizzo, che del resto si ricollega a una risalente sistemazione dottrinale («l’errore di fatto è un vero errore dei sensi; il magistrato ha creduto di vedere negli atti quel che non esiste (…)»)[51], è rimasto fermo. Come recita, ad esempio, una recentissima pronuncia della quarta sezione del Consiglio di Stato,«l’errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice con il rimedio straordinario della revocazione è solo quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende, invece, ad eliminare un ostacolo materiale frappostosi tra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato, dovendosi escludere che il giudizio revocatorio, in quanto rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un ulteriore grado di giudizio»[52].

Una ancor più recente pronuncia della stessa quarta sezione, facendo con maggiore ampiezza il punto sulla distinzione tra errore di fatto (legittimante l’azione revocatoria) ed errore di diritto, ha statuito che: a) «l’istituto della revocazione è un rimedio eccezionale, che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio»; b) conseguentemente, «non sussiste il vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa – che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita – ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda»; c) ne viene che «sono vizi logici e quindi errori di diritto quelli consistenti nella dedotta erronea interpretazione e valutazione dei fatti o nel mancato approfondimento di una circostanza risolutiva ai fini della decisione», mentre «l’errore di fatto revocatorio (…) si configura come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa»[53].

In definitiva: «l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti:

  1. derivare da una errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, che abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale, escluso ovvero inesistente, come provato;
  2. attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non ha espressamente motivato;
  3. essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa»[54].

Si tratta di affermazioni non dissimili da quelle della giurisprudenza di cassazione, secondo la quale «l’errore di fatto idoneo a determinare la revocazione delle sentenze (comprese quelle della Corte di cassazione) deve: 1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente ed immediatamente rilevabile, tale da avere indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto, né in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo. Sicché detto errore non soltanto deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, ma non può tradursi in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero di norme giuridiche e principi giurisprudenziali: vertendosi, in tal caso, nella ipotesi dell’errore di giudizio, inidoneo a determinare la revocabilità delle sentenze della Cassazione»[55].

Insomma: si tratta di «un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività», con la conseguenza che«non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico»[56]; che «l’evento su cui cade l’errore non [deve aver] costituito un punto controverso in ordine al quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunziato»[57]; che «Assolutamente netta è la distinzione che la norma pone tra il concetto di errore di fatto ed il concetto di errore di diritto», in quanto «Il primo consiste in una falsa percezione della realtà oggettiva, per svista o mero equivoco, che in nessun modo coinvolge la attività valutativa del Giudice e che cade su situazioni, accadimenti e vicende, vale a dire sul substrato materiale dei fatti che vengono dedotti in giudizio»[58].

Si può dunque concludere che, per la giurisprudenza, l’errore di fatto attiene (e con immediatezza) alla percezione, non all’intellezione o alla volizione, ed è rilevante ai fini dell’azione revocatoria solo se è decisivo per la definizione del giudizio e non concerne un punto che sia già stato controverso fra le parti.

ii) Quanto al rapporto tra errore di diritto, errore di fatto e omessa pronuncia, la Corte di cassazione, in un’articolata decisione di alcuni anni addietro, sembrava aver escluso la possibilità di far valere il vizio di omessa pronuncia come errore di fatto. Disse, infatti, che: a) «il concetto di “domanda” o di capo della domanda non si presta – sol perché la sentenza non contenga statuizione al riguardo – ad essere ricondotto al concetto di “fatto” che non abbia costituito punto controverso (nel senso precisato dal legislatore nel definire l’errore materiale)»; b) conseguentemente, «L’omessa pronuncia, da parte del Giudice, non concreta uno sbaglio nella percezione di atti o di documenti non contestati e non contestabili nella loro efficacia probatoria, non inquina le utilizzate fonti di convincimento, né mette capo ad un travisamento dei fatti (tanto che non emerge dagli atti del processo ma dalla stessa incompletezza del provvedimento)»; c) «Detta manchevolezza, risolvendosi nella violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.), realizza un vizio denunziabile per cassazione giusta la previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, (error in procedendo)»; d) «gli stessi principi devono essere tenuti fermi anche nell’ipotesi in cui il vizio di omessa pronuncia sia addebitato al Giudice di legittimità adito con ricorso per cassazione»; e) «L’intervento della Corte costituzionale, che con le sentenze n. 17 del 1986 e n. 36 del 1991 ha esteso la esperibilità del rimedio della revocazione anche nei confronti delle sentenze della Corte di Cassazione affette dall’errore di fatto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, non potrebbe mai essere invocato per sostenere che il vizio di omessa pronuncia in cui il Giudice di legittimità sia pretesamente incorso, se non è a lui stesso denunziabile con un secondo ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 4, potrebbe comunque essere fatto valere sub specie di errore di fatto emendabile ex art. 395 c.p.c., n. 4, per effetto di una sorta di metamorfosi resa indispensabile dalla esigenza di individuare, comunque, un rimedio a conculcati diritti di difesa»; f) «il vizio di omessa pronunzia su di una domanda, proprio in quanto si risolve nel mancato esercizio della giurisdizione in ordine ad una pretesa fatta valere in giudizio ed in quanto impedisce la formazione del giudicato sul punto neppure per implicito deciso, è ontologicamente inidoneo a concretare una irreparabile conculcazione dei diritti di difesa, dal momento che la domanda non delibata ben potrebbe essere fatta valere in un successivo giudizio essendo rimasta impregiudicata»[59].

Sempre la Suprema corte, però, in altre occasioni ha precisato che «in tema di omessa pronunzia da parte della Corte di Cassazione su un motivo di ricorso, l’unico mezzo di impugnazione esperibile avverso la sentenza è, ai sensi dell’art. 391-bis e art. 395 cod. proc. civ., n. 4, la revocazione per l’errore di fatto in cui è incorso il giudice di legittimità, il quale errore presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa», e che «la omissione di pronunzia da parte della Corte di cassazione può essere fatta valere solo con il rimedio revocatorio per errore di fatto (ex art. 391-bis e art. 395 c.p.c., n. 4) e non con la richiesta di correzione di errore materiale»[60].

Analoghe aperture alla possibilità di prospettare l’errore di fatto nell’ipotesi dell’omessa pronuncia si rinvengono nella giurisprudenza del Consiglio di Stato. Di recente, infatti, mentre si è ribadito, in via generale, che «Nel processo amministrativo l’omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c.»[61], si è anche precisato che «si è condivisibilmente affermato, in passato “che rileva come errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. l’omessa pronuncia su un profilo della controversia devoluta in appello, qualora la ragione di siffatta omissione risulti causalmente riconducibile alla mancata percezione dell’esistenza e del contenuto di atti processuali” (Consiglio Stato, sez. V, 17 settembre 2009, n. 5552), con ciò definitivamente superandosi il più restrittivo, pregresso orientamento, secondo cui l’omessa pronuncia su censure o motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, pertanto, non è deducibile in sede di revocazione (Consiglio Stato, sez. V, 20 ottobre 2004, n. 6865)»[62].

Secondo questi sviluppi giurisprudenziali, pertanto, l’omessa pronuncia, che in via di principio va fatta valere come errore di diritto, può rilevare come errore di fatto quando sia eziologicamente connessa a un difetto percettivo delle risultanze processuali, sicché sussiste un legame assai stretto fra errore di fatto e omessa pronuncia, perché l’una non può darsi senza l’altro. Si tratta d’intendersi, allora, quando sia possibile parlare di omessa pronuncia derivante da errore di fatto, ma qui la casistica è – ovviamente – la più varia. Merita ricordare, tuttavia, due recenti pronunce della quarta sezione del Consiglio di Stato (di identico contenuto)[63], che hanno qualificato omessa pronuncia determinata da errore di fatto revocatorio il mancato promovimento di una questione pregiudiziale eurounitaria, nonostante la specifica domanda d’una delle parti. Nella specie, il giudice aveva considerato la domanda[64], ma, «nella lettura del contenuto materiale dell’atto, ha sostituito una questione (quella effettivamente postagli con l’istanza di rimessione) con un’altra (del tutto diversa)», sulla quale si è pronunciato negativamente, sicché l’errore è stato determinato da un materiale abbaglio nella lettura degli atti di causa. Potremmo dunque dire che la parte è uscita a fiori, ma il giudice ha risposto (a) picche, ma non sulla base di una certa interpretazione o valutazione delle difese, bensì – semplicemente – per una viziata percezione degli scritti difensivi: «Le due questioni» (quella posta dalla parte e quella ipotizzata dal giudice), «come rispettivamente poste e quali emergono dalla sentenza e dagli atti e dai documenti processuali, divergono in senso assoluto, sia in relazione alla loro esistenza, che al loro significato letterale». Va detto, peraltro, che il confine fra interpretazione e percezione delle difese in giudizio è assai sottile e che, probabilmente, arresti di questo tipo saranno l’eccezione e si potranno e dovranno avere solo nelle ipotesi più evidenti di abbaglio del giudice.

Infine, va osservato che, essendo censurabile in revocazione solo l’omissione di pronuncia determinata da errore di fatto, anche ove sia proprio l’omissione il vizio censurato, il giudizio per revocazione si articolerà come sempre in una fase rescindente e in una fase rescissoria, i cui limiti sono ancora incerti, perché, se è vero che «svelato l’errore di fatto e individuata la parte della sentenza impugnata da rescindersi in quanto viziata dall’errore stesso, il successivo giudizio rescissorio, riguardante la modificazione di detta sentenza, deve avere per oggetto solo le parti di essa che sono state rescisse e quelle che ne dipendono»[65], non è meno vero che «la natura del giudizio revocatorio in fase rescissoria consiste nella sostanziale rinnovazione del complessivo percorso argomentativo logico-giuridico che condurrà alla decisione del casus concreto: quindi, del giudizio contenuto nella sentenza revocata, e non già di singole parti di essa»[66]. Per evitare problemi applicativi di questi princìpi, a mio avviso, è necessario che il vincolo di dipendenza che lega le parti rescisse alle altre sia accertato con particolare rigore, per evitare che quello per revocazione si trasformi in un terzo grado di giudizio[67].

Ovviamente, gli effetti del riconoscimento del vizio di omessa pronuncia sono diversi nel giudizio per cassazione e in quello amministrativo di appello, perché il Consiglio di Stato (producendo il gravame l’effetto devolutivo del sindacato sul merito della controversia) non incontra gli stessi limiti del giudice della (sola) legittimità, che può facilmente essere costretto a limitare la fase rescissoria alla pronuncia di rinvio al giudice del merito[68].

4.2. Il confine con la fuoriuscita dalla stessa funzione giurisdizionale

Verso l’alto, la frontiera dell’errore di diritto coincide con la fuoriuscita dalla funzione giurisdizionale. La questione si è posta, soprattutto, in riferimento al tema della responsabilità civile del giudice e a quello dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni del legislatore. È su questo terreno che si rinvengono le tracce più chiare delle incertezze della giurisprudenza, che oscilla tra convincimenti più rigorosamente anticreazionisti e pericolose tentazioni creazioniste (sia pure nella forma del creazionismo moderato). Due recentissime e alquanto complesse pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione consentono di fare il punto.

i) La prima[69] è la più prudente e convincente, ma la vicenda che essa ha (tutto sommato, felicemente) definito testimonia che il vero e proprio Kulturkampf che è in atto sulla natura dell’attività interpretativa del giudice è lungi dall’essersi concluso e che, anche in giurisprudenza, la tentazione del cedimento alla dottrina della creazione della norma da parte del giudice resta forte. Le sezioni unite, infatti, si sono pronunciate a seguito di un’ordinanza di rimessione[70] con la quale si chiedeva di pronunciarsi sulla «questione se il discrimine tra attività di interpretazione (coperta dalla clausola di salvaguardia)», di cui all’art. 1, comma 2, l. n. 117/1988,«e inescusabilità della grave violazione di legge (fonte di responsabilità civile dello Stato) venga in rilievo soltanto nel caso in cui l’attività del Giudice si rifletta direttamente sull’enunciato della disposizione normativa, traendone un significato (secondo il differente livello di chiarezza e precisione che questa esibisca), ovvero anche nel caso in cui si rifletta solo indirettamente su tale enunciato in quanto il significato risulti “già” enucleato costituendo il portato di una elaborazione giurisprudenziale, volta alla interpretazione della norma di diritto, che assuma consistenza tale da rendere stabile una determinata applicazione della norma di diritto». L’ordinanza, in definitiva, per quanto ribadisse che «il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto», lo faceva solo per un formale ossequio all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, ma evidentemente contraddiceva quest’affermazione quando ipotizzava il sostanziale vincolo del giudice alla giurisprudenza consolidata, ponendo la «questione di massima di particolare importanza» della distinzione «tra attività interpretativa insindacabile ed attività sussumibile nella fattispecie illecita, con specifico riferimento alla ipotesi della violazione di norma di diritto in relazione al significato ad essa attribuito da orientamenti giurisprudenziali da ritenere consolidati».

Sia pure al termine d’un itinerario argomentativo forse eccessivamente elaborato, la risposta delle sezioni unite è stata correttamente negativa. I punti essenziali sono questi:

  1. l’attività valutativa e quella interpretativa del giudice sono ben distinte (si parla, infatti, del «carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria, connotata da scelte sovente basate su diversità di interpretazioni»: par. 8.2.);
  2. è considerata abnorme l’interpretazione «ai limiti del diritto libero» (par. 8.3.)[71];
  3. nella sua più propria essenza, «l’esercizio della attività giurisdizionale (...) si estrinseca nella interpretazione delle norme» (par. 9.3.);
  4. l’interpretazione è attività d’intellezione (infatti «Solo l’attività che non può essere considerata prodotto del percorso intellettivo di interpretazione (e di valutazione) è assoggettabile a responsabilità»: par. 9.6.);
  5. e) pur essendo l’interpretazione attività d’intellezione, anzi forse proprio per questo, «l’errore del giudice è in certo qual modo fisiologico allo stesso svolgimento dell’attività giurisdizionale in quanto anche il giudicare è attività umana, come tale fallibile e limitata» (par. 10.1.);
  6. «L’area di responsabilità [del giudice] è quella (...) in cui la decisione appaia non essere frutto di un processo interpretativo ma contenga affermazioni ad esso non riconducibili, perché sconfinanti nel provvedimento abnorme, o nel diritto libero, e quindi, in quanto tali, caratterizzate da una negligenza ritenuta, prima ancora che inescusabile, come previsto dalla norma, inesplicabile», come quando si opera una «manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o, infine, lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (par. 11.2.);
  7. l’attività del giudice non è immediatamente interpretativa, perché è preceduta da altre attività che, pur essendo intellettuali, non sono d’interpretazione, esistendo «una attività giurisdizionale che si colloca a monte del vero e proprio processo interpretativo, attraverso una segmentazione del processo di analisi rispondente alla realtà, perché il processo di analisi della fattispecie che porta alla interpretazione, e poi alla decisione, si può scindere in diverse fasi logiche» (par. 11.3.);
  8. tre tipi di errore possono presentarsi in questa fase prodromica, che – dunque – non è coperta dalla clausola di salvaguardia; precisamente, l’errore «sulla errata individuazione della disposizione da applicare alla fattispecie concreta, ed in questo caso è un errore percettivo sul significante della disposizione, ovvero è un errore che cade sulla identificazione stessa della disposizione da applicare al caso concreto» (par. 11.5.); quello che interviene quando «non si associano alla fattispecie, correttamente inquadrata, gli effetti giuridici propri di quella disciplina (non le si associa nessuna disciplina, o le si associa una disciplina diversa, come nei casi in cui si applichi una pena detentiva per una ipotesi di reato che non la prevede, o che si applichi una pena superiore al massimo edittale). In questo caso, l’errore cade sulla applicazione della disposizione» (par. 11.6.); quello che «consiste nella attribuzione di un significante impossibile, un non-significato, ovvero un significante che va oltre ogni possibile significato testuale traibile dalla disposizione. In questo caso si ha una scelta solo formalmente interpretativa, ma talmente svincolata dai parametri normativi da non essere ad essi riconducibile» (par. 11.7.);
  9. in tutti e tre questi casi, «non si tratta di scelte frutto di un consapevole processo interpretativo, ma di attività che non sono frutto del processo interpretativo stesso» (par. 11.11.), laddove, «se una disposizione può avere vari possibili significati, nessun significato, neanche quello più desueto e meno utilizzato, può esser fonte di responsabilità, purché si rimanga nell’ambito del possibile, ovvero della possibile scelta interpretativa» (par. 11.10.);
  10. il «discostarsi del giudice dal tracciato della precedente giurisprudenza di legittimità» non integra la «grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile» (par. 13.1.), perché «il precedente giurisprudenziale, pur autorevole, pur se proveniente dalla Corte di legittimità e finanche dalle Sezioni unite, e quindi anche se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto, e come tale non è direttamente vincolante per il giudice (salvo che, naturalmente, per il giudice di rinvio)» (par. 13.2.);
  11. «Diversamente opinando, si negherebbe la legittimità della stessa forza propulsiva della interpretazione giurisprudenziale, che vive nella sua evoluzione e nel superamento critico delle passate posizioni» (par. 13.2.);
  12. il principio del carattere non vincolante del precedente deve essere armonizzato «con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (...) e con la successiva affermazione delle stesse Sezioni Unite secondo la quale “l’interpretazione della legge fornita dalla Corte di cassazione (e massimamente dalle sezioni unite di essa) va tendenzialmente intesa come una sorta di oggettivazione convenzionale di significato” (Cass. S.U. ord. n. 23675 del 2014)» (par. 13.5.);
  13. il precedente di legittimità in materia processuale può essere derogato (con congrua motivazione) solo per «ottime ragioni», mentre quello relativo ad altri settori normativi solo per «buone ragioni» (par. 13.5.)[72];
  14. in definitiva, «La norma giuridica trova propriamente la sua fonte di produzione nella legge (e negli atti equiparati)» e la soggezione del giudice alla legge «impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto» (par. 13.6.);
  15. dalla necessità di assicurare al massimo l’uniformità degli indirizzi giurisprudenziali, a fini di certezza «non può trarsi la conseguenza che il formante giurisprudenziale consolidato non possa essere contraddetto, se non andando incontro al rischio di una responsabilità civile. Una tale conseguenza non è ipotizzabile, perché il diritto vivente è esso stesso norma, frutto dell’interpretazione, vive nell’interpretazione e con essa può cambiare, sebbene abbia raggiunto un grado di stabilità che con maggiore difficoltà, e maggiore impegno demolitorio, può essere scalfito» (par. 13.15.).

 

In sintesi: per la Cassazione, legislazione e giurisdizione sono cose diverse e la creazione della norma è compito del legislatore, non del giudice, la cui soggezione alla legge preclude la qualificazione delle sue pronunce come fonti produttive di norme.

Dicevo che questa pronuncia va salutata con soddisfazione. Quelle della riserva della nomopoiesi al legislatore e dell’esclusione della natura creativa (di fonte, in senso proprio, di norme) della giurisprudenza sono affermazioni importanti e ampiamente argomentate. Convincente è anche la tesi che sia identificabile una porzione dell’attività del giudice che non coincide con quella interpretativa e – anzi – la precede. La prima affermazione, tuttavia, è accompagnata da ancillari osservazioni a mio avviso contraddittorie e la seconda, condivisibile in astratto, ha contenuti concreti che lasciano perplessi.

Quanto alla prima, è difficile ritenerla compatibile con l’accessoria affermazione che la disposizione, sottoposta a interpretazione, cambia natura, “divenendo norma” (par. 11.8.).

Quanto alla seconda, a mio avviso, vi sono certamente attività prodromiche a quella d’interpretazione in senso proprio (intendendo per “interpretazione” almeno l’ascrizione di un significato a un significante), ma non sono quelle identificate dalla sentenza in commento. Come osservavo già in altra occasione, prima dell’interpretazione occorre preliminarmente accertare che: a) si ha a che fare con segni linguistici; b) questi segni entrano a comporre qualcosa che sia definibile come un enunciato; c) si tratta di un enunciato propriamente normativo; c) la normatività dell’enunciato è la specifica normatività giuridica[73]. In definitiva, prima d’interpretare, l’operatore del diritto deve procedere, nell’ordine, alla decodifica della bruta materialità percepita (cioè all’identificazione del codice applicabile), riconoscendo i segni in quanto segni; alla decifrazione, stabilendo che si tratta di segni organizzati in un enunciato; alla qualificazione dell’enunciato come specificamente normativo; all’ulteriore qualificazione dell’enunciato (già riconosciuto come normativo) quale enunciato affermativo di tipo giuridico, in quanto tale distinto da altri possibili enunciati normativi (come quelli della morale o della buona educazione)[74].

Dubito assai, stando così le cose, che quanto la Cassazione ascrive all’attività preinterpretativa possa effettivamente e sempre collocarsi nello specifico momento logico in cui si resta “al di qua” del confine con l’interpretazione. Confini che, in realtà, sono segnati proprio dalle quattro procedure intellettive ora ricordate.

ii) La seconda pronuncia[75] tocca la delicata questione della trascrizione nei registri dello stato civile degli atti di nascita di minori generati a mezzo di maternità surrogata, con riconoscimento della cogenitorialità di due persone del medesimo sesso. Vedremo appresso (al par. 5) che il caso è risolto correttamente, ma le affermazioni di principio in tema di rapporti fra giurisdizione e legislazione lasciano assai perplessi.

L’esordio, invero, convince, perché le sezioni unite affermano che all’eccesso di potere giurisdizionale per invasione del campo della legislazione «questa Corte ha attribuito un rilievo eminentemente teorico, ritenendola configurabile soltanto qualora il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza». Il creazionismo giuridico sembra, dunque, radicalmente criticato. Subito dopo, però, si mette in dubbio «la possibilità di distinguere, nell’ambito del predetto iter [della decisione giudiziaria], l’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice da quella interpretativa a lui normalmente affidata: operazione, questa, piuttosto disagevole, in quanto, come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l’interpretazione non svolge una funzione meramente euristica, ma si sostanzia nell’enunciazione della regula juris applicabile al caso concreto, con profili innegabilmente creativi». Il che significa, puramente e semplicemente, adesione al creazionismo moderato.

Altri esempi di un andamento oscillante, se non contraddittorio, della giurisprudenza non mancano. Basta pensare, tra le manifestazioni di un indirizzo più rigoroso, a un’altra pronuncia delle sezioni unite che è oggetto di frequenti richiami giurisprudenziali, nella quale si dice che «La norma giuridica (…) trova propriamente la sua fonte di produzione nella legge (e negli atti equiparati), in atti, cioè, di competenza esclusiva degli organi del Potere legislativo» e che il fenomeno dell’adeguamento diacronico della norma di legge «per la sua complessità, esige la mediazione accertativa della giurisprudenza, che quindi lo disvela, ma non per questo lo crea»[76]. O, ancora, al rilievo, da parte della Corte costituzionale, che una forzatura del testo normativo «comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale»[77]. Per converso, in altra pronuncia delle sezioni unite (in tema di overruling processuali)[78], si esordisce – correttamente – movendosi nel solco dell’indirizzo comune e affermando che «la giurisprudenza assolve (...) a una funzione meramente dichiarativa, intesa a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata del diritto già posto (art. 101 Cost., comma 2), con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa di esso», ma si conclude opinando che «l’“affidamento” riposto nel significato “letterale” della disposizione, cui conseguirebbe un’unica risposta decisionale considerata “esatta”, quindi prevedibile in senso proprio, si scontra con la constatata complessità dei processi interpretativi, il cui esito è il prodotto della funzione nomopoietica distribuita tra tutti i soggetti dell’ordinamento, continuamente alimentata dal dibattito processuale del giudice con e tra le parti». Ebbene: si tratta di affermazione condivisibile laddove nega che d’interpretazione se ne dia sempre una e una sola (“esatta”) e che, tuttavia, risulta contraddittoria con l’esordio laddove (riesumata quella distinzione fra disposizione e norma che, come subito vedremo, è alla base del creazionismo) parla di una nomopoiesi diffusa, così implicando una funzione creativa (poietica del nómos, appunto) in capo al giudice.

In definitiva, abbiamo non pochi arresti dai quali emerge che l’attività di interpretazione (che poi è quella che maggiormente rileva nell’analisi della questione dell’errore di diritto) è correttamente concepita come attività cognitiva, ma non mancano segnali di significativi cedimenti agli assunti del creazionismo giuridico moderato e, sul piano dell’effettiva pratica giudiziaria, qualunque operatore del diritto potrebbe rendere testimonianza di qualche concreto dérapage creazionista. Si tratta di una partita ancora aperta, di un Kulturkampf, dicevo, ancora in corso e del quale è difficile cogliere la fine.

È probabile che le oscillazioni e gli equivoci dipendano dalla complessità dell’attività del giudice e dall’oggettiva difficoltà di tenere correttamente distinti i suoi vari aspetti. È indubbio che, in tutte le occasioni in cui la legge gli lascia margini di apprezzamento, il giudice debba compiere atti di volizione e non di cognizione (per quanto si tratti pur sempre di atti non arbitrari, ma orientati da paradigmi normativi). La questione, però, è se sia logicamente postulabile (e legittimamente esercitabile) un momento non solo volitivo, ma specificamente creativo nell’attività di interpretazione, che è la parte essenziale dell’attività giurisdizionale. Come ha correttamente osservato Luigi Ferrajoli, «Siamo tutti d’accordo sugli ampi spazi di discrezionalità interpretativa che intervengono nella giurisdizione: sul fatto che questa discrezionalità è inevitabile, a causa del carattere linguistico dei testi normativi che di solito ammettono più interpretazioni, e sul fatto che essa è oggi cresciuta enormemente a causa del dissesto, quantitativo e qualitativo, della legislazione, ma questo non basta per negare il carattere cognitivo dell’interpretazione»[79]. Invece, anche per le ragioni cui accenneremo a breve, l’interpretazione è, in sé, un momento cognitivo, non volitivo e, tanto meno, creativo[80]. Suddividere l’attività interpretativa in due distinte modalità, parlando di interpretazione cognitiva e di interpretazione decisoria, come fa una nota dottrina[81], alimenta gravi equivoci. Quando s’interpreta, si conosce. E sebbene il processo interpretativo debba svolgersi entro le coordinate segnate dalla necessaria attualizzazione e contestualizzazione del disposto normativo[82], necessaria per assicurare la «pròvvida corrispondenza tra forme giuridiche e dinamiche dell’esperienza»[83], l’interprete ha l’obbligazione di identificare l’interpretazione “più” plausibile fra le molteplici (inevitabilmente) plausibili, obbligazione che è adempiuta nel dominio della cognizione, non in quello della volizione. Non l’interpretazione, ma l’attività giurisdizionale nel suo complesso può vedersi articolata in momenti cognitivi e in momenti decisionali, sicché non ha senso proiettare sull’interpretazione qualificazioni che non la riguardano affatto[84].

Al di là delle incertezze che ho segnalato, tuttavia, la giurisprudenza sembra ancora largamente immune dal creazionismo (specie da quello integrale) e non è stata travolta dalle idee distruttive affermatesi in una parte significativa della dottrina.

5. La diffusa contestazione della natura cognitiva dell’interpretazione

È una fortuna che le dichiarazioni di principio attualmente prevalenti in giurisprudenza siano orientate nel senso che s’è descritto. È una fortuna, perché in dottrina è diffusa (e, in alcune discipline, addirittura egemone) l’opinione opposta, che la creazione della norma giuridica sfugga al legislatore, essendo invece imputabile all’interprete e, in particolare, a quell’interprete qualificato che chiamiamo “giudice”.

Alla base di questa ipotesi sta la distinzione – elaborata, in Italia, soprattutto da Vezio Crisafulli – fra disposizione e norma[85], distinzione che sembra ai più talmente ovvia da non poter più essere messa minimamente in discussione[86]. È proprio sulla base di questa premessa (apparentemente) logica che il creazionismo giuridico costruisce il rapporto tra fatto e diritto (intendo: diritto scritto) presupponendo la sostanziale insignificanza del secondo in difetto del primo[87]. Lo mostra bene la separazione logica proposta da Gustavo Zagrebelsky fra interpretazione dottrinale e interpretazione giudiziale. La prima non si legherebbe direttamente al fatto; tuttavia, procedendo «dal diritto al caso», da questo non potrebbe comunque prescindere, sebbene attraverso una sua «concettualizzazione ipotetica»[88], cui – mi sembra di capire – l’interprete non potrebbe mai sottrarsi. Lo sforzo interpretativo del giudice, invece, sarebbe con il fatto in rapporto immediato, perché «il caso è la molla che lo mette in moto e dà la direzione. Dal caso – si dice – l’interprete procede e ad esso ritorna, in un procedimento circolare (il “circolo interpretativo”) di riconduzione bipolare»[89].

Nonostante l’auctoritas di Crisafulli, il fondamento della distinzione fra disposizione e norma appare assai fragile, anzi inconsistente. Sintetizzando (e selezionando) all’estremo cose già dette in altra sede[90], mi limito a osservare che:

  1. se la disposizione fosse solo un enunciato bisognoso d’interpretazione, si dovrebbe spiegare perché non valga lo stesso per l’enunciato interpretante nel quale si risolve la pronuncia giurisdizionale[91];
  2. poiché una simile spiegazione non è possibile, la distinzione conduce a negare la possibilità stessa di una enunciazione della norma, che sarebbe sempre rinviata all’infinito[92];
  3. il regressus (o progressus) ad infinitum non è evitabile con il richiamo al “diritto vivente” (che porrebbe fine alla rincorsa), non foss’altro perché non sempre un diritto vivente si matura (o resta immutato) e, comunque, non è dato intendere cosa ne sia delle norme prima della sua maturazione[93];
  4. in quanto enunciati, anche le sentenze sono necessario oggetto d’interpretazione[94], sicché il regressus è logicamente implicato dalla loro stessa natura;
  5. non si comprende dove potrebbe risiedere, nelle sentenze, l’enunciato contenente la norma, perché la sola parte prescrittiva della sentenza è il dispositivo, mentre la motivazione ha un contenuto descrittivo[95];
  6. plurimi dati di diritto positivo escludono che il giudice possa considerarsi creatore della norma[96], dati dei quali il principale è la soggezione del giudice alla legge ex art. 101 Cost., soggezione che sarebbe mera autobbligazione (incompatibile con la logica e con la storia dello Stato di diritto) se la norma fosse creazione del giudice[97];
  7. se la norma fosse creata dal giudice, non si capirebbe cosa mai sia (e quale efficacia ordinante dei comportamenti umani possa mai avere) la previsione normativa prima del suo intervento[98];
  8. la norma, secondo Crisafulli, non potrebbe mai essere attinta se non nel confronto con le altre norme, ma se la norma è oggetto di creazione giudiziale non abbiamo alcun criterio per stabilire quali siano tali “altre” norme con le quali operare il confronto[99];
  9. l’enunciato normativo è, in realtà, enunciazione di un enunciato, già ricco di determinazioni di contesto, né deve attendere la propria immersione nella dialettica giudiziaria per acquisirle[100];
  10. poiché la norma non è creazione del giudice, essa deve preesistere al suo intervento, con la conseguenza che le proposizioni normative vanno considerate oggetto di atti cognitivi, non semplici pretesti di atti volitivi[101].

 

Non è questa la sede per svolgere più ampiamente tali considerazioni critiche. Non posso non osservare, però, che i sostenitori del creazionismo giuridico non s’avvedono che esso piazza nel cuore stesso dello Stato di diritto un cuneo distruttivo. Vero è ciò che è a-lethés, ciò che non si nasconde[102], ciò che – dunque – è conoscibile. Se la norma non fosse il frutto di un atto cognitivo (o, peggio, se non potesse mai nemmeno esser “detta”, a causa del fatale regressus ad infinitum), il diritto perderebbe ogni pretesa di verità, quindi ogni pretesa di consenso e ogni pretesa ordinante dotata di legittimità[103]. In una condizione di a-nomia, nessun potere può essere legittimo. Non è forse l’assenza del nómos uno dei tratti costitutivi della tirannide, cioè del potere illegittimo par excellence[104]? E questa a-nomia, proprio in ragione del difetto di legittimazione che determina, non porta con sé il rischio concreto dello scivolamento in una condizione di an-archia?

Può sembrare un quadro a tinte troppo fosche, ma come non coglierne i tratti in un mondo del diritto che, negli ultimi quarant’anni, con la moltiplicazione dei livelli ordinamentali, si è voluto appositamente costruire come privo di centro, di vertice e – dunque – di “governo”? È stato autorevolmente scritto, ad esempio, che «l’effettiva tutela della persona deve superare le divergenze, ed anche le ripartizioni di competenze tra le corti»[105], ovvero che, «ambientando le relazioni tra la Convenzione [europea dei diritti dell’uomo] (e, generalizzando, ogni altra Carta dei diritti) e la Costituzione (e l’intero diritto interno) non già al piano teorico-astratto ma tornando a riguardarle in vivo o in concreto, al piano della teoria della interpretazione, ci si avvede che nessuna aprioristica sistemazione di stampo piramidale può trovare giustificazione alcuna, le Carte giocandosi piuttosto ogni volta la partita alla pari e trovandosi sollecitate ad offrire sul mercato dei diritti la mercanzia migliore di cui dispongono al fine di accattivarsi i favori dei potenziali acquirenti»[106]. Proprio così, però, si dimostrano le conseguenze ultime della posizione qui criticata: la disgregazione d’ogni certezza fondata sulla cognizione e l’abbandono al puro arbitrio della volizione tesa a rendere giustizia nel caso singolo[107]. La giustizia del caso singolo, però, è la giustizia non a caso prediletta, come ben spiegava Calamandrei, dai regimi totalitari[108], che proprio della sovrapposizione fra diritto e morale si valgono per giustificare ogni possibile forzatura delle leggi motivata dalla necessità di raggiungere i loro scopi generali. Le posizioni allaRadbruch[109], che con ottime intenzioni (ma con pessimi risultati)[110] criticano il positivismo giuridico e contestano la giuridicità delle norme dei regimi totalitari invocando argomenti morali, in realtà non fanno altro che utilizzare gli stessi argomenti del nemico e alla loro logica pericolosamente si piegano[111].

La recentissima sentenza delle sezioni unite sulla cogenitorialità same sex a seguito di ricorso alla maternità surrogata[112], le cui affermazioni in tema d’interpretazione si sono prima contestate, offre stavolta spunti almeno in parte condivisibili quanto ai confini dell’attribuzione in via giudiziale di diritti non previsti dal legislatore. Premesso che il limite dell’ordine pubblico al riconoscimento dell’efficacia di una sentenza straniera deve essere ricostruito non solo sulla base della Costituzione e delle fonti internazionali, ma anche sulla base «della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione»[113], le sezioni unite ammettono che il divieto di maternità surrogata è stato imposto «nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione»[114] ed escludono che la coppia omosessuale che abbia tentato di aggirare il divieto di maternità surrogata praticandola all’estero abbia diritto al riconoscimento del rapporto genitoriale. Un arresto assai opportuno, che fa valere il testo della Costituzione e la logica della legislazione vigente, opponendosi alla diffusa tendenza a trovare a tutti i costi un fondamento dei diritti, comunque rivendicati.

Come si vede, il creazionismo moderato non conduce alle conseguenze estreme di quello integrale e ancora consente di rintracciare la trama che lega la Costituzione alla sua attuazione legislativa, senza pretendere di confondere con questa complessa operazione politica l’applicazione che della Costituzione fa il giudice[115]. Resta, però, una posizione teorica criticabile e rischiosa, alla quale va opposta con fermezza la resistenza – che non esito a chiamare catecontica – dell’anticreazionismo.

6. Le plurime aporie del creazionismo giuridico

Al di là del difetto di saldezza concettuale delle sue premesse e della gravità sistemica delle sue conseguenze, peraltro, il creazionismo, integrale o moderato che sia, mostra anche il segno di contraddizioni evidenti. Esso, infatti, alla prova dell’applicazione alle molteplici vicende dell’esperienza giuridica, nega regolarmente se stesso, suggerendo soluzioni ricostruttive e operative che prescindono totalmente dagli assunti teorici di partenza. Vedremo subito per quali aspetti si manifesti questa incoerenza, ma si può osservare sin d’ora che, per quanto sia comune ai giuristi l’operare per finzioni, ragionando “come se” e mettendo in pratica – magari inconsapevolmente – i dettami della vaihingeriana filosofia dell’als-ob[116], non è socialmente sopportabile una costruzione teorica che, dopo aver preteso di rivelare al mondo intero che “il re è nudo”, finisce poi per far finta che, invece, egli sia vestito di tutto punto. Si è scritto esattamente che, a ragionar come fanno i teorici del creazionismo, l’interpretazione sarebbe «risolvibile in un gioco linguistico sostanzialmente “anomico”», dal quale deriverebbe «un fatale Grande Inganno in cui i giuristi sarebbero coinvolti (più o meno obtorto collo[117]. Ma si tratta di un “Grande Inganno” che non potrebbe essere a lungo tollerabile né dagli altri attori del sistema istituzionale né dagli utenti del servizio giustizia. È per questo che trovo autolesionistici i cedimenti al creazionismo che, di tanto in tanto, s’avvertono in qualche pronuncia giudiziale: quale mai legittimazione pei propri dicta potrebbe invocare il giudice se la norma non fosse preesistente alla sua azione ma ne fosse (sia pure pro parte, come vuole il creazionismo moderato) il prodotto? Quale mai giustificazione potrebbe egli costruire del ruolo sociale di chi è divenuto titolare di una pubblica funzione perché selezionato per concorso e in base alla sua conoscenza (conoscenza!) del diritto positivo se questi, una volta entrato in possesso del suo munus, fosse improvvisamente chiamato sia a esercitarsi nella nomopoiesi, sia a praticare un magistero morale? Il rischio che, in questo modo, corre la giurisdizione è mortale e mi sorprendo sempre molto quando il creazionismo giuridico fa breccia nella cultura dei magistrati: a prescindere dall’errore teorico che è sotteso a questa posizione, infatti, quel che la segna irrimediabilmente è la cancellazione, pura e semplice, della funzione sistemica dell’attività giurisdizionale[118]. Gli amici della giurisdizione non sono quelli che ne esaltano la potenza creatrice, ma coloro che tengono ferma la distinzione fra legis-latio e iuris-dictio

Ma vediamo i segnali più chiari del difetto di coerenza della dottrina qui contestata.

 

i) La divisione dei poteri

Il creazionismo giuridico non nega la divisione dei poteri. Lo stesso Crisafulli, cui – come s’è visto – quella dottrina, almeno in Italia, in limine si aggancia, criticava sì la tripartizione tradizionale, ma solo perché essa «è ben lungi dall’esaurire la gamma delle manifestazioni del supremo potere statale, suscettibili di configurarsi, oggettivamente e soggettivamente, come altrettanti distinti poteri»[119], con ciò solo dando per scontata la necessità e correttezza della distinzione.

Solo nelle versioni più estreme la divisione dei poteri è stata coerentemente negata. È quanto ha fatto, in particolare, la ricostruzione kelseniana della nomopoiesi, nella quale legislazione e giurisdizione si distinguono solo perché la prima è intesa come «attività di posizione della norma giuridica generale» e la seconda come «attività di posizione della norma giuridica individuale»[120], con la conseguenza che «anche il giudice produce diritto e quindi è anch’egli relativamente libero, nell’esercizio di questa funzione»[121]. Questa tesi, tuttavia, se rifulge per logica coerenza, da un lato si espone alla corrosiva critica schmittiana dell’impossibilità, con simili premesse, non solo di fondare un sistema di controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi, ma anche uno Stato di diritto[122]; dall’altro si scontra con il diritto positivo, che una divisione dei poteri (ormai in qualunque costituzione democratica contemporanea) la riconosce, costruendoci sopra l’intero edificio della forma di governo. Stato di diritto, divisione dei poteri, garanzia delle libertà e osservanza dei confini fra legislazione e giurisdizione grazie al rispetto della lettera della legge vanno di pari passo, come Adam Smith aveva ben inteso già duecentocinquant’anni fa: «I had observed another thing which greatly confirms the liberty of the subjects in England. – This was the little power of the judges in explaining, altering, or extending or correcting the meaning of the laws, and the great exactness with which they must be observed according to the literall meaning of the words, of which history affords us many instances»[123].

ii) Il sistema delle fonti del diritto

Se le sentenze fossero davvero atti-fonte[124], la loro successione nel tempo dovrebbe essere regolata dal criterio che comunemente consente di risolvere questo tipo di antinomie quando insorgono tra fonti equiordinate, cioè dal criterio cronologico: si tratta di una conseguenza logicamente indefettibile, per quanto trascurata dall’opinione qui criticata[125]. La norma “creata” dalla sentenza #1, pertanto, dovrebbe dichiararsi abrogata al sopravvenire della sentenza #2, e via discorrendo. Si tratterebbe, però, di un meccanismo a dir poco irrazionale, perché, nell’ipotesi in cui la sentenza #3 tornasse all’interpretazione avanzata dalla sentenza #1, dovremmo parlare o di abrogazione tacita o di abrogazione espressa con reviviscenza della norma abrogante, il che è palesemente assurdo (cosa accadrebbe qualora, come è sovente il caso, più sentenze, contemporaneamente, seguissero indirizzi contrastanti? Avremmo abrogazioni e reviviscenze a macchia di leopardo o a singhiozzo?). Né varrebbe replicare che la vis abrogans si dispiegherebbe appieno solo a seguito della maturazione di un indirizzo consolidato o addirittura “definitivo” (per riprendere la formula della nota sentenza Corte cost., n. 49/2015)[126]. Infatti: a) non vi sono paradigmi per stabilire quando si siano determinati il consolidamento o la definitività; b) se si dovesse attendere il verificarsi di uno di questi due eventi, la tesi qui criticata non saprebbe indicare quale mai fenomeno giuridico si verifichi nel momento in cui pronunce contrastanti si susseguono la prima volta (e tutte le volte successive, prima del “consolidamento”). Insomma: per essere coerente, il creazionismo giuridico dovrebbe sostenere una tesi palesemente assurda e inoperativa. Non lo fa, ma questo dimostra, ad un tempo, la sua incoerenza e la sua infondatezza.

iii) La certezza del diritto

È assai diffusa in dottrina l’idea che la certezza del diritto sarebbe un “mito”[127], espressione questa che deve la sua fortuna a Norberto Bobbio[128], ma che (sebbene oggi lo si dimentichi) egli impiegava lasciando ferma l’idea ch’essa fosse un valore fondativo dell’ordinamento e postulando la necessità di realizzarla senza a mito – appunto – ridurla. Non è il caso, qui, di ripetere cose già dette altrove quanto all’errore che giace sotto l’idea che la certezza, ormai inattingibile, dovrebbe essere gettata nella Rumpelkammer dei concetti giuridici inutilizzabili[129]. Mi limito a osservare che, se la certezza fosse davvero in dissolvenza e la sua ricerca fosse una fola, non avrebbe davvero senso pretendere dal legislatore una buona redazione delle leggi e una loro maggiore chiarezza e precisione: essendo l’atto interpretativo comunque (largamente) indipendente dal testo e legato al caso “illuminante”; essendo la pronuncia giudiziale destinata ad assicurare giustizia sostanziale, perché mai preoccuparsi della bassa qualità redazionale delle leggi? Eppure, non sono pochi i creazionisti che lamentano l’insipienza del legislatore, dimostrando anche per questo profilo che la teoria che si professa non è seguita da una coerente prassi.

iv) La funzione nomofilattica

In apparenza, l’esistenza di una funzione nomofilattica, comportando la valorizzazione del precedente giudiziario, parrebbe un argomento in favore del creazionismo. È, invece, l’esatto contrario. Partendo dalle premesse teoriche qui criticate è, infatti, impossibile anche solo teorizzare una funzione nomofilattica. La filachía del nómos ne presuppone uno preesistente, da stabilizzare nelle sue vicende interpretative, ma se il fúlax non ha un nómos da tutelare e stabilizzare e – anzi – lo crea direttamente, non v’è alcuna possibilità di immaginare alcuna funzione di custodia. Al più, la nomofilachia potrebbe concepirsi come un mezzo per imporre «limiti della creatività del giudice»[130], ma non si capisce come tale mezzo potrebbe razionalmente legittimarsi: se è creativo anche il fúlax, perché mai l’ordinamento avrebbe interesse a far prevalere la sua creatività su quella di chi subisce il suo controllo? Né sembra proficuo invocare la nomofilachia «contro il rischio di uno scivolamento della pratica ermeneutica» verso «un esasperato soggettivismo interpretativo»[131]: una volta che si è sottoposto a critica il sillogismo giudiziario, si è negata la natura cognitiva dell’atto interpretativo e si asserisce che «il testo, di per sé, non dice nulla»[132], il soggettivismo, nomofilachia o non nomofilachia, viene da sé.

7. Il creazionismo giuridico e la questione specifica dell’errore di diritto

Proprio sul terreno dell’errore di diritto, però, si manifestano con la massima evidenza le contraddizioni della dottrina qui criticata. I suoi sostenitori, invero, parlano comunemente dell’errore di diritto, anzi, specificamente, dell’errore di diritto derivante da un difetto dell’attività interpretativa, e non possono fare a meno di riconoscere che l’errore in generale «è falsa conoscenza della realtà» e che l’errore di diritto in particolare «cade sulla esistenza, la portata o l’applicabilità di una norma giuridica»[133]. Così facendo, tuttavia, smentiscono nettamente le proprie premesse teoriche, avanzando l’ipotesi, quae non datur nel loro universo concettuale, che una norma “preesista” all’accertamento della sua “esistenza” o della sua “portata”, cioè alla sua interpretazione (e applicazione giudiziale).

Cerca di sfuggire alla difficoltà la raffinata costruzione di chi, orientato nel medesimo senso qui criticato[134], nega la necessità, per il giurista, di ricostruire la problematica dell’errore «all’interno del rapporto fra rappresentazione e realtà oggettiva»[135], perché nel mondo delle relazioni sociali (fra le quali sono quelle giuridiche) «per giudicare della falsità della rappresentazione occorre invece stabilire se il soggetto attribuisce al “segno”, alla struttura rappresentativa adoperata, l’idoneità ad evocare un contenuto di realtà eguale o diversa da quella che la comunità in cui vive e si esprime designa con lo stesso segno», con la conseguenza che «l’errore denota la relazione di disformità che intercorre tra due diversi punti di vista, egualmente riferibili a soggetti umani»[136]. A questa prospettiva di analisi (sostanzialmente pragmatica), tuttavia, può ribattersi che così ragionando, poiché la disformità tra rappresentazioni ne presuppone una pluralità, risulta impossibile predicare l’erroneità (o meno) della prima rappresentazione proposta; anzi, più radicalmente, risulta impossibile decidere dell’erroneità prima che si sia formata un’opinione della comunità di riferimento, il che rende la tesi del tutto inoperativa. Certo, è evidente che «la rappresentazione di una cosa è sempre cosa diversa dalla cosa stessa»[137], ma ciò dipende semplicemente dal fatto che la rappresentazione non può essere mera riproduzione, ma è manifestazione del diverso atto della cognizione, il che – ovviamente – non toglie all’atto rappresentativo la sua fondazione appunto cognitiva.

Esclusa la configurabilità di un vizio cognitivo dell’attività interpretativa, per tale dottrina, a tutto concedere, l’errore di diritto non è altro che errore di fatto o, al più, ignoranza del fatto. Essendo il fatto il “lume” gettato sulla morta disposizione[138], che consente al creator spiritus di orientarsi nel darle vita e pregnanza di contenuto normativo, l’errore nella trattazione del caso può dipendere esclusivamente da un errore nella ricostruzione dei fatti o della meritevolezza della protezione dell’una o dell’altra situazione soggettiva coinvolte nella fattispecie. Error iuris ed error facti, pertanto, finiscono per sovrapporsi, negando una distinzione che, oltre a essere pienamente logica e concettualmente necessaria, è voluta e dunque imposta dal diritto positivo. E che, si badi, presidia anche l’indipendenza del giudice, perché a negarla si finisce per svuotare di contenuto tutte le norme esonerative d’una responsabilità imputabile a errore di diritto di tipo interpretativo. Una volta di più, il creazionismo giuridico è un faux ami della giurisdizione.

8. L’errore che c’è

Definire la nozione di “errore di diritto”, in particolare nell’ipotesi in cui dipenda da vizio interpretativo, è pertanto indispensabile perché questa è un’obbligazione non solo logica, ma imposta dal diritto positivo. La stessa dottrina creazionista non può non riconoscere che, appunto, il diritto positivo impone di darsene una, perché plurimi sono i luoghi normativi in cui – come si è visto – emerge la rilevanza giuridica dell’errore di diritto. Per la dottrina qui criticata, coerenza vorrebbe che tale distinzione venisse radicalmente contestata in quanto insensata e che l’interprete rifiutasse di compiere qualsivoglia delimitazione, ad esempio, dell’errore revocatorio rispetto all’errore di diritto legittimante l’appello o il ricorso per cassazione, ammettendo il ricorso per revocazione sempre e non soltanto nei casi in cui il confine fra errore di diritto ed errore di fatto sia stato superato. Poiché, però, l’ordinamento non potrebbe più funzionare se all’errore revocatorio non si ponesse un confine (id est: un argine), nessuno, nemmeno tra le fila dei creazionisti, osa cancellare la linea di frontiera e, opponendo un preteso abbaglio delle fonti che la disciplinano, postulare un’illimitata esercitabilità dell’azione revocatoria. Una volta di più, una palese incoerenza.

Come si vede, nel mondo giuridico la questione generale dell’errore, ma – va detto subito – ancor più quella specifica dell’errore di diritto (in quanto è connesso al tema dell’interpretazione), si pone in relazione diretta con il più formidabile problema che il pensiero filosofico debba affrontare, che è quello dell’oggetto (della realtà) e del suo rapporto col soggetto. Un problema che si può ovviamente appena menzionare, ma che non può essere sottaciuto, perché, come sovente accade negli studi di diritto, «haec autem quae velut propria philosophiae adseruntur, passim tractamus omnes»[139].

Il punto, per quanto concerneva in particolare l’interpretazione e l’errore di diritto, fu lucidamente colto da Emilio Betti, legando la questione dell’interpretazione a quella della «posizione dello spirito rispetto all’oggettività»[140]. Su questa problematica, nel corso dei secoli, il pensiero occidentale ha sperimentato ogni forma di possibile risposta e lo stesso Novecento ha oscillato fra lo scetticismo estremo di un Adolfo Levi (ch’egli stesso definì significativamente “solipsismo”), per il quale (peraltro in perfetto accordo con la tradizione di quel movimento di pensiero)[141] «lo stesso scetticismo (...) pure è involto nel dubbio che implica per tutti i processi del pensiero, anzi per la validità del pensiero in generale»[142] e l’altrettanto estremo oggettivismo di una Ayn Rand, per la quale «Existence exists – and the act of grasping that statement implies two corollary axioms: that something exists which one perceives and that one exists possessing consciousness, consciousness being the faculty of perceiving that which exists»[143]. Escluso che di simili formidabili problemi si possa parlare qui, basta dire che, negli ordinamenti di diritto scritto, quella del rapporto tra il soggetto e l’oggetto dell’interpretazione giuridica si pone essenzialmente come questione del rapporto tra il soggetto e un testo. Savigny diceva che il soggetto, accostandosi al testo per interpretarlo, compie una «libera operazione intellettuale»[144], ma è fatale che il suo essere “operazione intellettuale” (chiamata appunto a intelligere) renda l’interpretazione non autenticamente “libera”: non a caso, a parte poche eccezioni, nella stessa scuola del diritto libero non si è mai predicata una libertà totale, ma, sulla scia di Kantorowicz[145], ci si è limitati a negare che il testo sia il solo elemento di guida dell’interprete e a sollecitare il riferimento anche al diritto consuetudinario o, tutt’al più, alla coscienza sociale, evocando una sorta di diritto naturale “relativo”, “attuale” o “storico”. Compito dell’intelletto essendo l’intellezione, la libertà integrale dell’atto intellettivo va revocata in dubbio in radice e può e deve esserlo soprattutto quando l’intellezione si dirige a un testo normativo[146]. Quel testo, infatti, è un atto comunicativo e postulare la libertà dell’interprete significa, puramente e semplicemente, postularne il rifiuto a immettersi nel processo comunicativo: l’estremizzazione delle premesse ermeneutiche porta, dunque, alla negazione delle loro conseguenze (cioè del dialogo comunicativo).

Il testo normativo è, pertanto, peculiare oggetto di conoscenza da parte del giurista, il quale, tuttavia, ha con esso un rapporto che non coincide interamente con quello che lega l’indagatore di problemi metafisici alla cosa indagata. Anche il testo normativo è un oggetto, in ordine al quale si dispiega lo sforzo dell’interpretazione, che null’altro è che la sua comprensione, ma qui «comprendere un scritto significa comprendere cosa si intende dire in esso»[147], perché il testo è il punto d’avvio di un processo comunicativo.

La questione del processo comunicativo è centrale. L’aveva colto con folgorante acutezza, una volta di più, Thomas Hobbes quando, elencando i vantaggi del discorso (che è tratto proprio dell’uomo e solo dell’uomo)[148], affermava che «è un vantaggio del discorso, anzi il vantaggio massimo, il fatto che si possa comandare e comprendere i comandi. Infatti, senza questa facoltà non esisterebbe tra gli uomini alcuna società, né pace, né di conseguenza alcuna disciplina, ma in primo luogo ferocia, e poi solitudine»[149]. Il legislatore norma per essere inteso[150] ed è obbligazione del destinatario della norma l’intenderla, immettendosi nel dialogo comunicativo aperto dal legislatore proprio con l’obiettivo di farsi intendere[151]. Non adempiere questa obbligazione significa aprire le porte al soggettivismo anomico e mettere in discussione l’idea stessa di società politica. Si badi: simile obbligazione grava in primo luogo sull’operatore del diritto e in primissimo luogo sul giudice. Divenire operatori del diritto, divenire giudici (ma anche professori di materie giuridiche!), è il frutto d’una discrezionale scelta di vita, in forza della quale si assume una funzione sistemica che è prioritariamente quella di identificare le norme e d’intenderne il significato. Una volta che quella scelta è stata fatta, non si è liberi di sottrarvisi.

Non solo. Proprio chi sostiene che l’interpretazione giuridica non potrebbe fare a meno del caso, con la conseguenza che il testo senza il caso non sarebbe altro che morta lettera, postula una preordinazione pratica dell’interpretazione, finalizzata all’applicazione della norma. A ragionare in tal modo, però, le premesse scettiche sulla possibilità di considerare il testo quale oggetto di conoscenza, già dotato – in sé – di significato, dovrebbero essere per coerenza abbandonate, perché anche nelle posizioni scettiche più estreme «la necessità di oltrepassare la sfera del mio io individuale mi si fa sentire quando, uscendo dalla posizione teoretica, entro nella vita: l’azione etica implica l’esigenza che io riconosca la realtà autonoma di altri esseri umani, di altre persone, che debbo rispettare e verso le quali sono legato da doveri»[152], doveri che qui esigono l’immissione nel processo comunicativo e l’intellezione del testo normativo.

9. Conclusione

Quello dell’errore di diritto e, in particolare, dell’errore interpretativo è il terreno di coltura di un grave equivoco, confondendosi la questione di ciò da cui l’errore è causato con quella di ciò cui l’errore attiene. Sono entrambe questioni epistemologiche ed etiche di primaria importanza, che vanno tenute ben distinte.

Quanto al fondamento, nel corso dei secoli, ci si è chiesti se l’errore si radichi in un difetto dei sensi (della percezione), della volontà (del giudizio) o dell’intelletto (della cognizione) e in concreto non sono mancate risposte in favore di ciascuna di queste alternative. Così, per fare solo qualche esempio, in una concezione razionalistico-meccanicistica come quella degli atomisti si è guardato alla prima[153]. In una concezione impregnata di presupposti etico-religiosi, come quella degli stoici, si è fatto riferimento alla seconda, asserendo che l’errore è una colpa in quanto «prodotto volontario della attività morale»[154], in tal modo inaugurando un indirizzo che troverà nel cristianesimo (chiamato a conciliare libero arbitrio e provvidenza divina) diffusa accoglienza[155]. In una filosofia (soprattutto) della scienza come quella di Francesco Bacone, infine, le cause dell’errore sono state viste nell’intelletto stesso, traviato dai quattro idola che «assediano la mente umana»[156]: tribus, «fondati sulla natura umana stessa, e sulla stessa famiglia umana, o tribù»[157]; specus, che «derivano dall’individuo singolo», dalla sua natura, dalla sua educazione, dai suoi preconcetti, etc.[158]; fori, che «dipendono per così dire da un contratto e dai reciproci contatti del genere umano» e sono generati dal linguaggio[159]; theatri, che «sono penetrati nell’animo umano ad opera delle diverse dottrine filosofiche e a causa delle pessime regole di dimostrazione»[160].

Cosa del tutto diversa è chiedersi a cosa l’errore, in ultima analisi, pertenga. Cosa diversa e più semplice, perché qui non è dubbio che si tratti dell’intelletto, dell’attività cognitiva, perché quale che sia il fondamento dell’errore è pur sempre la cognizione che ne è pregiudicata[161]. Che sia proprio la conoscenza a esser viziata dall’errore, del resto, risulta da una risalente tradizione del pensiero occidentale, che, inaugurata già da Parmenide («Non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile»)[162], transita per Aristotele e soprattutto per la scolastica, cioè per la celeberrima affermazione tomista[163] che la verità è «adaequatio intellectus et rei»[164]. Si ha la verità quando l’intelletto «dicit esse quod est vel non esse quod non est» e ciò che deve essere adeguato alla cosa conosciuta non è l’atto dell’intellezione, ma «illud quod intellectus intelligendo dicit et cognoscit»[165]. Si tratta di una formula che (non solo grazie all’ufficializzazione del tomismo nella dottrina della Chiesa)[166] ha avuto immensa fortuna, come dimostra il fatto che, quasi all’alba del XVII secolo, Francisco Suárez ancora la riprendesse appieno e affermasse ch’essa risultava «ex communi omnium consensu»[167]. Lo stesso Suárez, peraltro, precisava (con non marginale ridislocazione del piano dell’analisi) che «veritas rationis seu significationis consistit in adaequatione inter propositionem significantem et rem significatam»[168].

Proprio la posizione di Tommaso, in questa prospettiva, è illuminante. Sulla scia del collegamento stoico fra errore e deviazione della volontà, tradotta nella morale cristiana già da Anselmo d’Aosta (nell’affirmatio «non est (…) aliud veritas, quam rectitudo»)[169], egli imputa l’errore alla scelta volontaria di chi «addit actum quemdam super ignorantiam» e per questo commette peccato. Tuttavia, non ha dubbi – come abbiamo visto ora – che l’errore si risolva in un difetto dell’intellezione. È solo di questo difetto, pertanto, che si tratta quando si postula un errore e un errore non può essere postulato quando si parte da premesse creazioniste e non cognitiviste.

Il creazionismo giuridico, destituendo di fondamento razionale il momento cognitivo ed esaltando quello della scelta (cioè della volontà), non a caso nega la separazione fra diritto e morale. Stavolta (a mio avviso) con grande coerenza, esso si riaggancia, magari inconsapevolmente, agli indirizzi che condannavano l’errore non solo logicamente, ma moralmente, come è necessario fare quando l’errore si predica della volontà, alla quale non ha senso opporre un limite cognitivo, mentre ha senso opporre un limite etico. Non di errore, però (e men che meno di diritto), ma di ingiustizia, in questo caso si tratta.

Solo una volta che ci si riconosce nel cognitivismo giuridico[170], dunque, l’errore di diritto può essere concepito, mentre la prospettiva non-cognitivista, rifiutando il “vero”, non può che rifiutare il “falso”, restando così muta di fronte alla previsione giuridico-positiva dell’errore di diritto e sorda di fronte alla risalente tradizione del pensiero giuridico secondo la quale l’errore è «cognizione falsa di una situazione»[171]: se non v’è una res che possa essere cognita, non può darsi alcun errore. Negare la natura pienamente cognitiva dell’atto interpretativo, pertanto, significa, puramente e semplicemente, negare l’esistenza dell’errore di diritto.

Questo, invece, essendo normativamente previsto, non può non essere indagato e consiste, propriamente, in un errore del giudizio, in una “imperfectio intellectus”, distinta, come abbiamo già detto, dalla semplice ignoranza[172]. Così come l’errore nella conoscenza della realtà oggettuale può darsi solo a condizione di supporre un “oggetto” e di postulare una sua difettosa “rappresentazione”, l’errore di diritto può darsi solo ammettendo che sussista un significante al quale l’interprete è chiamato ad ascrivere un significato coerente col significante stesso. Come qualunque interpretazione, quella giuridica ha a che fare con un oggetto, ma l’oggetto è ciò che ci sta-e-resta-contro, è un Gegen-stand, come ha mostrato la complessa ricerca di Günter Figal[173]. Sottrarre al testo normativo la sua capacità di esprimere la norma, affidandone la “produzione” all’interprete, significa, a me pare, privarlo della sua stessa oggettualità.

Occorre, peraltro, rimuovere quattro possibili ulteriori equivoci, che i critici della natura cognitiva dell’atto interpretativo potrebbero (anche strumentalmente) alimentare. Il primo riguarda l’oggetto della cognizione. Il secondo il rapporto fra giurisprudenza e alimentazione del fenomeno giuridico. Il terzo il rapporto fra modernità e teoria dell’interpretazione. Il quarto la complessità dell’atto interpretativo. Vediamoli.

Oggetto della cognizione. I critici del cognitivismo giuridico oppongono che la disposizione, in sé, è cosa morta e che la vita le è data solo dall’interprete, che ne cava la norma. L’equivoco in cui cadono, però, è evidente. Immaginare le disposizioni come semplici segni grafici irrelati è un puro non senso. Esse, infatti, come abbiamo accennato in precedenza, sono quel che sono anzitutto in quanto nascono legate a un codice linguistico, in quanto – cioè – sono dall’inizio immerse in un “contesto” linguistico-formale (necessario per capire che è di un segno linguistico che stiamo parlando), che possiamo anche denominare “co-testo”. Inoltre, lo sono in quanto sono emesse dal legislatore in un preciso contesto fattuale, storico, assiologico, che proprio allo stesso legislatore è anzitutto cognito. Quindi non si tratta di un astratto enunciato, ma di un enunciato che ha avuto una storicamente concreta enunciazione, che l’interprete deve intendere. L’idea che un positivista di oggi non sia consapevole di questo e possa ammettere che la disposizione sia un semplice complesso di macchie d’inchiostro su un foglio è, puramente e semplicemente, caricaturale.

Il rapporto fra giurisprudenza e alimentazione del fenomeno giuridico. Altra obiezione[174] fa leva sul fatto che la tesi qui sostenuta dimenticherebbe che il diritto è largamente creato dai giudici e che, in particolare, la storia del nostro diritto amministrativo sarebbe storia delle pronunce giudiziarie che l’hanno plasmato. Che questa obiezione si fondi su un equivoco è evidente. Il fenomeno giuridico (il “diritto”) è il risultato degli apporti di tutti gli operatori giuridici: di chi fa una legge, di chi scrive una sentenza, ma anche di chi sottoscrive un contratto, emana una circolare, riesce a rendere una prassi socialmente (prima) e giuridicamente (poi) accettata che una donna prenda il sole in bikini o – semplicemente – mette in cattedra un professore di diritto amministrativo. Nell’indagine sin qui condotta, però, non si parla di questo, ma della nomo-poiesi, cioè, alla lettera, della creazione della norma. E l’innegabile contributo dei giudici (o di chiunque altro) allo sviluppo del fenomeno giuridico non dice nulla sulla loro compartecipazione al (o, peggio ancora, sul loro monopolio del) potere nomopoietico: il Conseil d’État avrà pur fatto il diritto amministrativo francese, ma non ha fatto le sue norme (e non credo sia necessario dilungarsi sulla differenza).

Rapporto fra modernità e teoria dell’interpretazione. Un’obiezione diffusa all’impostazione qui seguita fa leva sul legame fra cognitivismo giuridico e modernità e, infatti, la più raffinata delle dottrine che la propongono (mi riferisco a quella di Paolo Grossi) muove dalla critica alla seconda per sorreggere la critica al primo. Il passaggio dalla modernità alla postmodernità sarebbe esemplato ed espresso – sul piano istituzionale – dalla crisi dello Stato, cui si accompagnerebbero una ripresa della capacità autoregolativa della società, emancipatasi dal monopolio statale della nomopoiesi, e una rinascita del diritto naturale, in danno di quello positivo. In un simile contesto storico, si dice, insistere sulle tesi qui avanzate significherebbe cercare di riesumare un cadavere ormai putrefatto, qual è quello del tradizionale positivismo giuridico. Non è, però, così: abbiamo appena visto che il positivismo di oggi non è quello di ieri e che l’interprete non è più concepibile come il sacerdote della “sola” interpretazione “giusta”. Ma c’è di più.

Anzitutto, l’autoregolazione sociale che oggi ci sembra di intravedere non ha nulla a che fare con quella medievale, premoderna, espressiva di un pluralismo poi castrato dalle pretese della statualità. Non è affatto una vera regolazione condivisa e dal basso dei rapporti sociali, bensì l’imposizione dall’alto (da parte dei grandi centri di potere economico-finanziario) di modelli regolatorî che non hanno nulla a che vedere con il pluralismo sociale cui faceva riferimento l’impostazione romaniana, presa (invece) a paradigma di riferimento.

In secondo luogo, è davvero difficile avvertire una riemersione del diritto naturale. Leggere le costituzioni come diritto naturale positivizzato è un errore: ciascuna di esse è pur sempre ius positum ed è quel che è perché è il frutto di una specifica storia e di specifici rapporti di forza, sempre rivedibili. E, confesso, lascia davvero interdetti la tesi che il rapporto fra diritto positivo e diritto naturale sarebbe stato messo in discussione dall’emersione, nel processo di Norimberga, di «criteri normativi superiori alla legge dello Stato», capaci di impedire i crimini «contro i principi e i valori universali dell’umanità»[175], quando quel processo (come quello di Tokyo) fu la massima espressione della Machtpolitik statale (è noto, ad esempio, che l’imputazione per gli indiscriminati bombardamenti su obiettivi civili sparì perché, altrimenti, avrebbe coinvolto anche chi aveva raso al suolo Dresda e peggio ancora aveva fatto con Hiroshima e Nagasaki)[176].

La complessità dell’atto interpretativo. Il cognitivismo giuridico non immagina – e l’abbiamo già accennato – che l’operazione dell’interpretare giuridico sia operazione semplice o meccanica. Proprio noi giuristi dobbiamo considerare un serio ammonimento il mito platonico della caverna esposto ne La Repubblica[177]. Attraverso la metafora della caverna, l’errore è plasticamente rappresentato come una falsa rappresentazione dell’oggetto, difettosamente percepito dai sensi, ma la questione della “vera” conoscenza è messa in collegamento proprio con quella dell’imperfetta conoscenza attraverso il diritto. Platone, infatti, espressamente lamenta la triste condizione di chi, uscito dalla caverna nella quale era incatenato (e dalla quale percepiva solo le ombre del reale) e fatta l’esperienza del vero, sia costretto a discutere «nei tribunali» («en dikasteríois») dell’«ombra della giustizia» («perí tón tou dikaíou skión») e di come interpreta («upolambánetai») questi problemi chi non ha conosciuto la giustizia in sé. Parrebbe quasi imposto uno stigma sulla conoscenza attraverso il diritto, capace di afferrare solo ombre e nulla più: un autentico paradigma di conoscenza debole, imperfetta, distorta (la caverna, insomma, quasi come epitome dell’universo del diritto).

La difficoltà dell’interpretazione giuridica è dunque conosciuta sin dalle prime indagini gnoseologiche ed epistemologiche. Il diritto positivo e la giurisprudenza che riconoscono l’ipotesi dell’oscurità insuperabile del testo non fanno altro che instradarsi in quel solco e, abbracciando quell’idea, costruiscono un’ulteriore prova dell’infondatezza del creazionismo giuridico: se la creazione giudiziale della norma fosse possibile, infatti, l’oscurità della legge non sarebbe mai un ostacolo degno d’attenzione, perché nessun pregiudizio potrebbe soffrirne il giudice creator[178].

Dall’interpretazione non può certo pretendersi l’identificazione di una e una sola lettura corretta delle norme giuridiche, ma si può e si deve pretendere l’identificazione almeno dell’universo delle possibilità interpretative, cioè dell’universo dei possibili significati di quelle norme, indicando anche quale, tra quei significati “possibili”, sia più “plausibile” e dunque “probabile”. L’accertamento di tali significati è il contenuto di un atto cognitivo e aletico è l’enunciato del giudice che li espone. Negarlo significa negare la concepibilità stessa dell’errore di diritto, ma, con esso, l’esistenza stessa di una giurisdizione che voglia rimanere saldamente assisa sui presupposti logici, istituzionali e politici della sua legittimazione.

[*] Relazione al Convegno «Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo», Modanella, 24-25 maggio 2019.

[1] La terminologia è simile a quella di L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giudiziario, Mucchi, Modena, 2018. Preferisco parlare, però, di creazionismo “giuridico” (e non “giudiziario”) perché la questione riguarda tutti gli interpreti e non il solo giudice (per quanto i creazionisti lo collochino su un piano di assoluto spicco).

[2] Anche L. Ferrajoli, op. ult. cit., p. 22, distingue due tipi di creazionismo («in senso proprio o forte» e «in senso improprio o debole»), affermando che il primo rivendica «il potere del giudice di creare nuovo diritto, al di là della legge e perfino contro la legge» e il secondo si limita a postulare «l’ampia discrezionalità interpretativa, e perciò argomentativa, inevitabilmente connessa all’applicazione della legge». A mio avviso, come appresso si vedrà, la distinzione corre lungo la linea che separa chi ritiene che l’interpretazione sia “logicamente” creativa di norme e chi ritiene che l’interpretazione (specie giudiziaria) abbia occasionali “momenti” creativi.

[3] Mi riferisco, nel testo, alla dottrina italiana. Anche in altre esperienze giuridiche, però, si registrano inclinazioni culturali simili, alimentate soprattutto dall’approccio neocostituzionalista all’analisi dell’odierno mondo del diritto. Per una visione (lucidamente) critica, invece, da ultimo, C. Yannakopoulos, La déréglementation constitutionnelle en Europe, Sakkoulas, Atene-Salonicco, 2019, passim.

[4] In questo senso, da ultimo, G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2018, p. 20.

[5] F. Patroni Griffi, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, in Lo Stato, n. 12/2019, p. 369 (corsivo mio).

[6] Ivi, p. 376: affermando che «nella fisiologia la produzione del diritto spetta al legislatore», infatti, si dà per scontato che la creazione giudiziaria sia una contingente patologia, sia pure – diciamo così – “a fin di bene”.

[7] E. Zitelmann, Die Möglichkeit eines Weltrechts, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia, 1916 (ristampa dell’edizione del 1888, con una postfazione), pp. 10 ss.

[8] Id., Irrtum und Rechtsgeschäft. Eine psychologisch-juristische Untersuchung, Duncker & Humblot, Lipsia, 1879, p. 320.

[9] Ivi, p. 323.

Si deve segnalare, però, il singolare atteggiarsi di questo stesso “nulla” in quegli ordinamenti in cui il processo civile si ispira al modello inquisitorio e – dunque – rende il giudice dominus della ricerca della “verità” (sul punto, L.P. Comoglio, Istruzione e trattazione nel processo civile, in Dig. disc. priv., vol. X, Utet, Torino, 1993, p. 233). Dispone, infatti, il §138 della Zivilprozessordnung che «Eine Erklärung mit Nichtwissen ist nur über Tatsachen zulässig, die weder eigene Handlungen der Partei noch Gegenstand ihrer eigenen Wahrnehmung gewesen sind».

[10] Ivi, p. 326. La distinzione fra errore e ignoranza appare logicamente ineccepibile. Curiosamente, non sempre risulta recepita dall’odierna giuscivilistica (vds., ad esempio, C. Rossello, Errore nel diritto civile, in Dig. disc. priv., vol. VI, Utet, Torino, 1991, pp. 510 ss.).

[11] Metafisica, IX, 1051b.

[12] Metafisica, loc. cit.

[13] Quaestiones disputatae. De Malo, q. III, De causa peccati, art. VII.

[14] Di rilievo anche la disposizione dell’art. 1969, a tenor del quale «La transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti». Qui si anticipa, sul piano della disciplina dei rapporti sostanziali, la medesima conclusione che si deve raggiungere anche sul terreno dei rapporti processuali.

[15] Recante «Ratifica ed esecuzione: a) del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica del Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due dichiarazioni comuni; b) dell’accordo di adesione della Repubblica italiana alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell’Italia e della Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l’atto finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei Ministri e Segretari di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell’accordo di adesione summenzionato; c) dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell’accordo di cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990».

[16] Recante «Ratifica ed esecuzione della convenzione basata sull’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea che istituisce un Ufficio europeo di polizia (EUROPOL), con allegati, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, ed il protocollo concernente l’interpretazione, in via pregiudiziale, della medesima convenzione, da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee, con dichiarazione, fatto a Bruxelles il 24 luglio 1996».

[17] Il comma 2, a sua volta, dispone che «Se questi dati contenenti errori di diritto o di fatto risultano da una trasmissione effettuata in modo non corretto o dal mancato rispetto degli obblighi previsti dalla presente convenzione da parte di uno o più Stati membri ovvero da una memorizzazione o trattamento illecito o effettuato in modo non corretto da parte dell’Europol, quest’ultimo o lo Stato membro ovvero gli Stati membri sono tenuti al rimborso, su richiesta, delle somme versate a titolo d’indennizzo, a meno che i dati non siano stati utilizzati dallo Stato membro sul cui territorio è stato commesso il danno in violazione della presente convenzione».

[18] Recante «Ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, con atto finale ed allegati, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma, il 17 luglio 1998». Di tale legge interessa anche l’art. 81, ove si prevede che l’appello del procuratore o del condannato in primo grado possa essere proposto – fra l’altro – per «errore di fatto» o per «errore di diritto».

[19] Recante «Modalità per la presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive e all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 3, comma 136, della legge 23 dicembre 1996, n. 662».

[20] Cass. pen., sez. III, 21 novembre 2016, n. 49266 (ma prima, sez. I, 14 ottobre 1992, n. 11360; sez. VI, 5 febbraio 2003, n. 36346). Vds. anche Cass. pen., sez. VI, 19 giugno 2015, n. 25941, e Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2015, n. 14011: «Deve essere considerato errore sulla legge penale, come tale inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa, dovendosi intendere per “legge diversa dalla legge penale”, ai sensi dell’art. 47 cod. pen., quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale, o da questa non richiamata neppure implicitamente».

[21] Cass. pen., sez. I, 28 gennaio 2009, n. 3841.

[22] Cass. pen., sez. III, 19 marzo 2015, n. 29080.

[23] G.F. Puchta, Cursus der Institutionen, a cura di U. Rudorff, Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1853, quarta edizione (trad. it. di A. Turchiarulo, Corso delle istituzioni, vol. II, All’Insegna del Diogene, Napoli, 1854, p. 53).

[24] I commi 3 e 3-bis, a loro volta, dispongono che «Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione» (comma 3) e «Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea» (comma 3-bis).

[25] Vds. art. 2, comma 2, d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109 (recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150»), a tenor del quale, «Fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m), n), o), p), cc) e ff), l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare». È importante notare che, in armonia con quanto previsto dalle norme sulla responsabilità civile del magistrato, anche in quelle sulla responsabilità disciplinare si stabilisce ch’essa è causata dalla «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile» (così il precedente comma 1, lett. g).

[26] Vds. art. 11, comma 2, d.lgs 5 aprile 2006, n. 160 (recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della L. 25 luglio 2005, n. 150»), a tenor del quale «La valutazione di professionalità (...) non può riguardare in nessun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove».

[27] Cfr. P. Voci, Errore (Diritto romano), in Enc. dir., vol. XV, Giuffrè, Milano, 1966, pp. 234 ss.

[28] Cfr. E. Cortese, Errore (Diritto intermedio), ivi, p. 243 (che mette in luce anche alcune tendenze, rimaste minoritarie, alla «accezione a fondo morale dell’error»).

[29] Per quella processualpenalistica, vale l’art. 606, comma 1, cpp, a tenor del quale «Il ricorso per cassazione può essere proposto per i seguenti motivi:

  1. esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri;
  2. inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale;
  3. inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza;
  4. mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’articolo 495, comma 2;
  5. mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame».

Su questa previsione normativa la giurisprudenza si è – ovviamente – più volte soffermata, statuendo, ad esempio, che «Il vizio di cui all’art. 606, comma primo, lett. b) cod. proc. pen. riguarda l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto fattispecie astratta), e va tenuto distinto dalla deduzione di un’erronea applicazione della legge in ragione di una carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, denunciabile sotto l’aspetto del vizio di motivazione» (Cass. pen., sez. V, 7 ottobre 2016, n. 47575) e che «In tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325, comma primo, cod. proc. pen., rientrano la totale mancanza di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità o la incompletezza di motivazione, le quali non possono denunciarsi nel giudizio di legittimità nemmeno tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice, posto che questo richiede la “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità” della motivazione» (Cass. pen., sez. V, 11 gennaio 2007, n. 8434; già prima, sez. unite pen., 28 gennaio 2004, n. 5876; più di recente, Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2014, n. 50946).

[30] A tenor del quale la revocazione delle sentenze «pronunciate in grado d’appello o in unico grado» è ammessa «se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

[31] Vds. già L. Mattirolo, Istituzioni di diritto giudiziario civile italiano, Bocca, Torino, 1888, p. 309 (corsivo nell’originale), per il quale si davano «quella [la revocazione] per gli errori di fatto, questo [il ricorso per cassazione] per gli errori di diritto», nonché L. Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura Civile, vol. IV, Vallardi, Milano, 1918 (terza edizione riveduta), p. 491, che poneva il confine tra ricorso per cassazione e revocazione sulla linea che divide le «questioni di diritto» e «quelle di fatto».

[32] Va ricordata, però, la posizione di G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, sez. I, Jovene, Napoli, 1936 (seconda edizione), p. 597, che voleva devolute alla cognizione della Corte di cassazione anche quelle generali questioni di fatto che si risolvono sulla base delle «massime di esperienza».

[33] Cass. civ., sez. V, 4 novembre 2016, n. 22433 (e, precedentemente, cass. civ., sez. lav., 12 giugno 2014, n. 13335). Non dissimilmente, nella giurisprudenza contabile, riprendendo alcuni passaggi di Cass. civ., sez. unite, 27 dicembre 2017, n. 30996, si è detto che il vizio revocatorio «riguarda (…) l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, con l’esclusione del vizio che, nascendo da una falsa percezione di norme che contemplino la rilevanza giuridica di questi stessi fatti, integri gli estremi dell’error iuris, “… sia che attenga ad obliterazione delle norme medesime, riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione, sia che si concreti nella distorsione della loro effettiva portata, riconducibile all’ipotesi della violazione”» (così, da ultimo, Corte dei conti, sez. III app., 3 ottobre 2018, n. 363).

[34] È stato infatti rilevato che, al n. 3, l’errore d’interpretazione si manifesta essenzialmente nella fattispecie della «violazione» (che è un errore di individuazione del significato della norma), mentre in quella della «falsa applicazione» il vizio non riguarda l’interpretazione della norma (della quale è stata «individuata esattamente la portata precettiva»: F.P. Luiso, Diritto processuale civileIl processo di cognizione, vol. II, Giuffrè, Milano, 2017, nona edizione, vol. II, p. 427), ma semplicemente la sua utilizzazione per una fattispecie “sbagliata”.

Questa opinione, però, non è unanimemente condivisa e, movendo dalla «struttura sillogistica della sentenza», s’è detto che l’errore che la vizia può riguardare la premessa di diritto, la premessa di fatto o l’illazione (F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, vol. II, Il Foro Italiano, Roma, 1951, quarta edizione, p. 184), concludendo nel senso che la falsa applicazione è un «errore nella illazione» (ivi, p. 186; corsivo nell’originale).

È stato infine osservato che le due ipotesi, pur differenziabili in linea teorica, ben difficilmente si distinguono sul piano pratico: C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematicheLa fase di cognizione nella tutela dei diritti, vol. II, Giappichelli, Torino, 2008, p. 468.

[35] La nullità potendo dipendere sia da un errore nell’interpretazione della norma processuale, sia da un mero comportamento antigiuridico del giudice.

In giurisprudenza s’è detto che «Questo tipo di censura non costituisce un’ipotesi di violazione di legge, perché non è denunciato un errore nell’interpretazione della norma, né un’ipotesi di falsa applicazione di legge, perché la fattispecie non è stata sussunta sotto altra norma diversa da quella invocata»: Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2016, n. 22446.

[36] Così, ad esempio, C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civileIl processo di cognizione, vol. II, Giappichelli, Torino, 1998 (dodicesima edizione), pp. 439 ss.

[37] È stato osservato che quello di cui al n. 5 «è un errore di ragionamento che si innesta sulla corretta percezione delle risultanze processuali» e, affliggendo – appunto – il ragionamento e non la percezione, non è errore revocatorio (che «è un errore di percezione»): così F.P. Luiso, Diritto processuale civile, op. cit., p. 503.

[38] Vds, ancora, C. Mandrioli, Corso, op. cit., p. 440.

[39] P. Calamandrei, Processo e democrazia. Conferenze tenute alla Facoltà di diritto dell’Università nazionale del Messico, Cedam, Padova, 1954, p. 21. Il volume è stato ora meritoriamente ripubblicato, in forma anastatica, in appendice a E. Bindi – T. Groppi – G. Milani – A. Pisaneschi (a cura di), Processo e democrazia. Le conferenze messicane di Piero Calamandrei, Pacini, Pisa, 2019.

[40] P. Calamandrei, Processo, op. cit., p. 24. Ovviamente, non va dimenticato che lo stesso Calamandrei criticava nettamente la concezione sillogistica della decisione giudiziaria («Ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire impoverirla, inaridirla, disseccarla»: ivi, p. 63). Tuttavia, l’osservanza della logica era essenziale anche nella sua concezione, come dimostra il fatto che, a suo avviso, per impugnare una sentenza occorre andare alla ricerca della «sottile frattura logica» che eventualmente l’attraversi (ivi, p. 97).

[41] Anche penale: cfr., ad esempio, Cass. pen., sez. IV, 5 agosto 2016, n. 34510.

[42] Cass. civ., sez. V, 23 ottobre 2013, n. 24015.

[43] C. Rossello, Errore, op. cit., p. 511.

[44] A. Cataudella, I contratti. Parte generale, Giappichelli, Torino, 2019 (quinta edizione), p. 111.

[45] Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2018, n. 23196 (ord.).

[46] Cass. civ., sez. unite, 14 marzo 2018, n. 6336 (ord.).

[47] C. Rossello, Errore, op. cit., p. 512.

[48] A. Cataudella, I contratti, loc. cit.

[49] Così, ad esempio, Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2004, n. 10815. Si è parlato anche «di una svista nella lettura degli atti o di una falsa percezione della realtà» (C. conti, sez. I app., 24 marzo 2004, n. 120).

[50] P. Calamandrei, Processo, op. cit., p. 52.

[51] L. Mortara, Commentario, op. cit., p. 504.

[52] Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2019, n. 1340. Vds. anche, però, ex multis, sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599; sez. IV, 26 febbraio 2015, n. 961; sez. IV, 28 giugno 2016, n. 2883; sez. IV, 2 novembre 2016, n. 4586; sez. IV, 4 gennaio 2018, n. 35; sez. IV, 5 novembre 2018, n. 6246; sez. IV, 7 novembre 2018, n. 6280; sez. IV, 6 dicembre 2018, n. 6914.

[53] Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2019, n. 2681. Adesivamente, da ultimo, Cons. Stato, sez. III, 7 maggio 2019, n. 2930.

[54] Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2019, n. 5805.

[55] Così, da ultimo, Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2019, n. 13851.

[56] Cass. civ., sez. VI-2, 26 aprile 2019, n. 11327 (ord.).

[57] Cass. civ., sez. V, 23 ottobre 2013, n. 24015, cit.

[58] Così Cass. civ., sez. II, 20 giugno 2008, n. 16966, la quale aggiunge che, «Secondo costante e coerente giurisprudenza non concreta, quindi, un errore “di fatto” la erroneità in linea di diritto della valutazione di una situazione processuale (cfr. Cass. n. 643 del 1979); l’inesatto apprezzamento delle risultanze del processo (cfr. Cass. n. 6007 del 1980); la valutazione da parte del Giudice di atti, documenti, prove ed alligazioni difensive in senso difforme da quello sostenuto dalle parti (cfr. Cass. n. 3143 del 1981, n. 6148/93; l’erronea interpretazione della domanda (cfr. Cass. n. 5463 del 1982); l’omessa pronuncia su di un motivo di appello o sulla intera impugnazione (Cass. n. 2119 del 1968)».

[59] Cass. civ., sez. II, 20 giugno 2008, n. 16966.

[60] Cass. civ., sez. VI, 21 luglio 2011, n. 16003 (ord.).

[61] Cons. Stato, sez. III, 7 febbraio 2018, n. 782, ma con la precisazione che l’art. 112 cpc «è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo il quale l’omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile». Vds. anche Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2019, n. 1541, nonché Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2019, n. 5805, cit. («“non costituisce motivo di revocazione per omessa pronuncia il fatto che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste dalla parte medesima a sostegno delle proprie conclusioni” (cfr. Cons. Stato, ad. plen. 10 gennaio 2013, n. 1). E ciò in quanto l’omessa pronuncia su un vizio deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4774)»).

[62] Cons. Stato, sez. IV, 5 novembre 2018, n. 6246. Già prima, ad. plen., 22 gennaio 1997, n. 3, che ha inaugurato un indirizzo più largheggiante in materia di errore di fatto.

[63] Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2018, nn. 2530 e 2531.

[64] È, questo, un elemento differenziale rispetto a quanto statuito nella già ricordata sentenza Cons. Stato, ad. plen., n. 3 del 1997, nella quale la considerazione della domanda (allora, invero, si trattava di un’eccezione di inammissibilità) mancava del tutto, sia nel dispositivo che nella parte motiva della sentenza.

[65] Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 2016, n. 25560.

[66] Cons. Stato, sez. IV, 18 luglio 2018, nn. 4375 e 4376.

[67] Il caveat frequentemente formulato in giurisprudenza a tal proposito è condiviso in dottrina: cfr., ad esempio, A. Travi, Nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 22 gennaio 1997, n. 3, in Foro it., 1997, III, p. 389.

[68] «L’omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo, tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a., ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa; non rientrando l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un motivo del ricorso, nei casi tassativi di annullamento con rinvio, ne consegue che, in forza del principio devolutivo (art. 101, comma 2 c.p.a.), il Consiglio di Stato decide, nei limiti della domanda riproposta, anche sui motivi di ricorso non affrontati dal giudice di prime cure». Così Cons. Stato, sez. III, 7 febbraio 2018, n. 782, cit.

[69] Cass. civ., sez. unite, 3 maggio 2019, n. 11747.

[70] Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2018, n. 12215 (ord.).

[71] Già prima, peraltro, quest’affermazione era diffusa. Vds, ad esempio, Cass. civ., sez. III, 7 aprile 2016, n. 6791.

[72] Non è chi non veda come questa distinzione fra “ottimi” e “buoni” motivi sia a dir poco evanescente.

[73] M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir., Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, 2016, p. 419.

[74] Ivi, pp. 419 ss. Concetti solo in parte analoghi in P. Amselek, L’interprétation à tort et à travers, in Id. (a cura di), Interpétation et droit, Bruylant, Bruxelles, 1995, p. 12.

[75] Cass. civ., sez. unite, 8 maggio 2019, n. 12193.

[76] Cass. civ., sez. unite, 11 luglio 2011, n. 15144.

[77] Sentenza n. 230 del 2012.

[78] Cass. civ., sez. unite, 12 febbraio 2019, n. 4135. Su questo delicato tema, nel quale la questione dell’impossibilità di riconoscere alle pronunce giurisdizionali la qualifica di “fonti” emerge a tutto tondo, mi permetto di rinviare a M. Luciani, Diritto giurisprudenziale e certezza del diritto, in Lo Stato, n. 12/2019, pp. 356 ss.

[79] L. Ferrajoli, Contro il creazionismo, op. cit., pp. 10 ss.

[80] In questo senso, correttamente, L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democraziaTeoria del diritto, vol. I, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 881.

[81] Lo ribadisce, da ultimo, R. Guastini, Prima lezione sull’interpretazione, Mucchi, Modena, 2019, pp. 13 ss.

[82] Mi permetto di rinviare ancora a M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., spec. pp. 436 ss.

[83] Sono parole di P. Grossi, Costituzionalismi tra “moderno” e “pos-moderno”. Tre lezioni suor-orsoliniane, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 81. Sono sovente in dissenso dalle posizioni pur finemente argomentate da Paolo Grossi. Non, però, su questo punto.

[84] Diversa l’impostazione di L. Ferrajoli, Contro il creazionismo, op. cit., p. 21, secondo il quale sarebbe scontato che «nella cognizione giudiziaria intervengono decisioni», cioè veri e propri atti di volontà. Nessuno può escludere che ciò avvenga in pratica, ma lo statuto teorico dell’interpretazione, a mio avviso, l’esclude, perché è pur sempre cognitivo (sebbene non condotto solo secondo le regole della logica formale) l’approdo cui perviene chi, identificate più interpretazioni plausibili, deve indicare (non “scegliere”) quella che l’è maggiormente.

[85] Vds., in particolare, V. Crisafulli, Disposizione (e norma), in Enc. dir., vol. XIII, Giuffrè, Milano, 1964, p. 196.

[86] Anche alcuni che, correttamente, affermano la natura cognitiva dell’interpretazione giuridica la danno per scontata: cfr., in particolare, L. Ferrajoli, Contro il creazionismo, op. cit., p. 11.

[87] «Il predicato di normatività appartiene non al testo (…), ma al suo significato», ha scritto un autorevole magistrato, Antonio Lamorgese, in un saggio non casualmente intitolato L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2016, pp. 115-128, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_09.pdf.

[88] G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 40; Id., La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 176.

[89] G. Zagrebelsky, La giustizia, op. cit., p. 41; analogamente, Id., La legge, op. cit., p. 175.

[90] Vds., ancora, M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., spec. pp. 399 ss.

[91] Ivi, p. 401.

[92] Ibid.

[93] Ivi, p. 407.

[94] Ivi, p. 403.

[95] Ivi, p. 407.

[96] Ivi, pp. 409 ss.

[97] Ivi, p. 403.

[98] Ivi, p. 415.

[99] Ivi, p. 418.

[100] Ivi, p. 421.

[101] Ivi, p. 429.

[102] L’evidente etimologia è da“a-lanthano”.

[103] Il grande bisogno di verità che s’avverte nel discorso pubblico è messo opportunamente in luce, di recente, da F. D’Agostini e M. Ferrera, La verità al potere. Sei diritti aletici, Einaudi, Torino, 2019.

[104] G. Giorgini, La città e il tiranno. Il concetto di tirannide nella Grecia del VII-IV secolo a.C., Giuffrè, Milano, 1993, passim.

[105] G. Alpa, Il ruolo nomofilattico della cultura giuridica, in Aa.Vv., La nomofilachia nelle tre giurisdizioni. Corte Suprema di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 138.

[106] A. Ruggeri, I rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e l’oscillazione del pendolo, in Consulta online, n. 1/2019, p. 176.

[107] Formalmente più cauta la posizione di M. Ruotolo, Quando il giudice deve “fare da sé”, in questa Rivista online, 22 ottobre 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/quando-il-giudice-deve-fare-da-se-_22-10-2018.php, laddove afferma che «neppure l’esigenza di rendere il testo legislativo compatibile con i principi costituzionali potrebbe giustificare una “torsione” dell’enunciato oltre il suo possibile orizzonte di senso». Formalmente, ripeto, perché le premesse da cui questo Autore prende le mosse (la distinzione fra disposizione e norma, il circolo ermeneutico, etc.) sono esattamente le stesse del creazionismo giudiziario e non consentono di tracciare una linea ferma tra interpretazione conforme a Costituzione e disapplicazione della norma di legge (che, invece, è l’obiettivo che l’Autore persegue).

[108] P. Calamandrei, Processo e democrazia, op. cit., pp. 52 ss.

[109] Mi riferisco, ovviamente, a G. Radbruch, Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in SJZ, 1946, pp. 105 ss.

[110] B. Ruthers, Die heimliche Revolution vom Rechtsstaat zum Richterstaat. Verfassung und Methoden. Ein Essay, Mohr-Siebeck, Tubinga (trad. it. di G. Stella, La rivoluzione clandestina. Dallo Stato di diritto allo Stato dei giudici, Mucchi, Modena, 2018, pp. 78 ss.) avanza la non peregrina ipotesi che, addossando al positivismo tutte le responsabilità dell’applicazione delle leggi naziste, la tesi di Radbruch abbia favorito l’autoassoluzione di chi – invece – operò per la loro massima espansione attraverso metodi assiologici e antipositivisti.

[111] Ne dicevo già in M. Luciani, Il “giusto” processo amministrativo e la sentenza amministrativa “giusta”, in Dir. proc. amm., 2018, pp. 36 ss.

[112] Si tratta della già citata sentenza Cass. civ., sez. unite, 8 maggio 2019, n. 12193.

[113] V’è, dunque, «la conseguente necessità di tener conto, nell’individuazione dei principi di ordine pubblico, del modo in cui i predetti valori si sono concretamente incarnati nella disciplina dei singoli istituti».

[114] Correttamente, peraltro, si aggiunge che, al fine di tener conto dell’interesse del minore, l’ossequio prestato al divieto di maternità surrogata «non esclude (...) la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d)».

[115] Sulle differenze fra attuazione e applicazione, mi permetto di rinviare a M. Luciani, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in G. Brunelli e G. Cazzetta (a cura di), Dalla Costituzione “inattuata” alla Costituzione “inattuale”? Potere costituente e riforme costituzionali nell’Italia repubblicana, collana Per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 103, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 31 ss.

[116] H. Vaihinger, Die Philosophie des Als Ob, Meiner, Lipsia, 1922, trad. it. di F. Voltaggio, La filosofia del “come se”, Ubaldini, Roma, 1967. Sul tema delle finzioni giuridiche, nella letteratura italiana, vds. lo sguardo d’insieme di E. Olivito, Contributo allo studio delle finzioni giuridiche nel diritto costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012.

[117] Così A. Vignudelli, Come un post scriptum. “Interpretazione e Costituzione” tra Prequel e Sequel, in G. Maniaci - G. Pino - A. Schiavello (a cura di), Costituzione, argomentazione, democrazia, in Diritto e questioni pubbliche, n. 14/2014, rispettivamente pp. 1027 e 1017-1018 (www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2014_n14/29-studi_Vignudelli.pdf), ma vds. anche E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Giappichelli, Torino, 1999, p. 534.

[118] Pone correttamente (anche) in termini di legittimazione della giurisdizione la questione del creazionismo giuridico L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2016, p. 16, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_03.pdf.

[119] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionaleL’ordinamento costituzionale italiano, vol. II, Cedam, Padova, 1984, p. 419.

[120] H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Springer, Berlino, 1925, trad. it. di J. Luther ed E. Daly, Dottrina generale dello Stato, Giuffrè, Milano, 2013, p. 526.

[121] H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Deuticke, Vienna, 1960, trad. it. di M.G. Losano, Dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1966, p. 386.

[122] C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker & Humblot, Berlino, 1996 (prima edizione: 1931), p. 36: occorre ribadire, ammoniva Schmitt, «daß es keinen bürgerlichen Rechtsstaat ohne unabhängige Justiz, keine unabhängige Justiz ohne inhaltliche Bindung an ein Gesetz, keine inhaltliche Bindung an das Gesetz ohne sachliche Verschiedenheit von Gesetz und Richterspruch gibt».

[123] A. Smith, Lectures on Jurisprudence, a cura di R.L. Meek - D.D. Raphael - P.G. Stein, collana The Glasgow Edition of the Works and Correspondence of Adam Smith, vol. V, Liberty Fund, Indianapolis (IN), ristampa dell’edizione del 1978 (Oxford University Press, Oxford), Lecture del 10 marzo 1763, vol V, par. 15, p. 275.

[124] Cfr., per tutti, A. Pizzorusso, Fonti del diritto, in F. Galgano (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-BrancaDisposizioni sulla legge in generale, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 2011, pp. 536 ss. e 705 ss. (i precedenti giudiziari sarebbero fonti-fatto: Id., Fonti (sistema costituzionale delle), in Dig. disc. pubbl., vol. VI, Utet, Torino, 1991, p. 413).

[125] Per qualche prima sollecitazione a una riflessione sul punto, vds. ancora M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., p. 412.

[126] «È, pertanto, solo un «diritto consolidato», generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo».

[127] Fra i molti, ad esempio, R. Guastini, Dalle fonti alle norme, Giappichelli, Torino, 1992 (seconda edizione), p. 109.

[128] N. Bobbio, La certezza del diritto è un mito?, in Riv. int. fil. dir., 1951, pp. 146 ss.

[129] Mi permetto di rinviare al mio Garanzie ed efficienza nella tutela giurisdizionale, in Dir. soc., n. 3/2014, pp. 466 ss.

[130] G. Alpa, Il ruolo nomofilattico, op. cit., p. 142.

[131] G. Canzio, Le buone ragioni di un memorandum, in Aa. Vv., La nomofilachia nelle tre giurisdizioni, op. cit., p. 32.

[132] G. Alpa, Giuristi e interpretazioni. Il ruolo del diritto nella società post-moderna, Marietti, Genova, 2017, p. 15.

[133] Così, ad esempio, G. Alpa, Manuale di diritto privato, Cedam, Padova, 2011, p. 608.

[134] L’Autore di cui si discute nel testo, anzi, è stato un protagonista nella costruzione della dottrina qui criticata: vds., in particolare, l’operazione culturale compiuta con la curatela di P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1973.

[135] P. Barcellona, Errore (Diritto privato), in Enc. dir., vol. XV, Giuffrè, Milano, 1966, p. 247.

[136] Ivi, p. 248.

[137] Ibid., nota 7.

[138] Quel che produce il legislatore, scrive ad esempio B. Celano, Due problemi aperti della teoria dell’interpretazione giuridica, Mucchi, Modena, 2017, p. 29, «sono mere stringhe di significanti (lettera “morta”)».

[139] M.F. Quintiliano, Institutio oratoria, Prohoemium, 16.

[140] E. Betti, Teoria generale della interpretazione, vol. I, edizione a cura di G. Crifò, Giuffrè, Milano, 1990, p. 1.

[141] La non-assolutizzazione delle stesse proposizioni scettiche è un’esigenza logica dello scetticismo. Già Sesto Empirico, in Πυρρωνείαι ὑποτυπώσεις, L. I, § 13, osservava che lo scettico «nemmeno dogmatizza nel proferire, circa le cose non-evidenti, le espressioni scettiche» (cito dalla trad. it. di O. Tescari, nell’edizione curata da A. Russo, Schizzi pirroniani, Laterza, Roma-Bari, 1988).

[142] A. Levi, Sceptica, Paravia, Torino-Milano-Firenze-Roma-Napoli-Palermo, 1921, pp. 15 ss.

[143] A. Rand, Introduction to Objectivist Epistemology, seconda edizione a cura di H. Binswanger e L. Peikoff, Penguin-Meridian, Harmondsworth (Londra), 1990, pp. 3 ss., che riprende una frase del suo stesso romanzo, Atlas Shrugged.

[144] F.K. von Savigny, Sistema del diritto romano attuale, L. I, trad it. di V. Scialoja, Utet, Torino, 1886-1898, p. 216.

[145] Il quale, tra l’altro ammetteva che, a fronte di testi normativi precisi, l’interprete fosse legato «alla chiara parola della legge» (H. Kantorowicz, La lotta per la scienza del diritto, trad. it. di R. Majetti, Sandron, Milano-Palermo-Napoli, 1908, p. 137).

[146] Infatti «dove c’è creazione non c’è interpretazione e dove c’è interpretazione non c’è creazione»: L. Ferrajoli, Contro il creazionismo, op. cit., p. 14.

[147] G. Figal, Gegenständlichkeit. Das Hermeneutische und die Philosophie, trad. it. di A. Cimino, Oggettualità. Esperienza ermeneutica e filosofia, Bompiani, Milano, 2012, p. 307.

[148] De homine, trad. it. di A. Pacchi, Laterza, Bari, 1970, pp. 139 ss.

[149] Ivi, p. 142.

[150] E infatti consideriamo tutti, senza distinzione, una vera e propria patologia le ipotesi in cui ci sembra che il legislatore abbia voluto normare in forma volutamente oscura, per non sciogliere un nodo politico aggrovigliatosi in sede parlamentare o governativa.

Questa natura comunicativa del diritto è riconosciuta anche di chi (B. Celano, Due problemi aperti, op. cit., pp. 29 ss.) muove da premesse assai diverse da quelle qui seguite.

[151] In questo senso, nella dottrina italiana più recente, ad esempio, A. Vignudelli, Interpretazione e Costituzione. Miti, mode e luoghi comuni del pensiero giuridico, Giappichelli, Torino, 2011, p. 52; M. Luciani, Interpretazione conforme, op. cit., p. 428.

[152] A. Levi, Sceptica, op. cit., p. 187. Certo, Levi prosegue dicendo che «ciò riguarda soltanto l’azione, non il pensiero, l’eticità, non la conoscenza; sinché mi fermo a questa, quindi, la concezione solipsistica può considerarsi come la più plausibile». Per chi nell’interpretazione giuridica collega intimamente conoscenza (interpretazione) e azione (applicazione), però, questa precisazione non potrebbe spostare le conclusioni raggiunte nel testo.

[153] Sebbene in Democrito si riconosca che anche il pensiero può sbagliare, ma per ragioni eminentemente fisiologiche (per un eccesso di caldo o di freddo dell’anima, che è formata da atomi ignei): A. Levi, Il problema dell’errore nella filosofia greca prima di Platone, in Athenaeum, 1930, ora in Id., Verità ed errore. Il problema dell’errore nella storia della filosofia dai Presocratici ai contemporanei, Victrix, Forlì, 2016, p. 9. Fra le testimonianze più significative del suo pensiero, vds. H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, trad. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2006, sub Democrito, A-49; A-105.

[154] A. Levi, La teoria stoica della verità e dell’errore, in Revue d’Histoire de la Philosophie, 1928, ora in Id., Verità ed errore, op. cit., p. 25. Fra le testimonianze più significative della relativa dottrina, Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, trad. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2006 (seconda edizione), L. VII, par. 93.

[155] Tale accezione morale (la connessione tra errore e peccato) si ritrova anche nel magistero della Chiesa cattolica. Come si legge nella Declaratio circa catholicam doctrinam de Ecclesia contra nonnullos errores hodiernos tuendam della Congregazione per la dottrina della fede del 24 giugno 1973, «In munere autem suo adimplendo, Ecclesiae Pastores assistentia Spiritus Sancti gaudent, quae apicem suum attingit, quando Populum Dei tali modo erudiunt, ut, ex promissionibus Christi in Petro ceterisque Apostolis datis, doctrinam necessario immunem ab errore tradant»: AAS 65 (1973), par. 3, pp. 396-408. Può parzialmente leggersi in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Dehoniane, Bologna, 2018, n. 4534.

[156] Novum Organum, L. I, n. 39. Cito, qui e in seguito, dalla trad. it. di E. De Mas, Mondadori, Milano, 2010.

[157] Ivi, L. I, n. 41. Si deve notare che la «inettitudine dei sensi» è compresa fra gli idola tribus (ivi, L. I, n. 52), sicché il difetto dei sensi è addirittura assorbito entro il difetto dell’intelletto.

[158] Ivi, L. I, n. 42.

[159] Ivi, L. I, n. 43.

[160] Ivi, L. I, n. 44.

[161] Invero, appaiono assai convincenti gli argomenti di A. Levi, Il problema dell’errore nella filosofia del Descartes, in Logos, 1928, ora in Id., Verità ed errore, op. cit., p. 89, a favore del fondamento dell’errore – sempre – in un difetto cognitivo: «se la mente non avesse idee oscure e confuse non potrebbe errare, inquantoché la volontà non avrebbe modo di abusare della libertà che possiede». Insomma, «in ultimo, l’errore appartiene all’intelligenza» (ivi, p. 94).

[162] Cfr. H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, op. cit., p. 483, framm. B.3 (corsivo mio).

[163] Ma risalente a Isaac ben Salomon Israeli: vds. la relativa indicazione da parte del curatore della Summa contra gentiles, trad. it. di T.S. Centi, Somma contro i gentili, Mondadori, Milano, 2009, p. 182, nota 2.

[164] Summa, op. ult. cit., L. I, cap. LIX. Cfr. anche Quaestiones disputatae. De Veritate, Q. I, Prologus, art. I: «Prima ergo comparatio entis ad intellectum est ut ens intellectui concordet: quae quidem concordia adaequatio intellectus et rei dicitur; et in hoc formaliter ratio veri perficitur».

[165] Summa, loc. cit.

[166] Così si scrive nell’Enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII: «Vos omnes, Venerabiles Fratres, quam enixe hortamur, ut ad catholicae fidei tutelam et decus, ad societatis bonum, ad scientiarum omnium incrementum auream sancti Thomae sapientiam restituais, et quam latissime propagetis». Ciò, peraltro, non significa monopolio dottrinale del Doctor Angelicus: gli «eccellenti meriti» delle «altre scuole» sono riconosciuti, ad esempio, dalla Bolla Apostolicae providentiae officio di Clemente XIII (1733), che può parzialmente leggersi in H. Denzinger, Enchiridion, op. cit., n. 2509.

[167] Disputationes metaphysicae, Disputatio VIII, De veritate seu vero, quod est passio entis. Ordo disputationis: «supponimus ex communi omnium consensu, veritatem realem consistere in adaequatione quadam seu conformitate inter rem et intellectum, sive sit conformitas intellectus ad rem, sive rei ad intellectum».

[168] Disputationes, loc. cit.

[169] Anselmo d’Aosta, De veritate, II, 110. «Affirmatio» è correttamente reso «enunciazione» da S. Vanni Rovighi, in Id., Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 137. Si noterà che in Anselmo la sovrapposizione tra “vero” e “giusto” è completa ed è anche lessicale, perché l’affermazione vera e giusta è “recta”. E, infatti, «rectitudo idem videtur mihi esse quod iustitia» (ivi, XII, 113).

[170] L’alternativa può essere posta, invero, oltre che fra cognitivismo e non-cognitivismo, fra oggettualismo e non-oggettualismo. In questo senso (e con favore per la seconda alternativa) S. Bertea, Certezza del diritto e argomentazione giuridica, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2002.

[171] P. Voci, Errore (Diritto romano), op. cit., p. 229.

[172] V. ancora F. Suárez, Disputatio IX, De falsitate seu falso, S. III, 19.

[173] G. Figal, Oggettualità, op. cit., p. 366, precisa: «Was ein Gegenstand ist, sagt das Wort selbst: Es ist das Entgegenstehende, das, was gegenüber ist und gegenüber stehen bleibt» («Che cosa è un oggetto? Lo dice la parola stessa: è ciò che si oppone, ciò che è di fronte e rimane di fronte»).

[174] Avanzata da Marco Mazzamuto nel Convegno in cui le cose qui scritte sono state esposte oralmente.

[175] G. Stanco, A vele spiegate verso nuovi traguardi: dal diritto codificato al diritto giurisprudenziale, in F. Ricci (a cura di), Principi, clausole generali, argomentazione e fonti del diritto, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2018, p. 26.

[176] Sulla questione, mi permetto di rinviare, da ultimo, al mio Dal caos all’ordine e ritorno, relazione al Convegno «Diritto e spazi politici», Salerno, 15 marzo 2019, in Liber amicorum Angelo Davì, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019.

[177] VII, 518.

[178] Né si potrebbe obiettare che quell’idea avrebbe un limitato raggio di applicazione, perché solo in materia penale vale il principio della riserva assoluta di legge ex art. 25 Cost., infatti: a) come si è detto, l’esimente dell’oscurità può valere (sia pure in altra forma) anche in campo non penale; b) la tesi della natura creativa della giurisprudenza è fondata su argomenti d’ordine teorico-generale, sicché non può logicamente ammettersi ch’essi siano neutralizzati opponendo argomenti di diritto positivo (come, pure, alcuni creazionisti fanno).