1. Quello che ha detto Giorgia Meloni e quello che diceva il Manifesto di Ventotene
A Giorgia Meloni non piace il Manifesto di Ventotene, anzi lo ritiene un libello di ispirazione totalitaria, che andrebbe consegnato ad una damnatio memoriae. Queste le sue parole: «Nella manifestazione che è stata fatta, sabato, a piazza del Popolo, anche in quest'Aula è stato richiamato da moltissimi partecipanti Il Manifesto di Ventotene. Ora, io spero che tutte queste persone, in realtà, non abbiano mai letto Il Manifesto di Ventotene, perché l'alternativa sarebbe francamente spaventosa. Però, a beneficio di chi ci guarda da casa e di chi non dovesse averlo mai letto, io sono contenta di citare testualmente alcuni passi salienti de Il Manifesto di Ventotene. Cito. Primo: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”. E fino a qui, va bene. “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente (…)”, caso per caso. “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente (…)”. “Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. (…) La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”. E Il Manifesto conclude che “esso” - il partito rivoluzionario - “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell'ancora inesistente volontà popolare, ma dalla - sua - coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà, in tal modo, le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato e, attorno ad esso, la nuova (…) democrazia”».
Rimandiamo per il momento di trattare della funzione e dei limiti assegnati alla proprietà privata, concentriamoci invece sulle ultime spiazzanti affermazioni del Manifesto, che negano il fondamento democratico della volontà popolare ed evocano la dittatura di un partito rivoluzionario.
Premettiamo che il Manifesto non si presenta come un hortus conclusus di coerenza intellettuale, ma semmai come una proposta di lavoro su cui operare, e infatti esso fu materia di discussione prima di tutto tra coloro che concorsero alla sua scrittura e poi con i confinati di Ventotene, molti dei quali, come vedremo, lo criticarono e pochi lo sottoscrissero (Spinelli stesso, nella sua autobiografia, parla di una crisi di rigetto). Di esso esistono diverse versioni, né ve ne è una che sia stata concordemente riconosciuta dagli Autori come definitiva. Anche il fine della costituzione del partito rivoluzionario fu rapidamente abbandonato, in favore della formazione di un movimento (il Movimento federalista europeo), che avrebbe dovuto essere trasversale alle forze politiche ricostituitesi, in particolare al Partito d’Azione e al Partito socialista, con l’invito rivolto da Spinelli a Rossi e Colorni di promuovere gli obiettivi del Movimento all’interno dei rispettivi partiti (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, ed. 1999, pp. 331 – 338); pur mantenendo il Movimento un profilo politico distinto che consisteva in ciò: che l’obiettivo di un’Europa Federale non era uno dei punti di un programma politico più ampio, ma il postulato fondamentale da cui muovere per perseguire qualunque programma politico.
In sostanza, per dirla con Galli Della Loggia, di cui ci occuperemo oltre, il Manifesto non è un totem, non è un oggetto di culto, ma essere critici non significa esserne detrattori.
Non va nemmeno sottaciuto che vi sono altri brani del Manifesto che potrebbero essere additati a prova di una scarsa considerazione delle garanzie democratiche nel corso di quella crisi rivoluzionaria che, nell’intenzione degli estensori, avrebbe dovuto portare non solo alla caduta dei totalitarismi, ma anche al sorgere di uno stato federale europeo. Innanzitutto il passaggio – e si tratta di un passaggio fondamentale - dove si afferma che: «la linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità - e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale».
Poi la critica alle tendenze democratiche il cui sogno è l’assemblea costituente e che accettano il rischio che «se il popolo è immaturo, se ne darà [di costituzioni] una cattiva», che danno vita a «una quantità di assemblee e rappresentanze popolari», «perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime», «danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli»; si logorano «nelle loro logomachie»; ricostruiscono «le istituzioni politiche pre-totalitarie».
Non si tratta di negare l’opinabilità o anche l’inaccettabilità di alcuni passaggi, ma di dare conto di essi, collocandoli nel contesto storico in cui il Manifesto fu scritto e nel percorso intellettuale dei suoi Autori.
Tuttavia, i passaggi che hanno destato lo scandalo della presidente Meloni sono bilanciati e in un certo senso contraddetti da altri brani del testo, a cominciare dal titolo (Per un’Europa libera e unita); vi è il richiamo al «valore permanente dello spirito critico», il riferimento alla necessità che si dia «alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale», l’affermazione della «libertà di stampa e di associazione per illuminare l’opinione pubblica». E ancora si legge che: «non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere».
Poco prima, in un altro passaggio, quel medesimo partito rivoluzionario che Spinelli ha in mente è chiamato a «collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo». Si tratta di brani che rassicurano sulla collocazione del Manifesto entro il perimetro del pensiero democratico.
2. Il percorso intellettuale di un giacobino e di un ex leninista
Per quanto riguarda la vicenda personale di Spinelli, sappiamo che egli aveva già fatto i conti con il pensiero politico di matrice terzinternazionalista, aveva preso le distanze dalla teoria del socialfascismo, aveva apertamente polemizzato con il collettivo dei detenuti comunisti del carcere di Viterbo, presentando un proprio ordine del giorno, che aveva ottenuto solo il suo voto: «noi dobbiamo criticare la forma che è sempre più venuta ad assumere il governo dell’Urss di dittatura del CC del P.C.R, il soffocamento sistematico delle opposizioni, a cominciare dall’espulsione di Troschi. Lo stato operaio deve vivere dei contrasti che in esso sorgono malgrado essi considerando ciò come un bene e non un male da eliminare. Colla linea politica attuale si corre il rischio che una opposizione proletaria non posa prendere altra via che quella illegale. A noi corre l’obbligo di ammonire i compagni Russi» (Criticare la dittatura dell’Urss. L’ordine del giorno Spinelli, in Critica liberale, VIII, 2001, p. 113).
Queste posizioni avevano fatto sì che egli fosse isolato dai compagni di partito ed espulso dal collettivo, prima a Viterbo e poi a Ponza (si veda la biografia di P. S. Graglia, Altiero Spinelli, Il Mulino, 2008).
Bisogna tenere presente che gli estensori muovevano da un quadruplice radicale scetticismo: verso gli stati liberali del periodo anteguerra, verso le formazioni politiche tradizionali e il loro retroterra ideologico, verso lo spontaneismo delle masse e la possibilità di sollevarle contro i totalitarismi, infine – e questo riassumeva tutti gli altri - verso la funzione storica dello stato nazionale, che si riteneva esaurita e che, se non fosse stata superata, avrebbe portato a nuove derive nazionaliste e militariste. Non si intende il Manifesto se non si parte da questa radicale sfiducia verso le strutture che la società civile e politica si era data entro i confini dello Stato nazionale, che è anche sfiducia nella possibilità che gli Stati nazionali possano evolversi naturalmente verso forme federali.
C’erano delle ragioni storiche che la giustificavano: le democrazie sorte dalla prima guerra mondiale avevano mostrato di non disporre di anticorpi adeguati per evitare la deriva verso il totalitarismo, che si era innestato proprio sul nazionalismo e sull’espansionismo perseguito delle classi dirigenti liberali; il movimento comunista si identificava ormai con la spregiudicata politica di Stalin che non arretrava nemmeno di fronte a patti con il diavolo; i partiti antifascisti messi fuori legge e perseguitati dal fascismo parevano come i capponi di don Abbondio e non erano in grado di pervenire a un qualche accordo politico e organizzativo; il fascismo cadde ad opera di una congiura ad esso interna e di un colpo di stato monarchico, e, quantomeno quando fu stilata la prima versione del Manifesto, non vi era nessun segno di protesta popolare contro il regime; la Società delle Nazioni era stata travolta dal precipitare degli eventi e l’ordine internazionale restava sottoposto alla regola del più forte.
Noi che restiamo saldi nelle convinzioni democratiche in un tempo in cui democraticamente si eleggono, in giro per il mondo, una persona un po’ esuberante che si mostra in pubblico armato di motosega e un ricco tycoon che pensa che gli immigrati mangino i gatti, possiamo almeno, se non giustificare politicamente, almeno umanamente comprendere lo scoramento di chi vide gli abitanti della Saar votare massicciamente per l’unificazione con la Germania nazista, invece che per il mantenimento dell’amministrazione della Società delle Nazioni o per l’unificazione con la Francia, facendo prevalere quindi il fattore nazionale su quello delle libertà.
Domandarsi quale sia la matrice culturale degli assunti che abbiamo sopra succintamente riportato significa affrontare la questione filologica di quale sia stato il contributo di Ernesto Rossi (oltre che quello di Eugenio Colorni) alla stesura del Manifesto rispetto a quello di Altiero Spinelli, di come vi sia stata convergenza tra il riconosciuto giacobinismo del primo e il residuo di leninismo del secondo (su questo tema si possono leggere i contributi di A. Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Il Mulino, 2007 e Le parole di Ventotene. Per un’analisi storico-critica del Manifesto di Ventotene, Eurostudium, luglio-dicembre 2020).
Quanto a Spinelli non si tratta di vedervi la persistenza dell’adesione, per quanto declinante e dubitativa, a una ideologia che non era più la sua, ma la sopravvivenza di schemi mentali e lessicali derivati dal dibattito interno ai partiti della Terza Internazionale.
Permane l’idea che esista un durante e un dopo il processo rivoluzionario, con minore considerazione, di fronte al finalismo dell’azione, delle garanzie democratiche nella prima fase. Si può anche cogliere, nel riferimento agli organi popolari che si formano spontaneamente e che devono essere utilizzati nella crisi rivoluzionaria (poco prima del passaggio sul partito rivoluzionario), un’eco del dibattito sui consigli (e sul rapporto che dovevano avere col partito), che tanto affannò il movimento comunista italiano e internazionale.
Permane poi, in particolare, il tema della relazione tra partito e masse e l’idea del partito come avanguardia, di contro alla spontaneità delle masse, che è risolta in una visione verticista: il partito rivoluzionario «dalla sfera via via crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del movimento solo coloro che hanno fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita; che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il necessario lavoro, provvedano oculatamente alla sicurezza continua ed efficace di esso, anche nelle situazioni di più dura illegalità».
Qui Spinelli, che probabilmente è debitore di Rossi più di quanto a prima vista potrebbe apparire, resta un passo indietro rispetto alle riflessioni di poco anteriori di Gramsci sulla dialettica tra spontaneità e «direzione consapevole» in un passo famoso dei Quaderni dal carcere (Passato e presente. Spontaneità e direzione consapevole), dove i due momenti non sono rigidamente separati, ammettendosi che elementi di coscienza possano sussistere anche nei movimenti spontanei.
Quanto al giacobinismo di Rossi, vi è un passaggio della biografia di Spinelli, che lo chiama in causa: per Rossi «anche la più liberale e democratica delle società ha al suo inizio una dittatura, aperta o coperta, di alcuni, che si propongono di educare… Ernesto li chiamava tutti giacobini… Ma una società diventa stabile e solida solo se l’azione giacobina riesce ad ottenere l’adesione volonterosa ai suoi valori. La critica fondamentale sua alla dittatura comunista non era perciò di essere una dittatura, ma di esserne una che proponeva di creare e creava una società capace di funzionare solo con un regime dispotico permanente» (Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 303).
Il giudizio corrisponde a quello dato da un altro giellista confinato, Francesco Fancello. Secondo Fancello, Rossi era dell’opinione che: «esistevano due metodi per modificare la realtà, quello democratico, basato sul consenso e sulla persuasione, o quello giacobino, basato sulla coazione. Nessuna regola del gioco, neppure quella democratica, poteva avere, a suo giudizio, un valore assoluto per i sostenitori di una politica liberale. Nei periodi di emergenza, per costruire o difendere gli istituti democratici, anche i sostenitori di una politica liberale dovevano saper usare la coazione… Ciò implicava la costituzione di un partito rivoluzionario – non su base classista, ma raccolto intorno a certi comuni ideali di civiltà – che, una volta ottenuto il potere, fosse disposto a mantenerlo, anche “contro la legittimità formale della maggioranza” per tutto il tempo necessario a dar vita al nuovo ordine… Egli non condivideva il giudizio di Bauer e Fancello, secondo cui la prima cosa da fare, dopo la caduta del fascismo, fosse l’indizione immediata di libere elezioni e della costituente» (A. Braga, Un federalista giacobino, p. 194).
Secondo Rossi, il liberalismo non coincideva con il rispetto, in ogni circostanza, di una regola puramente formale del gioco politico; lo Stato liberale era, come gli altri, un ordinamento teso a forgiare gli uomini in una data direzione e secondo dati valori (idem, p. 197).
E’ questo giacobinismo di Rossi il tratto saliente che perdura nel tempo e che si spiega alla luce dell’obiettivo perseguito. Ancora nel 1943, in un articolo per l’Unità Europea, Rossi afferma che la premessa dell’attuazione degli Stati Uniti d’Europa non può essere la formazione di una coscienza europea «giacché nessuna persona di buon senso [poteva] seriamente pensare che tale formazione [fosse] conseguibile in un breve periodo di tempo»; bisognava «appoggiare le classi dirigenti di queste o quelle potenze vincitrici che daranno più affidamento» (idem, p. 209).
Se pensiamo ai modi con cui fu approvata la Costituzione, allora provvisoria, della Repubblica Federale Tedesca, possiamo dare un senso storico al giacobinismo di Rossi. Ed è probabilmente la fase dell’occupazione militare dell’Europa, dopo la caduta del nazismo, quella che Rossi aveva in mente per ammettere qualche forzatura del gioco democratico, col sostegno in particolare delle forze progressiste britanniche, rimandando alla convocazione di una costituente europea in luogo di quelle nazionali (A. Braga, Le parole, cit., p. 161). E possiamo anche vedervi, per ironia della sorte, una vena di difesa delle istituzioni libere dalle minacce totalitarie di qualunque origine, anche comuniste.
I riferimenti storici di Rossi erano del resto la Glorious Revolution inglese del 1688 e la convenzione americana del 1787, cioè atti che rompevano con la preesistente continuità costituzionale e, anche tramite la violenza, fondavano una nuova legittimità. Per A. Braga (Le parole, cit, p. 164), «Hamilton, Jay e Madison avevano, infatti, saputo andare ben al di là dei limitati compiti di riforma loro assegnati dai rispettivi Stati, dando vita alla nuova Costituzione federale».
3. Le critiche di Meloni erano già state espresse, sin dall’inizio, e da diverse angolazioni
Tutto ciò premesso, l’affondo di Meloni non aggiunge nulla perché tutto era già stato detto.
Non c’è nulla di nuovo anche perché l’errore fu riconosciuto. Nell’autobiografia (Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 312) Spinelli scrive: «tutta la parte finale che invocava la necessità di un partito rivoluzionario federalista si è anche rivelata caduca, perché l’esigenza, giusta, di una guida consapevole della necessità di guidare e non di seguire le masse ed i loro moti, era espressa ancora in termini troppo rozzamente leninisti», tema che sarà riproposto anche in una lettera di Spinelli a Guglielmo Usellini, (citata da P. S. Graglia, in Altiero Spinelli, cit. p. 220).
Non c’è nulla di nuovo perché critiche non dissimili furono rivolte già durante il confino, dai compagni di Giustizia e Libertà.
Riccardo Bauer si disse «allibito» in quanto nel Manifesto si sosteneva l’esigenza di una dittatura rivoluzionaria che, dopo l’avvento del nuovo potere, si mantenesse in carica per un certo tempo per studiare e preparare «un ordinamento democratico da octroyer, nei suoi perfetti lineamenti, al popolo finalmente sovrano» (da Arturo Colombo, Da Giustizia e libertà al Partito d’Azione attraverso i ricordi inediti di Riccardo Bauer, cit. da A. Braga, p. 189). Per Bauer era da respingere «qualsiasi piano costruttivo che partisse da un’astratta premessa, tendente a forzare le soluzioni, suggerite più che da una realistica valutazione politica da geometrico spirito illuministico». Era opinione di Riccardo Bauer e Francesco Fancello che «l’europeismo autoritario di Rossi e Spinelli fosse inquinato da quei medesimi germi che avevano portato ai regimi totalitari. Anche in questo caso, per ironia della sorte, Fancello accusò Rossi di “neofascismo”» (in tal senso la polemica scritta fra Rossi e Fancello, cit. da A. Braga, p. 193, nt. 137).
Non vi è nulla di nuovo, perché vi è anche una critica “da sinistra” al Manifesto. Se ne fa interprete Wu Ming 1 in La Macchina del vento, Einaudi, 2019, ascrivendo tutte le colpe al leninista (anzi allo «scomunista» Altieri). L’io narrante, un giovane socialista confinato a Ventotene, motiva le ragioni della mancata adesione al Manifesto: «Mi allontana da voi la vostra idea di azione dall’alto da parte di un nucleo di illuminati che si autoproclama avanguardia dell’unico vero partito rivoluzionario della nuova epoca, che sarebbe quello federalista europeista… Mi allontana da voi il tono irridente verso chi crede nell’azione democratica e dal basso… voi prefigurate una fase di transizione in cui si dovrebbe accantonare l’illusione nel processo democratico…State proponendo una specie di forma leninista, persino esasperata, seppur messa al servizio di una causa diversa».
Non c’è nulla di nuovo, infine, perché tutto era già stato messo a verbale. C’è un appunto della Questura di Roma, datato 16 novembre 1941, riferito al fratello Cerilo, ove si riferisce di un gruppo di giovani, che si preparano «ad affrontare il “domani” considerando che l’Italia soccombesse alla guerra intrapresa… All’uopo fu compilato un programma in cui erano esposti i concetti di una cosiddetta “libertà armata” e cioè … per difendersi contro qualsiasi attacco di destra e di sinistra, di fascismi e di nazismi o comunismi e che avrebbe dovuto costruire il socialismo, capovolgendo la vecchia formula “dittatura del socialismo per l’avvento della libertà”, nella formula nuova “dittatura della libertà per la presente costruzione del socialismo» (citato da Giulia Vassallo in Il Manifesto di Ventotene: premesse per un’edizione critica, Eurostudium, aprile – giugno 2021, p. 30) .
Stupisce che un poliziotto del regime avesse questa capacità di ragionare per similitudini e differenze, di cui pare sprovvista oggi la nostra Presidente del Consiglio.
Poiché non c’è nulla di nuovo, dobbiamo ritenere, come del resto è ovvio, che Giorgia Meloni perseguisse un fine non di analisi storico critica del testo, ma eminentemente politico e che la citazione isolata di singoli passaggi del Manifesto fosse a ciò strumentale.
4. La controversia sul Manifesto in due precedenti notevoli. Un milieu culturale?
Per capire quale fosse il vero obiettivo, possiamo rivolgere lo sguardo a quanto hanno scritto Luca Ricolfi (Sinistra e popolo, Longanesi, 2017) ed Ernesto Galli della Loggia (Gli errori e la speranza, in G. Amato, E. Galli della Loggia, Europa perduta?, Il Mulino, 2014), perché entrambi hanno anticipato nei loro scritti le critiche rivolte al Manifesto da Meloni. Possiamo ipotizzare che soprattutto il lavoro del secondo costituisca l’humus culturale in cui è maturato l’intervento della Presidente del Consiglio. Si tratta infatti di un saggio ripreso subito dopo il suo intervento dal quotidiano Il Foglio, con un titolo di rara finezza filologica (Perché il Manifesto di Ventotene è una boiata pazzesca, 19 marzo 2025; lo stesso titolo sarà richiamato dal Giornale e da Libero il giorno seguente).
Luca Ricolfi, per parte sua, tratta del Manifesto in un’appendice del suo saggio, che egli stesso dichiara politicamente scorretta. Per l’A., mentre la sinistra, incomprensibilmente, vorrebbe tornare allo spirito di Ventotene, dovrebbe imputarsi alle classi dirigenti europee non di avere tradito il Manifesto, «ma di averne recepito l’idea basilare, ovvero che il sogno degli Stati Uniti d’Europa potesse realizzarsi solo dall’alto». L’unico richiamo al Manifesto nel corpo del saggio si rinviene al cap. III (La rivolta dei popoli) in cui si tratta della crisi dell’Europa di oggi, all’indomani della Brexit, e della crescita impetuosa dei populismi, portatori di valori comunitari - a fronte dell’individualismo illuminista -, ed espressione di un bisogno di protezione nei confronti, al contempo, delle regole del mercato imposte dalle autorità sovranazionali e delle società multietniche generate dai flussi migratori.
E’ interessante notare che, istituendo un confronto tra Bobbio e von Hayek in merito ai criteri distintivi tra destra e sinistra, l’A. sente come più aderente all’odierna realtà quella del secondo, che corrisponde ad uno schema trilaterale e non duale: se si accetta tale schema (che l’A. poi arricchisce ulteriormente) «essere di destra può significare due cose alquanto diverse: frenare il cambiamento e difendere la tradizione, oppure promuovere il cambiamento e ampliare le libertà (soprattutto in economia)» (Sinistra e popolo, cit., p. 194).
Venendo a Galli Della Loggia, anch’egli riunisce in un unico target polemico l’Europa, per come si è venuta costruendo nel corso del dopoguerra e per come è attualmente, e il Manifesto di Ventotene.
Dopo avere citato il passo del Manifesto incriminato, l’A. se la prende con l’élite politico burocratica italiana che sarebbe ferma a una «piattaforma ideologica molto di sinistra, carica d’utopismi, di ansie egualitarie di propositi radicalmente rinnovatori che anima la nostra Costituzione, ma allo stesso modo per l’appunto anche il Manifesto. E che oggi costituisce la sostanza totemica che entrambi i documenti hanno finito per rappresentare nel discorso ufficiale del paese»; una classe politica che avrebbe sentito «il bisogno di restare avvinghiata a quei pochi ancoraggi del passato – la Costituzione, il Manifesto in questione appunto – da lei creduti ancora saldi e in grado di conferirle il senso e il ruolo che invece stavano venendo meno» (p. 82).
Per quanto l’A. non svolga ulteriormente il discorso, è abbastanza chiaro che egli ritiene che la Costituzione e il Manifesto siano fatti della stessa pasta, e che le ragioni di critica dell’uno si estendano anche all’altra.
Ed in effetti nel Manifesto è prefigurato l’assetto dei rapporti economico sociali che entrerà in Costituzione, perché, come sintetizza A. Braga, in Le parole di Ventotene, cit., «il Manifesto immaginava un’originale forma di Stato sociale e prefigurava un’economia di mercato posta al servizio dell’uomo, in cui la libera iniziativa economica non fosse spenta nella collettivizzazione generale ma fosse comunque “aggiogata al carro sociale”, ossia indirizzata dalle istituzioni pubbliche a fini di benessere collettivo… Il programma delineato nel Manifesto federalista prevedeva dunque: la nazionalizzazione (parziale o totale, da valutare caso per caso, non in modo dogmatico) di alcune imprese (le industrie di monopolio naturale, quelle necessarie a interessi collettivi e i grandi trusts in grado di ricattare gli organi di governo e di inquinare l’equilibrato funzionamento della democrazia); una riforma agraria che aumentasse il numero dei piccoli e medi proprietari terrieri; una riforma industriale che favorisse la partecipazione dei lavoratori alla proprietà industriale; una riforma scolastica per assicurare a tutti un’uguaglianza di opportunità nelle condizioni di partenza; e un sistema di welfare che garantisse, universalmente e in modo permanente, un minimo di vita civile a tutti i cittadini, senza però creare dipendenze o assistenzialismi».
Appunto il programma economico sociale dei titoli II e III della prima parte della Costituzione. E’ questo il lascito più importante per noi del Manifesto di Ventotene.
5. Gli Stati nazione secondo Galli Della Loggia e un’Unione senza popolo
Poi Galli Della Loggia indirizza le sue critiche all’Unione Europea, a tutte le istituzioni, le procedure, gli acquis. Però il punto di partenza dell’argomentazione, il difetto genetico dell’Unione europea è che «lo Stato nazionale rappresenta virtualmente la premessa indispensabile della democrazia. Alla base della democrazia… c’è sempre un popolo. E’ impensabile, infatti, - e storicamente inimmaginabile – che si possano nutrire indistintamente verso tutti gli abitanti del pianeta, verso “chiunque” quei sentimenti di eguaglianza e di fraternità che rappresentano due dei tre sentimenti cardine della democrazia». «Perché vi sia uno Stato e per conseguenza una Costituzione», è necessario che «vi sia una nazione, cioè un popolo, un demos. Vale a dire una collettività definita e perciò identificata da una qualche omogeneità. Si badi: certamente non una omogeneità di tipo razziale di “sangue”, bensì una qualche omogeneità genericamente culturale (… di lingua, di religione, di tradizione, di storia), dalla quale possa comunque sorgere un senso di appartenenza… (p. 85 e ss.)».
La critica demolitrice dell’A. si appunta anche sulla produzione normativa e giurisprudenziale che ha esteso il novero dei diritti fondamentali dell’individuo. Non è dei singoli diritti affermati che l’A. si duole, di questa o di quella pronuncia della CGUE, ma del fondamento del loro riconoscimento, perché con essi si cercherebbe di fondare una sovranità, altrimenti priva di una qualche legittimazione; e del protagonismo, del ruolo di supplenza, che la Corte ha assegnato a sé stessa, della costituzionalizzazione per via giudiziaria dei Trattati. Egli si duole in particolare che la Corte abbia affermato «il principio dell’indiscussa superiorità della norma unitaria su qualsiasi disposizione normativa degli Stati membri» (p. 117). Per inciso, deve dirsi che il cavallo di Troia attraverso il quale questa costituzionalizzazione del diritto comunitario sarebbe entrata nella cittadella dei diritti nazionali fu rappresentato dalle sentenze n. 26/62 e 6/64 della Corte europea (l’ultima delle quali pone già il tema della compatibilità dei monopoli pubblici con la libertà della concorrenza e degli scambi, tema che è tutt’oggi sul tavolo della politica europea), che interpretavano l’art. 177 Trattato CEE nel senso che esso riconosceva ai cittadini comunitari una tutela giurisdizionale diretta.
Deve darsi atto che l’A. rileva anche come, rispetto alla Costituzione, l’impianto valoriale dei Trattari «rivela in complesso una maggiore inclinazione all’individualismo e viceversa un assai minore interesse per i rapporti economici sociali» (p. 118). E’ un’affermazione condivisibile, ma che oggi dovrebbe essere riconsiderata alla luce della Carta di Nizza. Meglio sarebbe stato periodizzare le diverse fasi storiche della complessa relazione che si è data tra la costruzione di un mercato unico e i fini degli ordinamenti nazionali postbellici di realizzazione del welfare, di giustizia fiscale, di redistribuzione delle risorse (su cui Federico Losurdo, L’Unione Europea e il declino dell’ordine neoliberale, in federalismi.it, 14 marzo 2018).
Meglio sarebbe stato in ogni caso criticare la Corte quando sacrifica diritti sociali riconosciuti dagli ordinamenti interni ed elogiarla quando riconosce diritti individuali disconosciuti dagli ordinamenti interni.
Ora deve dirsi che Stato e nazione non nascono insieme. Lo sa Galli della Loggia quando richiama le riflessioni di Habermas sul punto (p. 89), ma ce lo dice chiaramente Gentile alla voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana: «Non è la nazione a generare lo Stato, … Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale una unità, e quindi un’effettiva esistenza». Sulle Alpi occidentali, si parla occitano al di qua e al di là del confine: dove finisce l’Italia? Dove inizia la Francia? Esiste il Belgio, come entità nazionale, o esistono fiamminghi e valloni? E così via.
Verrebbe da domandarsi, per inciso, se, a fondare questo senso di comunità, non possa concorrere la dimensione europea della Resistenza al nazifascismo, la partecipazione di tanti stranieri alla Resistenza italiana, la partecipazione di italiani alle Resistenza di altri paesi, anche la partecipazione di tedeschi, fuggiaschi o disertori (si veda ad esempio, sulla misconosciuta partecipazione di fuoriusciti comunisti tedeschi alla Resistenza francese, Mauro Fattor, Da fuggitivi tedeschi a partigiani sulle montagne fianco al fianco dei francesi, in il Manifesto).
6. L’altro federalismo
Praticamente contemporanea a quello del Manifesto, nel 1939, era elaborata un’altra proposta federalista, quella di Friedrich von Hayek (The Economic Conditions of Interstate Federalism, in New Commonwealth Quarterly, V, n. 2, settembre 1939). In comune le due proposte avevano l’obiettivo di uno Stato federale che avocasse a sé le materie della difesa e della politica estera. Obiettivo di von Hayek era anche quello di consentire la libera circolazione, entro il territorio federale, delle merci, dei capitali e dei lavoratori. Quello che ne fa un lavoro premonitore, pensando all’Europa di oggi, è che, secondo l’A., dal venir meno dei dazi e di ogni restrizione all’ingresso tra gli Stati federati, consegue anche, all’interno degli Stati, la caduta di ogni vincolo normativo che incida sul prezzo delle merci, rispetto a quello praticato dai concorrenti di un altro Stato membro. Il mercato diviene in questo modo indipendente dalla politica, nello Stato federale ci sarà «less government all around», anche gli enti intermedi, i sindacati e le organizzazioni professionali, perderebbero la loro posizione monopolistica, il potere di controllare l’offerta. Friedrich von Hayek non si arresta nemmeno di fronte ai controlli su qualità dei beni e sui metodi di produzione, alla legislazione sul lavoro minorile e sull’orario lavorativo.
Condizione perché questo obiettivo sia raggiunto è che vengano dissolti nello Stato federale gli ideali e valori comuni che caratterizzano i singoli Stati nazionali, che i gruppi di interesse non precedano il mercato e non producano solidarietà durature, ma si compongano e si scompongano secondo l’opportunità del momento. Come diceva Margaret Thatcher, non esiste la società, ma solo gli individui (e le famiglie).
Possiamo allora dire che ciò che Galli della Loggia considera il vizio genetico dell’Unione Europea, che può portarla al fallimento, in von Hayek diviene al contempo ragione fondativa e obiettivo dello Stato federale. Per uno la democrazia poggia sulla «esistenza di legami storico identitari tra governanti e governati», per l’altro proprio il fatto che il popolo sarà riluttante a sottomettersi alla volontà della maggioranza quando il governo è composto di persone di differenti nazionalità e tradizioni è la premessa per la realizzazione di uno Stato minimo.
Von Hayek è profetico persino nel prevedere che la libera circolazione dei capitali ridurrà la sovranità fiscale degli Stati e agirà come fattore di moderazione del prelievo, per evitare che i capitali si muovano altrove; che è proprio quello che è avvenuto col ridursi della progressività dei sistemi fiscali e lo spostamento delle sedi sociali delle imprese e delle stesse residenze delle persone fisiche in paesi che garantiscono trattamenti di favore.
7. Ideologia populista e sostanza liberista
Ora possiamo ipotizzare come si collochi Meloni rispetto a questi due federalismi e quali fossero i suoi veri obiettivi, al di là del Manifesto di Ventotene.
Con la sua sommaria riduzione del progetto abbozzato dal Manifesto ad una forma di economia socialista, Meloni si tiene lontana, senza nominarlo, anche dal progetto costituzionale.
Anche in questo caso si può dire non c’è nulla di nuovo. Lo ha scritto G. De Vergottini (La Costituzione economica italiana: passato e attualità, in Diritto e società, 2010, p. 333): «Nel panorama dei lavori della Assemblea costituente appariva del tutto recessiva una cultura del mercato caratterizzata dal ruolo inevitabile della concorrenza. Dominante era invece la cultura statalista… Particolarmente forte era la presenza della sinistra che vagheggiava la socializzazione dei mezzi di produzione e l’introduzione di un sistema economico pianificato. Proprietà e iniziativa economica non venivano disciplinati quali diritti inviolabili…Era evidente il favore per la proprietà e iniziativa economica pubblica e ad un tempo per il dirigismo pubblico condizionante il privato».
Si potrebbe obiettare con Galgano (F. Galgano, Diritto dell’economia, Enciclopedia del Novecento, I° supplemento, 1989) che anche la nostra Costituzione afferma il primato dell’economia di mercato, solo delinea un sistema misto in cui all’iniziativa economica privata si affianchi quella pubblica, ma su un piede, almeno in linea di principio (altra cosa è come le cose sono andate), di parità, come prova il fatto che all’impresa pubblica non si applica lo statuto della pubblica amministrazione, ma il principio dell’economicità della gestione. In sostanza non si andava molto lontano da Keynes.
Sappiamo che questo progetto deve fare oggi i conti con le regole dell’Unione, con quello che è stato definito il progressivo spill over delle regole del mercato concorrenziale sui diritti nazionali in materia di lavoro e di protezioni sociali, che l’originario progetto comunitario (Keynes all’interno, Smith all’esterno) è stato messo in crisi da fattori macroeconomici maturatisi su scala mondiale, che possono essere idealmente correlati al momento in cui, col Trattato di Maastricht, la governance europea ha cominciato a porre rigorosi limiti alla spesa in deficit; che l’ingresso dei paesi dell’Est ha prodotto un fenomeno di damping sociale e salariale. Sappiamo che si è assistito a un processo di rovesciamento del rapporto di prevalenza della politica sull’economia, che aveva caratterizzato le costituzioni formali e materiali del dopoguerra.
A noi, che non possiamo non essere europeisti, se non altro perché il keynesismo non è più possibile in un solo paese, Meloni non dice che Europa vorrebbe, ci fa intendere solo che non è quella del Manifesto, che quel progetto sociale non le garba. Non ci dice se ritiene che crescita e occupazione possano essere promosse solo e sempre con politiche dal lato dell’offerta, non ci dice se condivida quella austerità permanente dello Stato sociale che sembra implicata dalla Costituzione materiale dell’Unione, non ci dice se è contraria alla prevalenza della libertà di stabilimento e di libera circolazione dei servizi sulla territorialità del diritto del lavoro, non ci dice se sia contraria alla liberalizzazione generalizzata dei servizi di interesse generale.
Meloni, se quanto scritto da Galli della Loggia ne esprime la sensibilità politica e culturale, è contraria all’esistenza di istituzioni sovranazionali (non ad accordi multinazionali), a un ordinamento i cui soggetti non sono solo i singoli Stati, ma i cittadini degli Stati; è contraria alla primazia del diritto eurounitario su quello nazionale; all’effetto c.d. verticale delle direttive, alla possibilità che diritti negati dagli Stati possano trovare tutela a livello europeo. E’ contraria a tutto ciò in nome dello Stato nazione e dell’identità forte che tramite esso deve essere preservata dal cosmopolitismo delle élites europee. E’ contraria all’impalcatura istituzionale e normativa dell’Europa, ma Meloni non ci dice se è contraria alla sua deriva neoliberista. Seguendo lo schema di von Hayek, è conservatrice, ma lascia aperta la porta per mostrarsi liberale.
L’ideologia è un discorso che serve a costruire un legame sociale. Nel criticare la sovrastruttura giuridica dell’Europa, senza mettere in discussione l’ordine liberale dominante, Meloni parla a coloro che sono vittime di quell’ordine, mettendo a loro disposizione identità oppositive allo stato di cose esistente. Assimilare l’Europa di oggi a quella del Manifesto di Ventotene può essere ravvicinato a quando Trump accusava Biden di essere comunista. E’ un gioco di specchi in cui la vera identità dei populismi e, al tempo stesso, le vere ragioni di contestazione dell’esistente si confondono agli occhi dei destinatari del messaggio.
C’è un passaggio del Manifesto in cui si avverte del pericolo di «una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti». Allora incombeva lo spettro di un’Europa asservita alla Germania nazista.
Oggi sono iloti gli stranieri ammessi sul territorio nazionale in virtù del decreto flussi, che non sono cittadini ma solo forza lavoro, e la cui permanenza nel nostro paese è condizionata al permanere della loro condizione di merce. Sono iloti gli stranieri respinti e trattenuti in condizioni di illegalità costituzionale nei CPR. I primi servono al sistema produttivo, i secondi al sistema di produzione del consenso.
Questo è il mondo di Giorgia Meloni e questa è l’Europa che vagheggia. Però, non è solo il mondo di Meloni, è una tendenza di fondo che sempre più separa i processi di produzione via via più nomadi e le regole di cittadinanza ancora territoriali. (V. E. Parsi, La Costituzione come mappa: sovranità e cittadinanza tra risorse nomadi e diritti stanziali, in L. Ornaghi (a cura di), La nuova età delle Costituzioni, Il Mulino, Bologna, 2000).