Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Sindrome di alienazione parentale, vittimizzazione secondaria e stereotipi di genere nel processo

di Arianna Enrichens
Avvocata del Foro di Torino

Un commento all’ordinanza della Corte di Cassazione n. 1321/2021 del 17 maggio 2021

Con ordinanza n. 13271 del 17 maggio 2021, la Corte di Cassazione è tornata a pronunziarsi in materia di PAS, acronimo che si riferisce alla cosiddetta “Sindrome di Alienazione Parentale”, anche denominata “Sindrome della Madre Malevola”.

Con l'ordinanza in commento, la Suprema Corte censura la decisione della Corte d’Appello di Venezia, che pone la PAS a fondamento della decisione di affidare la prole al padre, in regime di affido esclusivo rafforzato ed evidenzia il “controverso fondamento scientifico della sindrome”, nonché il fatto che la decisione è stata assunta attraverso “un implausibile sillogismo la cui premessa principale è costituita da un ingiustificato severo stigma di comportamenti della madre fondato su un mero postulato”.

La pronunzia definisce la decisione della Corte d’Appello «espressione di una inammissibile valutazione di tataertyp» configurando «a carico della ricorrente, nei rapporti con la figlia minore, una sorta di “colpa d’autore” connessa alla postulata sindrome».

Come noto, la “sindrome” in discussione è stata individuata da un controverso studioso americano, Richard Gardner, secondo cui, nei contesti di separazione tra i genitori, si attiverebbero dinamiche disfunzionali da parte di uno di essi (la madre), volte a sottrarre la prole all’altro genitore, attraverso manipolazioni e condizionamenti, atti a plagiare la volontà del/della bambino/a, per far sì che questi disprezzi e rifiuti definitivamente il genitore “alienato”.

Nonostante le forti critiche, l’applicazione di tale concezione è particolarmente diffusa, non solo nelle separazioni altamente conflittuali, ma anche in quelle che presentano profili di violenza domestica o di abuso su minori, al fine di contrastare le allegazioni della madre, che chiede una limitazione della frequentazione tra il padre violento e la prole, anche in ragione del timore manifestato dai/dalle figli/e minori, vittime di violenza diretta e/o assistita.

Nell’ampio dibattito che è scaturito circa la PAS, sono state avanzate critiche non solo alla teoria medesima, ma anche alle posizioni di Gardner, che sono state definite giustificazioniste rispetto agli abusi ai danni di minori. 

Con nota del 29 maggio 2020, relativa all’interrogazione Parlamentare n. 4-02405, il Ministero della Salute ha evidenziato che le teorie di Gardner sono state sviluppate «in diversi lavori auto-pubblicati e, pertanto, privi di verifica da parte della letteratura scientifica» e che «detta “sindrome” non risulta inserita in alcuna delle classificazioni in uso, come la International classification of diseases (ICD 10), o il Diagnostic and statistical manual of mental desorder (DSM 5), in ragione della sua evidente “ascientificità” dovuta alla mancanza di dati a sostegno».

Con la medesima nota, il Ministero ha evidenziato altresì il «rischio di un utilizzo strumentale di una definizione priva di validità diagnostica nelle controversie che coinvolgono minori» ed ha avvertito che, in caso di segnalazione di diagnosi di PAS da parte di medici o psicologi, il Ministero della salute «ha cura di sollecitare gli Ordini professionali di appartenenza, per gli accertamenti sulle eventuali violazioni di norme deontologiche».

A fronte di tale quadro generale, è dunque lecito domandarsi la ragione per cui tale “sindrome” sia ancora così diffusamente utilizzata nelle decisioni giudiziarie e nelle consulenze tecniche, al fine di collocare i/le minori proprio presso quel genitore che essi/e rifiutano in ragione di un sentimento di timore e avversione e/o in ragione delle violenze subite o a cui hanno assistito.

La ragione non può che rinvenirsi nella diffusione, ancora molto ampia nel nostro Paese, di pregiudizi e di stereotipi di genere nella nostra società e, quindi, necessariamente, anche nei processi, che riguardano temi sensibili quali le relazioni tra uomini e donne e l’affidamento della prole minorenne.

Non a caso, recentissimamente, il 27 maggio 2021, la Corte di Strasburgo, chiamata a pronunziarsi in materia di vittimizzazione secondaria nei processi relativi alla violenza di genere, ha emesso una fondamentale sentenza (5671/16), con la quale ha condannato l’Italia a risarcire alla ricorrente il danno conseguente all’aver subito un processo in violazione dell’art. 8 della Convenzione CEDU[1] 

 

La riflessione sulla PAS e quella sulla vittimizzazione secondaria, infatti, sono strettamente connesse, posto che la teoria dell'alienazione parentale (sia nella sua forma esplicita, sia in forme sostanzialmente equivalenti, ma celate dietro differenti definizioni quali «rapporto fusionale materno», «invischiamento materno»), è ampiamente utilizzata nelle aule giudiziarie dai padri/mariti maltrattanti, proprio per contrapporsi alle istanze di tutela della prole, che le donne offese dalla violenza avanzano ai Tribunali o che le Procure presso i Tribunali per i Minorenni richiedono nell'ambito di procedimenti minorili di protezione.

E’, infatti, evidente che, a fronte dei timori espressi dai bambini e dalle bambine, l'argomentazione della manipolazione materna è una facile eccezione da sollevare, soprattutto quando essa mira a distogliere l'attenzione del Tribunale e dei/delle consulenti dalle ragioni del rifiuto del/della minore, per concentrare invece l'indagine sulle pretese inadeguatezze materne, le quali generalmente, in tali casi, si sostanziano e si esauriscono nell’ostacolo al principio della bigenitorialità e nel permanere in una condizione di “conflittualità”, che la donna, per rancore, non riuscirebbe a superare.

Tale argomentare mira ad occultare e a normalizzare la violenza di genere, confondendola con il conflitto e definendola come un'accusa strumentale da parte di una madre malevola, che intende “liberarsi” di un compagno/marito incolpevole e ormai sgradito, per tenere i figli solo per sé.

La Corte di Cassazione è intervenuta più volte sull’inapplicabilità della PAS nelle decisioni giudiziarie in materia di affido, non solo con la recente ordinanza n.13271/21, bensì anche, ad esempio, con la sentenza n. 7041/2013.

Recentemente, poi, con requisitoria del 15 marzo 2021, la Procura generale presso la Corte di Cassazione ha delineato con precisione e rigore quali gravi conseguenze possono derivare dall'applicazione della PAS:

·  Il rischio di addivenire a decisioni fondate su “pre-giudizi”, piuttosto che su giudizi poggiati su evidenze probatorie;

·  La mancata indagine delle ragioni del rifiuto del/della minore nella frequentazione con il padre;

· La mancata considerazione delle risultanze dei procedimenti penali connessi, in violazione dell'articolo 31 della Convenzione di Istanbul, che, in quanto norma vincolante per il legislatore nazionale nonché per l'applicazione conforme che i giudici sono tenuti a darne, impone di adottare misure legislative volte a far sì che, nelle decisioni relative ai diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza e che impone di garantire che l'esercizio dei diritti di visita e di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima e dei bambini;

· La mancata valutazione delle condizioni dei/delle minori in violazione del diritto all'ascolto del minore.

 

Nonostante tali puntualissimi rilievi, fondati altresì su una normativa di carattere sovranazionale (in primis sulla Convenzione di Istanbul), la teoria della PAS è addirittura posta alla base della filosofia ispiratrice di disegni di legge di riforma dell'affidamento della prole: mi riferisco al noto disegno di legge Pillon (DDL 735/2018) e ai disegni di legge ad esso collegati, primo tra tutti il DDL De Poli n.45/2018.

Nelle premesse di tali proposte di legge, la teoria della PAS e il nome di Richard Gardner sono espressamente citati a fondamento di una riforma che viene definita come necessaria a tutela dei bambini: vista natura controversa delle dichiarazioni di Gardner e l’assoluta mancanza di fondamento scientifico delle sue teorie, l'assunzione di esse a postulato di una norma di legge non può che lasciare stupefatti.

Ad ogni buon conto, nonostante i disegni di legge siano allo stato apparentemente accantonati (sarà proprio così?), trovo interessante citare alcune delle loro disposizioni, in quanto esse disvelano in modo limpido il pregiudizio insito nella PAS e il suo reale intento di vanificare la tutela delle donne vittime di violenza e dei/delle loro figli/e.

I disegni di legge propongono:

· l’adozione di provvedimenti ai sensi dell’art. 342 bis c.c. (ordini di protezione contro gli abusi familiari), allorché «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori – il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo ad uno di essi» (art. 17 DDL 735);

· l’adozione di provvedimenti ex art. 709 ter c.c. «In caso di gravi inadempienze, di manipolazioni psichiche o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, nonché in caso di astensione ingiustificata dai compiti di cura di un genitore e comunque in ogni caso ove riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori, il giudice valuta prioritariamente una modifica dei provvedimenti di affidamento ovvero, nei casi più gravi, la decadenza dalla responsabilità genitoriale del responsabile ed emette le necessarie misure di ripristino, restituzione o compensazione» (art. 9 DDL 735);

· la previsione della mediazione obbligatoria per addivenire alla separazione, in chiara violazione della convenzione di Istanbul, che esclude la legittimità delle procedure di ADR in caso di violenza domestica;

· la modifica dell'articolo 572 c.p., al fine di prevedere un'ipotesi di maltrattamento in famiglia “di minore gravità”, punibile esclusivamente con la previsione di lavori socialmente utili, in luogo della pena detentiva (art.5 DDL 45);

· la previsione della sospensione della responsabilità genitoriale del genitore che venga condannato per il reato di calunnia (art. 3 DDL 45);

· la punibilità ai sensi dell'articolo 570 c.p. del genitore che attua comportamenti che privano la prole della presenza dell'altro genitore (art. 4 DDL 45);

· il divieto, in materia di ascolto del minore, di domande dirette a ottenere risposte relativamente al desiderio del figlio di essere collocato con uno dei genitori ovvero quelle potenzialmente in grado di suscitare preferenze o conflitti di lealtà da parte del minore verso uno dei genitori(art. 16 DDL 735).

Tutto ciò, a tacere delle – altrettanto significative - disposizioni relative alle statuizioni economiche, rende evidente la reale finalità dell'applicazione della teoria della alienazione parentale, significativamente denominata anche teoria della “madre malevola”: si tratta, in buona sostanza, di una contromisura, al fine di contrastare, nei procedimenti giudiziari relativi all'affidamento della prole, l'accertamento di situazioni di maltrattamento o abuso, con l’intento di concentrare la valutazione del Tribunale, piuttosto che sulle violenze, sulla pretesa inadeguatezza materna, ritenuta d'ostacolo all'applicazione di un indiscriminato diritto alla bigenitorialità.

Ciò detto, è ben possibile che possano verificarsi condotte (materne o paterne) pregiudizievoli per il minore volte, in effetti, ad ostacolare il rapporto della prole con l'altro genitore.

Tali comportamenti, tuttavia, per avere rilevanza nel giudizio e per essere poste a fondamento di decisioni che addirittura si pongono in netto contrasto con la volontà del minore e con le sue esplicite dichiarazioni e desideri, devono essere accertate nella loro concretezza di fatti materiali, come condotte in violazione delle regole di corretto esercizio della genitorialità.

Qualora ciò non accada - ed è proprio questo, infatti, che censurano le pronunzie citate - risulta del tutto impossibile, per la madre accusata di generiche condotte “alienanti”, “invischianti”, “fusionali” o “scellerate”, esercitare correttamente il proprio diritto di difesa, in ragione dell'indeterminatezza delle censure che le vengono mosse.

In assenza di specifica individuazione di comportamenti pregiudizievoli e in difetto di valutazioni scientifiche rigorose, la decisione di affidare il figlio proprio al genitore, che questi rifiuta e teme, verrà assunta, oltre che sulla base di valutazioni preconcette, anche in violazione dei principi del giusto processo, nonché, infine, in assenza di qualsivoglia approfondita analisi circa le conseguenze traumatiche che potrebbero derivare al minore, che viene così indebitamente percepito quale “oggetto” della decisione e non quale primario “soggetto” portatore di diritti.

In tale quadro, la recente decisione della Corte di Cassazione e l’orientamento nel quale essa si inscrive, rappresentano un prezioso strumento di tutela dei diritti dei minori.

Seguendo l'insegnamento della professoressa Barbara Pezzini, che ci spiega come esista un rapporto circolare tra genere e diritto e tra società e diritto, ciò che possiamo augurarci come attori e attrici del processo (e come cittadine e cittadini) è che, grazie al contributo della più attenta magistratura ed avvocatura, vengano sempre più efficacemente contrastati, nelle aule di giustizia e nella vita di tutti i giorni, gli stereotipi di genere, che ancora governano la nostra società e che impediscono la piena ed effettiva tutela dei diritti delle donne, dei bambini e delle bambine.


 
[1] Si legge in motivazione: «La Cour observe par ailleurs que le septième rapport sur l’Italie du Comité des Nations unies pour l’élimination de la discrimination à l’égard des femmes et le rapport du GREVIO, ont constaté la persistance de stéréotypes concernant le rôle des femmes et la résistance de la société italienne à la cause de l’égalité des sexes. En outre, tant ledit Comité des Nations unies que le GREVIO ont pointé du doigt le faible taux de poursuites pénales et de condamnations en Italie, ce qui représente à la fois la cause d’un manque de confiance des victimes dans le système de la justice pénale et la raison du faible taux de signalement de ce type de délits dans le pays (paragraphes 64-66 ci-dessus). Or, la Cour considère que le langage et les arguments utilisés par la cour d’appel véhiculent les préjugés sur le rôle de la femme qui existent dans la société italienne et qui sont susceptibles de faire obstacle à une protection effective des droits des victimes de violences de genre en dépit d’un cadre législatif satisfaisant (voir, mutatis mutandis, Carvalho Pinto de Sousa Morais, précité, § 54). La Cour est convaincue que les poursuites et les sanctions pénales jouent un rôle crucial dans la réponse institutionnelle à la violence fondée sur le genre et dans la lutte contre l’inégalité entre les sexes. Il est dès lors essentiel que les autorités judiciaires évitent de reproduire des stéréotypes sexistes dans les décisions de justice, de minimiser les violences contre le genre et d’exposer les femmes à une victimisation secondaire en utilisant des propos culpabilisants et moralisateurs propres à décourager la confiance des victimes dans la justice. En conséquence, tout en reconnaissant que les autorités nationales ont veillé en l’espèce à ce que l’enquête et les débats fussent menés dans le respect des obligations positives découlant de l’article 8 de la Convention, la Cour considère que les droits et intérêts de la requérante résultant de l’article 8 n’ont pas été adéquatement protégés au vu du contenu de l’arrêt de la cour d’appel de Florence. Il s’ensuit que les autorités nationales n’ont pas protégé la requérante d’une victimisation secondaire durant toute la procédure, dont la rédaction de l’arrêt constitue une partie intégrante de la plus grande importance compte tenu notamment de son caractère public». Si richiama sull’argomento R. Sanlorenzo, La vittima ed il suo Giudice, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-vittima-ed-il-suo-giudice 

 

11/06/2021
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