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Il fatto non sussiste: brevi note sulla sentenza di Cassazione nel processo Agaish in tema di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare

di Carlo Caprioglio
ricercatore post-doc, titolare della Legal Clinic on Migration and Asylum nell’Università di Roma Tre

Il 20 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha assolto "perché il fatto non sussiste" quattro rifugiati eritrei imputati di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare per aver aiutato alcuni loro connazionali appena giunti sul territorio italiano via mare. La sentenza, arrivata al termine di un processo lungo sei anni, sviluppa alcuni argomenti rilevanti in tema di integrazione del reato di cui all'art. 12 TUI, con particolare riferimento alle condotte di facilitazione del transito. In linea con le precedenti decisioni della Consulta, la Corte sviluppa una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie che circoscrive l'ambito di operatività del reato. Una interpretazione che - se confermata - potrà avere un impatto significativo sui numerosi procedimenti a carico di cittadini di Stati terzi accusati di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare.

1. Dopo sei anni di processo, tre gradi di giudizio e 21 mesi di custodia cautelare in carcere, il 20 maggio 2022 si è finalmente concluso il processo Agaish, con l’assoluzione, da parte della I sezione penale della Corte di Cassazione, di quattro rifugiati eritrei imputati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare per aver aiutato alcuni connazionali arrivati in Italia via mare. Gli imputati erano stati condannati in primo grado fino a quattro anni di reclusione e a multe per centinaia di migliaia di euro, confermate in appello con una modesta riduzione delle pene.

Il 7 dicembre 2022 sono state depositate le motivazioni della sentenza oggetto di questa nota. Le argomentazioni dei giudici di Cassazione assumono rilievo non solo per i nodi interpretativi che affrontano rispetto alla configurazione della fattispecie ex art. 12 TUI, co 1, ma anche per i risvolti pratici che potranno avere nella prassi applicativa del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che costituisce oggi uno dei principali strumenti di criminalizzazione delle migrazioni e delle condotte che – a vario modo – agevolano la mobilità dei migranti verso e dentro l’Europa.

La decisione sviluppa una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie di cui al co. 1, con particolare riferimento al favoreggiamento dell’ingresso illegale in altri Stati, in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in materia e, in particolare, nella sentenza di rigetto n. 21 del 2009. L’interpretazione offerta dai giudici di Cassazione circoscrive l’ambito di operatività del reato di favoreggiamento[1], a più riprese ampliato dalle diverse riforme che nel tempo hanno novellato l’art. 12 TUI[2]. In particolare, nel caso di specie, vengono in rilievo le modifiche introdotte dalla legge n. 189/2002 (c.d. Bossi-Fini), che ha esteso la rilevanza penale al favoreggiamento dell’emigrazione illegale; e dalla legge n. 94/2009 (c.d. Pacchetto sicurezza), che ha scomposto il fatto tipico in diverse modalità di commissione, conservando però la formulazione aperta della fattispecie mediante la clausola degli “altri atti diretti” a procurare l’ingresso illegale in Italia o in altri Stati.

Sebbene la sentenza affronti anche un nodo interpretativo rispetto al reato di favoreggiamento dell’ingresso in Italia, il principale contributo giurisprudenziale riguarda dunque l’ambito di operatività della fattispecie del favoreggiamento dell’emigrazione illegale. Prima di analizzare le motivazioni sviluppate dai giudici di Cassazione è però utile ricostruire brevemente la vicenda da cui origina la sentenza.

 

2. La pronuncia giunge al termine di una lunga vicenda processuale, iniziata nel 2015 con una indagine coordinata dalla DDA di Roma denominata Agaish, dal tigrino “ospite”, o meglio, “colui che va accolto”, erroneamente tradotto in “cliente” dall’autorità inquirente, e sfociata nella contestazione del reato associativo finalizzato al favoreggiamento dell’immigrazione irregolare a carico di quattro rifugiati eritrei[3]. Il teorema accusatorio ipotizzava l’esistenza di una rete transnazionale dedita al traffico di migranti, articolata in cellule operative locali, che gestivano le varie tappe del viaggio dei migranti dal Corno d’Africa agli Stati di destinazione nel Nord Europa. Un’organizzazione piramidale, con al vertice Medhanie Yedhego Mered, detto “Il Generale”, divenuto noto alle cronache internazionali per lo scambio di persona che aveva portato all’arresto, nel 2016, di un giovane falegname eritreo, poi assolto in via definitiva dalla Corte di Assise di Palermo[4]

I quattro rifugiati eritrei venivano arrestati il 14 marzo 2016, con l’accusa di appartenere alla cellula romana dell’organizzazione, incaricata di gestire il transito in Italia dei migranti favoriti diretti verso gli altri Stati di destinazione. Alla base dell’incriminazione vi erano condotte semplici come l’acquisto di cibo, vestiti e telefoni cellulari, o di titoli di viaggio per tratte interne al territorio nazionale su vettori di linea, o ancora l’ospitalità offerta per qualche notte in abitazioni di fortuna[5]. Tutte azioni poste in essere in favore di altri connazionali appena giunti in Italia via mare, spesso legati agli imputati da vincoli familiari o comunitari. La contestazione associativa consentiva alla Procura di inscrivere condotte apparentemente prive di disvalore giuridico, ed eventualmente riconducibili alla scriminante del co. 2 dell’art. 12[6], all’interno del disegno criminoso di un’organizzazione transnazionale operante come un vero e proprio «tour operator»[7]. Un impianto accusatorio particolarmente grave che portava a richieste di condanna fino a 14 anni di reclusione. 

Nel processo dinanzi alla Corte di Assise di Roma venivano meno sia l’imputazione associativa che il fine di profitto, anche grazie al racconto di alcuni migranti favoriti chiamati a testimoniare in favore degli imputati. Ciò nonostante, una volta riqualificate le imputazioni, i giudici di Roma condannavano i quattro rifugiati per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, con pene fino a quattro anni di reclusione, per aver posto in essere “altri atti diretti” a procurare l’ingresso illegale in altri Stati europei in violazione delle norme sull’immigrazione. 

La decisione di primo grado veniva confermata in appello, con una sentenza che richiamava, in particolare, la giurisprudenza di legittimità sulla natura di reato di pericolo dell’art. 12 TUI, secondo cui, ai fini dell’integrazione della fattispecie, è sufficiente «il solo fatto di compiere atti diretti a favorire l’ingresso illegale […] senza che possano assumere rilevanza l’effettività, la durata o le finalità dell’entrata o del transito, né la direzione o la destinazione finale dello straniero in transito»[8]. Un principio che, nel caso di specie, consentiva di addivenire a condanna nonostante la mancata prova dell’effettivo attraversamento dei confini con altri Stati da parte dei migranti favoriti, nonché di quegli elementi necessari per circostanziare il fatto, quali le modalità, la data e il luogo dell’attraversamento, nonché il Paese di destinazione. Di tutte le presunte persone “ausiliate”, infatti, solo di una era accertata la sorte successiva allo sbarco in Italia: una giovane donna eritrea che aveva chiesto e ottenuto la protezione internazionale in Olanda. 

Il 20 maggio 2022, la I sezione penale di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza d’appello, assolvendo gli imputati “perché il fatto non sussiste”. Dopo alcune considerazioni sul ruolo giocato dal delitto associativo nel dare forma alle imputazioni, le motivazioni sciolgono tre nodi interpretativi in tema di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Il primo – trattato rapidamente, in relazione alla posizione di uno degli imputati – riguarda l’integrazione del fatto tipico di favoreggiamento dell’ingresso illegale rispetto a condotte poste in essere dopo l’ingresso sul territorio italiano da parte dei migranti “ausiliati”. Il secondo concerne, invece, i requisiti probatori per l’integrazione del favoreggiamento dell’emigrazione illegale in relazione a condotte di aiuto, realizzate sul territorio nazionale, in favore di migranti che hanno poi raggiunto altri Stati europei. Infine, la terza questione affronta il tema dell’“ingresso illegale”, quale elemento del fatto tipico del favoreggiamento dell’emigrazione, che dev’essere accertato in base alla legislazione interna del Paese di destinazione e allo status giuridico della persona favorita.

 

3. Ripercorrendo le argomentazioni della difesa, la Corte si sofferma in primo luogo sugli effetti che l’assoluzione dal reato associativo produce sulla valutazione delle condotte incriminate. Secondo i giudici, infatti, «la dissoluzione dell’ipotesi investigativa dell’associazione finalizzata a delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina impone di valutare in forma episodica e circoscritta l’azione dei singoli imputati, senza poterla inserire in un quadro associativo che assegni rilievo a segmenti di condotte innestate in una più ampia azione del gruppo organizzato» (p. 15). La sentenza conferma così implicitamente il ruolo decisivo giocato dallo schema associativo nel dare corpo all’impianto accusatorio. L’argomentazione della Cassazione accoglie, infatti, quanto sostenuto dalla difesa sin dal primo grado di giudizio: innestando condotte di per sé prive di rilevanza penale all’interno della più ampia azione del sodalizio criminale, la contestazione del reato associativo contribuiva in maniera decisiva alla configurazione del fatto tipico del reato-fine di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Attraverso lo schema dell’associazione, infatti, le singole condotte di aiuto prestate sul territorio italiano assumevano la forma di segmenti della più ampia azione dell’organizzazione, in cui più soggetti, in luoghi e tempi diversi, favorivano il viaggio dei migranti lungo una rotta che dal Corno d’Africa portava in Nord Europa.

In quest’ottica, l’ospitalità offerta a un migrante in condizione “irregolare” – azione di per sé lecita, se realizzata senza lo scopo di trarre “un ingiusto profitto” – assumeva rilevanza penale quale condotta necessaria alla realizzazione del progetto criminoso dell’associazione. Il teorema accusatorio della procura faceva così venir meno l’autonomia tra delitto di associazione e reati-scopo. Come ha dimostrato la successiva assoluzione dalle imputazioni ex art. 12 TUI, gli “scopi illeciti”, dati nel caso di specie dalla realizzazione di una serie di reati di favoreggiamento, e che costituiscono un elemento tipico del fatto di reato ex art. 416 c.p.[9], erano privi di esistenza autonoma, configurandosi proprio grazie all’applicazione dello schema associativo. Una volta caduta l’imputazione per associazione a delinquere, non restavano quindi che semplici azioni in favore di altri migranti, oggetto di autonoma valutazione sotto il profilo della rilevanza penale. Non più quindi atti strumentali al buon esito di complesse operazioni transnazionali di favoreggiamento, ma singole condotte iniziate in Italia, e che qui si esaurivano.

 

4. Per quanto riguarda la qualificazione giuridica delle singole condotte, la sentenza prende le mosse dalla verifica della loro riconducibilità all’ipotesi incriminatrice del favoreggiamento dell’ingresso illegale. La questione posta all’attenzione dei giudici di legittimità è se le azioni degli imputati integrassero il fatto tipico del favoreggiamento dell’ingresso, nonostante le persone aiutate si trovassero già sul territorio nazionale. È il caso, per esempio, dell’aiuto offerto da uno degli imputati – attraverso l’acquisto di vestiti, di un telefono cellulare e di biglietti del bus da Mazzara del Vallo a Roma – a due giovani donne eritree che, dopo che queste si erano allontanate dalla struttura di prima accoglienza in cui erano state collocate.

Sul punto, la sentenza richiama le posizioni della Corte di Cassazione, che ha più volte ribadito come l’ambito di operatività della fattispecie si estenda anche alle condotte che, seppur non direttamente funzionali a consentire l’ingresso in Italia dei migranti “irregolari”, si pongono in continuità funzionale e temporale con esso, in quanto «intese a garantire il buon esito dell’operazione, la sottrazione ai controlli della polizia e l’avvio dei clandestini verso la località di destinazione», nonché a «tutte quelle attività di fiancheggiamento e di cooperazione collegabili all’ingresso degli stranieri»[10]. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, «per la sua natura di reato di pericolo», il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare «si perfeziona per il solo fatto che l’agente pone in essere, con la sua condotta, una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato, indipendentemente dal verificarsi dell’evento»[11]. Ai fini dell’integrazione del reato, quindi, non è richiesto che la condotta sia direttamente finalizzata a favorire l’ingresso, ma è sufficiente che questa – anche se non necessaria o meramente accessoria – sia legata da un rapporto di strumentalità, anche solo potenziale, all’evento. 

Secondo i giudici della I sezione, le condotte degli imputati non possono essere considerate né direttamente finalizzate, né teleologicamente connesse a favorire l’accesso al territorio nazionale di migranti “irregolari”, per cui è da escludere l’integrazione del fatto tipico del favoreggiamento dell’ingresso di cui al co. 1 dell’art 12. Anche sotto questo profilo, la Corte valorizza l’argomentazione della difesa rispetto alla netta cesura temporale tra l’ingresso in Italia dei migranti e gli aiuti prestati. Tra lo sbarco e le condotte incriminate era intercorso un lasso temporale tale da consentire lo svolgimento delle procedure di identificazione e la presa in carico dei migranti da parte delle autorità italiane, con l’attivazione, nel caso delle due giovani donne eritree, delle misure di prima accoglienza. Sul punto, la sentenza sottolinea che, affinché sia integrato «il concorso nel procurato ingresso in Italia, [la condotta] deve essere immediatamente successiva allo sbarco e costituire il contributo fornito dal soggetto in Italia al successo dell’operazione che ha avuto inizio nel paese straniero da cui sono partiti gli immigrati irregolari» (p. 17). Detta altrimenti, le condotte di facilitazione realizzate in un momento successivo all’attraversamento dei confini nazionali devono porsi senza soluzione di continuità con il percorso dei migranti favoriti.

La Cassazione censura quindi la valutazione operata dai giudici di merito secondo cui l’aiutato offerto da uno degli imputati alle due ragazze eritree, dopo che queste avevano lasciato il centro di accoglienza, costituiva una condotta strumentale a garantire la sottrazione ai controlli delle autorità. Non solo, infatti, sottolinea la Corte, l’allontanamento era stato volontario ma soprattutto i “controlli” menzionati dalla norma incriminatrice erano già stati eseguiti con l’identificazione e il fotosegnalamento da parte delle autorità di polizia nelle fasi immediatamente successive allo sbarco. Un’interpretazione questa che appare coerente con la natura delle misure di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia. L’accesso al sistema di accoglienza avviene, infatti, su base volontaria e – quantomeno formalmente – la collocazione in una struttura per richiedenti asilo non ha l’obiettivo di mantenere il controllo sui migranti beneficiari. Anche qui emerge con evidenza il ruolo avuto dalla contestazione associativa nel consentire di legare le azioni degli imputati, realizzate dopo l’ingresso e le procedure di identificazione, a quelle di altri presunti membri dell’organizzazione, avvalorando così l’esistenza di un rapporto di strumentalità, tra gli aiuti offerti e l’attraversamento illegale dei confini, altrimenti assente.

 

5. Infine, la sentenza si concentra sui profili inerenti al favoreggiamento dell’emigrazione illegale, per sviluppare due principi rilevanti in tema di integrazione del fatto tipico di reato. In primo luogo, secondo i giudici di Cassazione «deve escludersi la responsabilità [degli imputati, n.d.r.] rispetto ai clandestini che non avevano mostrato l’intenzione di andare all’estero» (p. 19). Per l’integrazione della condotta degli “altri atti diretti” a procurare l’ingresso illegale in un altro Stato, infatti, dev’essere provato l’elemento soggettivo della conoscenza della volontà di emigrare del migrante favorito e del percorso che questi intende intraprendere. Se è vero, infatti, che il supporto offerto sul territorio italiano può di per sé «rilevare come “atto diretto a procurare l’ingresso in Paese europeo”, trattandosi di delitto a consumazione anticipata»[12], è comunque necessaria la prova del progetto migratorio delle persone aiutate – tra cui, il paese di destinazione – e delle circostanze fattuali che caratterizzano l’eventuale attraversamento.

Inoltre, rileva il collegio, anche qualora sussista effettivamente lo scopo di emigrare illegalmente, e sia conosciuto dalla persona che offre l’aiuto, la condotta di favoreggiamento deve essere in concreto idonea a procurare – e non semplicemente a favorire – l’ingresso in un altro Stato. In tal senso, la sentenza valorizza il significato più stringente del termine procurare rispetto a quello di favorire. L’azione del soggetto – anche se di per sé non idonea a realizzarlo – deve avere uno scopo preciso, ovvero rendere possibile l’attraversamento di un confine determinato da parte del migrante favorito, in violazione delle norme sull’immigrazione dello Stato. Nel caso di specie, quindi, la Corte ribadisce che, per rilevare come atto diretto a procurare l’ingresso illegale, deve essere provato che «l’aiuto si inserisc[e] in un progetto ben definito di emigrazione verso altri Paesi europei» e, qualora vi sia la presunzione di un concorso con altre persone non identificate, è richiesto quantomeno che «l’imputato abbia assunto un ruolo di raccordo, sia pure limitato al territorio italiano» (p. 19).

Sempre con riferimento all’integrazione del fatto tipico del favoreggiamento all’emigrazione, la Corte sottolinea la necessità che lo Stato di destinazione del migrante favorito sia identificato con certezza e che, in concreto, «l’immigrazione in quel paese sia illegale» (p. 19). Il collegio prende le mosse dall’interpretazione offerta dalla sentenza n. 21 del 2009 della Corte costituzionale che, nel salvare da censura di illegittimità costituzionale l’art. 12 TUI, co. 1, nella parte che attribuisce rilevanza penale al favoreggiamento dell’emigrazione illegale[13], ha definito i parametri di valutazione della natura illecita dell’ingresso. Secondo la Consulta, «l'illegalità dell'ingresso in altro Stato [deve essere] verificata alla stregua della disciplina dello Stato in cui il soggetto favorito intende recarsi», e non già di quella italiana[14]. Come rilevato dal giudice rimettete, infatti, «il carattere della “illegalità” andrebbe stabilito facendo riferimento non già alle disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998, ma alla normativa del Paese estero di destinazione del migrante, ammesso che tale Paese sia individuabile con certezza: circostanza, quest'ultima, per nulla “scontata”, stante la struttura della norma incriminatrice, la quale punisce anche i semplici “atti diretti” a procurare l'ingresso in altro Stato, indipendentemente dal risultato conseguibile»[15].

Seguendo il ragionamento della Consulta, il collegio richiama la disciplina internazionale ed europea, da cui dipende la normativa italiana in materia[16]. La sentenza fa riferimento, in particolare, all’art. 3 lett. b) del Protocollo addizionale alla Convenzione di Palermo che, in relazione alle condotte di facilitazione, definisce l’ingresso illegale come «il varcare i confini senza soddisfare i requisiti necessari per l’ingresso legale nello Stato d’accoglienza». Alla luce della disciplina internazionale, la Corte ribadisce la rilevanza acquisita ai fini della configurazione del reato dell’«accertamento sia del paese estero verso il quale il migrante sia stato aiutato a recarsi, sia della disciplina sostanziale di quel paese in materia di immigrazione»: aspetti questi rimasti indeterminati nei gradi di merito. Secondo i giudici di Cassazione, l’eventualità che lo Stato di destinazione del migrante favorito non sia individuabile con certezza costituisce un ostacolo fattuale all’applicazione della norma incriminatrice. Di conseguenza, come statuito dalla Corte costituzionale, laddove persista «un insuperabile dubbio sulla identificazione di detto Stato e con essa, sul carattere illegale o meno dell’emigrazione favorita, il favoreggiatore dovrebbe essere evidentemente assolto»[17].  

Nel caso oggetto della sentenza, solamente di una delle persone aiutate era nota la destinazione finale: una giovane donna eritrea che, recatasi in Olanda per ricongiungersi ai suoi familiari, aveva ottenuto lo status di rifugiata ai sensi degli artt. 26 e seguenti dell’Aliens Act 2000. Secondo la Corte, il fatto che la donna abbia proposto domanda di asilo nel paese di arrivo in presenza dei requisiti per ottenerla determina l’irrilevanza penale delle eventuali condotte volte a procurarne l’ingresso nello Stato di destinazione, in quanto carente dell’elemento tipico dell’ingresso in violazione delle norme nazionali sull’immigrazione richiesto dalla norma incriminatrice. In altri termini, il riconoscimento dello status di rifugiata da parte delle autorità olandesi dimostra che la donna aveva titolo a risiedere nello Stato e che il suo ingresso non può essere a posteriori considerato illegale.

La Corte estende l’argomentazione all’ipotesi di condotte di favoreggiamento che coinvolgono minori stranieri non accompagnati. Secondo la procura, infatti, uno degli imputati aveva facilitato l’emigrazione di alcuni minori di nazionalità eritrea intenzionati a ricongiungersi con i loro familiari residenti in altri Stati membri. La Corte censura, in primo luogo, la mancata individuazione dello Stato di destinazione e, quindi, della legislazione applicabile, necessaria per l’«integrazione “eteronoma” del precetto penale» interno[18] e la valutazione dell’illiceità dell’ingresso. Ma soprattutto, la sentenza prende in considerazione la possibilità che l’ingresso dei minori non accompagnati nel Paese di destinazione sia comunque lecito in forza del Regolamento (UE) 604/2013 (c.d. Dublino III). Come è noto, l’art. 8 del Regolamento individua nella presenza di un familiare o di un parente legalmente residente in uno Stato membro (o comunque parte del sistema Dublino), il criterio prioritario di attribuzione della competenza sulle domande d’asilo dei minori non accompagnati. Quello previsto dalla norma europea è un «criterio di competenza vincolante» (consid. 16), posto a tutela dell’interesse superiore del minore e del diritto all’unità familiare, che costituiscono parametri fondamentali nell’applicazione delle procedure previste dal regolamento[19]. Secondo i giudici, quindi, la normativa europea renderebbe lecito l’ingresso di un minore non accompagnato in uno Stato membro dove risiede legalmente un suo familiare o parente, con la conseguenza di far venir meno il fatto tipico del favoreggiamento all’emigrazione eventualmente realizzato sul territorio italiano: e ciò, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, della domanda di asilo presentata dal minore nel Paese di destinazione.

Il ragionamento seguito dai giudici di legittimità segnala la contraddizione insita nella pretesa di accertare la liceità dell’ingresso dello straniero una volta per tutte sulla base del titolo posseduto o meno al momento dell’attraversamento dei confini nazionali, sia questo un visto di ingresso o un permesso di soggiorno. Non solo il diritto a “entrare” e “stare” sul territorio può, infatti, preesistere al formale riconoscimento da parte della competente autorità nazionale, come nel caso del diritto d’asilo, in cui la determinazione dello status ha mero valore dichiarativo. Ma soprattutto, la condizione giuridica della persona può evolvere nel tempo, in base a fatti sopravvenuti, tali da rendere lecito un ingresso avvenuto formalmente in violazione delle norme nazionali. Un ragionamento che emerge tra le righe della sentenza n. 250/2010 della Consulta sul c.d. reato di clandestinità, laddove i giudici costituzionali hanno sottolineato come il riconoscimento della protezione internazionale (e umanitaria) faccia venir meno il fatto tipico di reato, imponendo la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere[20]

Supportato da diversi precedenti, il passaggio richiamato si incentra sulla distinzione tra i richiedenti asilo e le altre categorie di migranti rispetto ai quali, ribadisce la Consulta, i doveri di solidarietà non prevalgono sugli obiettivi statali di controllo delle frontiere e dei flussi migratori, con l’eccezione dei soggetti non espellibili e del ricongiungimento familiare. Ma al di là di questa distinzione, che ricalca quella tra migrazioni forzate ed economiche, sempre più centrale nelle politiche migratorie europee, ciò che qui interessa è l’effetto che il sopravvenuto riconoscimento della protezione internazionale – o di altri status di protezione – produce sull’integrazione del fatto tipico del reato di cui all’art. 10-bis TUI. Facendo venir meno l’illiceità dell’ingresso (o del soggiorno) sul territorio nazionale, l’acquisizione di uno status giuridico previsto a tutela di diritti fondamentali della persona – come il diritto d’asilo, ma anche il diritto alla vita privata e familiare – si riverbera inevitabilmente anche sulla qualificazione giuridica delle condotte poste in essere da altri soggetti che ne hanno facilitato l’ingresso sul territorio nazionale, italiano o di altro Stato, in formale violazione delle norme sull’immigrazione. 

Il principio enucleato dai giudici di legittimità, in linea con quanto statuito dalla giurisprudenza costituzionale, si presta a un’interpretazione estensiva, anche al di là dell’ipotesi di facilitazione della c.d. mobilità secondaria di minori stranieri non accompagnati. Un ragionamento analogo può trovare applicazione per esempio alle condotte che favoriscono l’ingresso in Italia – o in altri Stati membri – di richiedenti asilo e altri soggetti a vario titolo non espellibili, con l’effetto di circoscrivere ulteriormente il potenziale operativo della fattispecie prevista dall’art. 12 TUI, che risulta oggi talmente ampio da prestarsi a strategie criminalizzanti della solidarietà e delle migrazioni che vanno ben oltre la repressione di fenomeni criminali transnazionali.

 

6. L’assoluzione dei quattro rifugiati eritrei nel processo Agaish stimola alcune riflessioni che vanno al di là delle questioni prettamente giuridiche affrontate nella sentenza. Sin dall’inizio del processo, la difesa ha sostenuto come le condotte incriminate dovessero essere interpretate attraverso la lente della solidarietà, come azioni motivate da ragioni altruistiche e dai legami familiari e comunitari tra i soggetti. L’argomento della solidarietà è stato rigettato senza esitazioni sia in primo grado sia in appello, e non ha trovato spazio nel giudizio di legittimità. Ma una volta accertate l’inesistenza dell’organizzazione criminale, l’assenza di finalità di profitto e l’irrilevanza penale delle condotte, non resta che riconoscere che a muovere gli imputati siano state quelle ragioni di solidarietà valorizzate dallo stesso art. 12 a salvaguardia dell’operato di chi offre assistenza ai migranti sul territorio italiano, a prescindere dalla regolarità del soggiorno.

La difficoltà dei giudici di merito nel riconoscere l’esistenza e il significato di rapporti solidaristici tra le persone migranti coinvolte nell’inchiesta non stupisce. Dentro e fuori le aule di tribunale, quando si parla di “criminalizzazione della solidarietà”, il riferimento è quasi esclusivamente ai procedimenti a carico di cittadini e attivisti italiani ed europei, impegnati in attività di soccorso in mare o a terra nell’assistenza a migranti e rifugiati. Raramente la solidarietà è evocata quando sul banco degli imputati siedono le persone migranti, nell’ambito di processi che colpiscono quelle reti diasporiche – in particolare, quella eritrea – che garantiscono aiuto e ospitalità alle persone in movimento verso e dentro l’Europa.

Dagli atti dei procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare a carico di migranti, spesso costruite intorno a ipotesi associative[21], si fatica a ritrovare l’immagine di trafficanti senza scrupoli che lucrano sulla disperazione di altri migranti. In molti casi, le condotte incriminate non sono poi tanto diverse da quelle che, quando poste in essere da cittadini italiani o europei, vengono ricondotte a ai “doveri di solidarietà sociale” sanciti dalla Costituzione. Se realizzate da persone migranti, invece, queste stesse azioni si caricano di disvalore giuridico (e morale), per essere sussunte sotto la fattispecie del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. 

Tra il deposito dei ricorsi e la sentenza in esame, altri due procedimenti per “favoreggiamento del transito” hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica: il caso di Linea d’Ombra a Trieste e quello di Baobab a Roma. Sebbene le condotte incriminate fossero in buona sostanza analoghe a quelle degli eritrei di Roma, nessuno ha seriamente dubitato che si trattasse di azioni solidaristiche, e non sono mancati la giusta vicinanza e il supporto agli attivisti coinvolti. Il procedimento contro i fondatori di Linea d'Ombra si è concluso con l’archiviazione da parte del Tribunale di Bologna, mentre i volontari di Baobab sono stati assolti al termine del giudizio immediato. In entrambi i casi, la decisione del giudice è arrivata su richiesta dello stesso pubblico ministero. Non si può non riscontrare la differenza con il trattamento riservato agli imputati del caso Agaish, assolti solo dopo un processo lungo sei anni, tre gradi di giudizio e quasi due anni di custodia cautelare in carcere. 

Il trattamento differenziale ai migranti accusati di favoreggiamento non dipende ovviamente solo da un discorso pubblico incentrato sulla figura del trafficante, che fa della solidarietà una prerogativa dei cittadini, ma anche da fattori strutturali che favoriscono l’applicazione di una giustizia più vicina al modello inquisitorio che a quello informato ai principi e alle garanzie del giusto processo[22]. Nella maggior parte dei casi, i migranti accusati di favoreggiamento non hanno i mezzi per accedere alla difesa di fiducia, né per sostenere le spese di processi lunghi e complessi, in cui è spesso fondamentale il ricorso a consulenti di parte, traduttori e a onerose indagini difensive. Tutte attività che le difese d’ufficio non sono spesso in grado di sostenere con la sola copertura del patrocinio a spese dello Stato. Non di rado, quindi, i processi per favoreggiamento seguono riti speciali, in cui la condanna è di fatto scambiata con una riduzione della pena. A ciò si aggiungono le difficoltà nella ricerca dei testimoni, quasi sempre altri migranti che si trovano ormai all’estero, e quindi non più ritracciabili, o che, vivendo in condizione di irregolarità, temono che la testimonianza equivalga ad autodenunciarsi all’autorità. E non è neppure un caso che, a differenza degli attivisti delle organizzazioni della società civile, alle persone migranti indagate o imputate per favoreggiamento sia sistematicamente applicata la misura della custodia cautelare in carcere. Le condizioni che caratterizzano la vita di larghe fasce di popolazione migrante in Italia, come la mancanza di una abitazione o di un lavoro regolare, o ancora di documenti di identità o di un titolo di soggiorno, rilevano come elementi che giustificano l’adozione della misura cautelare più afflittiva prevista dall’ordinamento italiano. E ciò è ancora più vero quando i procedimenti coinvolgono migranti appena arrivati sul territorio nazionale.

In tempi recenti, la repressione penale delle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ha assunto una dimensione preoccupante. In Italia, il progetto “Dal mare al carcere” calcola che, nell’ultimo decennio, sono stati oltre 2.800 i procedimenti penali ex art. 12 TUI a carico di persone migranti, spesso arrestate nelle fasi immediatamente successive allo sbarco[23]. Ma il fenomeno è tutt’altro che limitato al solo contesto italiano. Secondo i dati elaborati dalla Commissione europea, tra il 2008 e il 2016, oltre 81 mila persone sono state indagate o arrestate per smuggling dalle autorità degli Stati membri, con un andamento direttamente proporzionale al numero dei migranti entrati in Europa[24]. La lista delle principali nazionalità delle persone coinvolte non lascia molti dubbi circa il fatto che si tratti in gran parte di cittadini di stati terzi. E ancora, nella sola Grecia, sono oltre 8 mila i migranti arrestati tra il 2014 e il 2019 per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che rappresenta oggi la seconda ragione di detenzione nelle carceri elleniche[25].

Nel dibattito sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ciò che spesso viene perso di vista è che il diritto penale non si pone qui tanto a protezione delle presunte vittime dei trafficanti, quanto a difesa dei confini nazionali e della pretesa sovrana di gestire i flussi migratori. Ed è proprio in forza di questa legittimazione che l’art. 12 colpisce sia le organizzazioni della società civile che le condotte di aiuto reciproco tra migranti, a prescindere dall’esistenza di violenza, lucro o sfruttamento. Attraverso il dispiegamento della repressione penale contro le reti di solidarietà che supportano le persone in movimento – verso e dentro l’Europa – gli Stati riaffermano il proprio controllo sulla mobilità umana, in un’epoca in cui la possibilità di muoversi attraverso i confini è sempre più precondizione per l’accesso ai più elementari diritti fondamentali. Le recenti decisioni giurisprudenziali, che ai diversi livelli limitano l’operatività del reato di favoreggiamento[26], tra cui la sentenza n. 63/2022 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità delle aggravanti speciali di cui al co. 3, lett. d) dell’art. 12[27], aprono uno spazio per affermare, dentro e fuori le aule di tribunale, la prevalenza dei diritti sugli obiettivi politici di controllo delle migrazioni, oltre gli schemi imposti dal diritto penale.


 
[1] Sul tema della ampiezza dell’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice, in una prospettiva critica, S. Zirulia, Non c’è smuggling senza ingiusto profitto. Profili di illegittimità della normativa penale italiana ed europea in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, in Diritto penale contemporaneo, (3) 2020, p. 143 ss., www.dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/pdf/DPC_Riv_Trim_3_2020_Zirulia.pdf.

[2] La formulazione aperte della fattispecie si deve invece alla prima riforma della norma a opera della Legge n. 39 del 1990, c.d. legge Martelli. Sull’evoluzione della fattispecie di reato ex art. 12 TUI, si veda G. Savio, La sentenza delle Sezioni Unite sulla qualificazione come circostanze aggravanti delle fattispecie previste dall'art. 12 co. 3 del T.U. immigrazione, www. archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6376-la-sentenza-delle-sezioni-unite-sulla-qualificazione-come-circostanze-aggravanti-delle-fattispecie.

[3] Inizialmente i rifugiati coinvolti erano sei, due dei quali, imputati solo di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, sono stati assolti in primo grado. La vicenda è ricostruita in maniera approfondita da Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero per IrpiMedia Italia, disponibile a www.irpimedia.irpi.eu/traffico-esseri-umani-debacle-processi.

[4] Il caso di Medhanie Tesfariam Behre, falegname eritreo all’epoca poco più che trentenne, arrestato nel giugno 2016 con l’accusa di essere il trafficante di esseri umani, Medhanie Yedhego Mered, è ricostruita dal giornalista Lorenzo Tondo nel libro Il Generale, edito da La Nave di Teseo (2018). Nel luglio 2019, la Corte d’Assise di Palermo ha assolto Behre dall’accusa di essere a capo dell’organizzazione criminale, ma lo ha condannato per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare per aver inviato i soldi necessari a pagare il viaggio via mare del cugino. Behre è oggi libero ed è titolare di protezione internazionale in Italia.

[5] Tra queste, l’accampamento informale di Ponte Mammolo a Roma, sgomberato il 18 maggio 2015.

[6] Sulla scriminante umanitaria, si rimanda a A. Spena, Smuggling umanitario e scriminanti, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 4, 2019, pp. 1859-1908.

[7] L’espressione è ripresa testualmente dalla sentenza di primo grado della Corte di Assise di Roma del 13 marzo 2019.

[8] Cass. Pen., Sez. I, n. 10716/2008, n. 11702/2008, n. 11703/2008, n. 11713/2008 e n. 10255/2008.

[9] Sugli scopi illeciti come elemento tipizzante della fattispecie ex art. 461 c.p., si rimanda a G. Tona, G., I reati associativi e di contiguità, in Trattato di diritto penale, in AA.VV., Trattato di diritto penale, pt. spec., III, Torino, 2008, pp. 1063-1065, p. 1065 ss.

[10] Cass. Pen., Sez. I, n. 37277/2015; cfr. Cass., Sez. I, n. 19355/2011.

[11] Cass. Pen, Sez. I, n. 28819/2014.

[12] Cass. Pen, I sez., n. 45735/2017.

[13] La questione di costituzionalità era stata sollevata a seguito della modifica introdotta dall'art. 11, co. 1, della legge n. 189/2002.

[14] Corte costituzionale, sentenza n. 21/2009.

[15] Corte costituzionale, sentenza n. 21/2009.

[16] Per un’analisi critica delle differenze tra l’approccio adottato nella normativa internazionale e in quella europea, si veda V. Mitsilegas, The normative foundations of the criminalization of human smuggling: Exploring the fault lines between European and international law, in New Journal of European Criminal Law, 10(1), 2019, pp. 68–85. In relazione alla legislazione italiana, tra gli altri, la recente monografia, A. Spena, V. Militello, Between Criminalization and Protection. The Italian Way of Dealing with Migrant Smuggling and Trafficking within the European and International Context, Leiden, Brill, 2019.

[17] Corte costituzionale, sentenza n. 21/2009.

[18] Corte costituzionale, sentenza n. 21/2009.

[19] Art. 6, co. 1, del Regolamento (UE) 604/2013.

[20] Effetto che l’art. 10-bis estende anche ai casi di rilascio di permessi di soggiorno ex artt. 18, 18 bis, 20 bis, 22, comma 12-quater, 42 bis del Testo Unico Immigrazione.

[21] Le contraddizioni e le criticità dell’approccio antimafia nella repressione di presunte reti di trafficanti sono state documentate per la prima volta dall’indagine di Zach Campbell e Lorenzo D’Agostino, Italy's Anti-Mafia Directorate and the “Dirty Campaign” to Criminalize Migration, pubblicata su The Intercept, il 30.4.2021, e disponibile a: www.theintercept.com/2021/04/30/italy-anti-mafia-migrant-rescue-smuggling/

[22] Le criticità che caratterizzano questo tipo di processi sono ampiamente ricostruite nei report di Arci Porco Rosso e Alarm Phone realizzati nell’ambito del progetto Dal mare al carcere, disponibili a www.dalmarealcarcere.blog.

[23] I dati sono raccolti dal progetto Dal mare al carcere, i cui report relativi agli anni 2021 e 2022 sono disponibili a www.dalmarealcarcere.blog.

[24] EU Commission, Refit evaluation of the EU legal framework against facilitation of unauthorised entry, transit and residence: the Facilitators Package (Directive 2002/90/EC and Framework Decision 2002/946/JHA), SWD(2017) 117 final, Brussels, 22.3.2017, p. 71 ss.

[25] V. Hänsel, R. Moloney, D. Firla, R. Serkepkanî, Incarcerating the Marginalized. The Fight Against Alleged ›Smugglers‹ on the Greek Hotspot Islands, dicembre 2020, disponibile a www.bordermonitoring.eu.

[26] Sul tema, di recente, anche S. Benvenuti, Solidarietà contro favoreggiamento all’immigrazione irregolare, in Questione Giustizia, 21/12/2022, disponibile a www.questionegiustizia.it/articolo/solidarieta-francia-ita-cc

[27] Per un commento alla sentenza della Corte Costituzionale, si rimanda a S. Zirulia, La Corte costituzionale sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: illegittima l’aggravante che parifica il trattamento sanzionatorio dei trafficanti a quello di coloro che prestano un aiuto per finalità solidaristiche, in Sistema penale, 23 marzo 2022, www.sistemapenale.it/it/scheda/corte-costituzionale-2022-63-favoreggiamento-immigrazione-irregolare-aggravato-nota-zirulia. Per una lettura critica dell’argomentazione della Consulta, si veda A. Spena, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare vs. traffico di migranti: una dicotomia rilevante nell’interpretazione dell’art. 12 TUI? (Ragionando su Corte cost. 63/2022), in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 3, 2022, pp. 239-267.

14/02/2023
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