Magistratura democratica
Magistratura e società

Plotone rosso

di Patrizia Bellucci , Maria Cristina Torchia
Laboratorio di Linguista Giudiziaria Università di Firenze
Dal "segnar le case dei giudici" alla “lista di proscrizione” del settimanale Panorama: analisi delle dinamiche comunicative dopo la sentenza Mediaset
Plotone rosso

Nel mondo dei media

È un fatto ormai acclarato e imprescindibile che, nelle società complesse come la nostra, le strutture della comunicazione e il sistema dei mass media in particolare hanno assunto un’importanza e un ruolo cruciali.

Tutti noi, per orientarci e posizionarci nel presente, facciamo riferimento a ciò che i media dicono e mostrano e spesso l’informazione che essi ci offrono – poca e vaga o insistente e reiterata – è l’unica a nostra disposizione.

Con le rappresentazioni dei media, con i loro discorsi ci confrontiamo quotidianamente: per loro tramite acquisiamo conoscenze, ma assorbiamo anche schemi di interpretazione delle conoscenze stesse, di cui ci serviamo per definire la realtà.

Nel produrre informazioni, i mezzi di comunicazione non “riflettono” semplicemente la realtà, ma la “mediano” discorsivamente e dunque contribuiscono di fatto a definirla: chi opera la mediazione stabilisce unilateralmente che cosa dire e come dirlo, decide cioè, fissandoli, i criteri di visibilità e di rilevanza dei fenomeni collettivi e degli eventi potenzialmente dotati di interesse pubblico.

 

L’asimmetria della comunicazione dei media

Come è noto, la comunicazione “massmediatica” è strutturalmente una forma di comunicazione asimmetrica e unidirezionale: il destinatario non è mai fisicamente presente nel momento in cui l’atto comunicativo viene prodotto e dunque non può intervenire o replicare nell’immediato, come invece avviene nelle normali interazioni “faccia a faccia”.

Inoltre, lo statuto dei soggetti della comunicazione non è di fatto paritario, sia rispetto alle conoscenze che alla competenza comunicativa, all’autorità e al potere. Nel caso della comunicazione giornalistica, per esempio, soltanto chi controlla la produzione – e non la maggioranza dei destinatari – conosce tutti gli avvenimenti di cui si ha notizia (tramite fonti dirette e indirette) o tutti gli aspetti di uno specifico evento.

Chi produce la comunicazione, di conseguenza, ha il potere di selezionare, gerarchizzare, organizzare gli eventi rappresentati in modo tale che assumano una certa configurazione e un certo significato e non altri.

 

Linguaggio e democrazia

Certamente il destinatario non è un “ricevente” passivo, che accoglie supinamente tutti i messaggi che i media codificano e trasmettono; ogni destinatario, anzi, interviene sul testo interpretandolo a partire dal proprio bagaglio personale di conoscenze, motivazioni, valori, aspettative. È tuttavia vero che il cittadino-destinatario ha bisogno di competenze anche linguistiche e comunicative alte, per poter partecipare e reagire consapevolmente a temi e problemi sui quali i media ci informano.

Sono ormai molti e autorevoli gli studiosi, di varia provenienza e appartenenza, che individuano nel linguaggio – nelle sue modalità di impiego e nelle speculari abilità di riconoscerle e interpretarle – uno strumento essenziale dell’organizzazione democratica. Secondo il concetto di democrazia deliberativa – formulato da Habermas – una democrazia che voglia dirsi tale deve poter contare su una comunicazione pubblica libera e trasparente e su una società civile forte, comunicativamente competente, capace di controllare le informazioni, capire i significati anche impliciti dei testi, interpretare i discorsi.

Al contrario, è sotto gli occhi di tutti la mancanza di indipendenza dei nostri media e il livello drammatico dell’istruzione in Italia: il rapporto dell’Ocse Education at a Glance 2013 pone l’Italia agli ultimi posti fra i 34 Paesi considerati, all’ultimo per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione.

 

I “discorsi” dei quotidiani

La mediazione linguistica, la stessa attività di messa in discorso di concetti e informazioni non può mai essere un’operazione neutra: il testo non riflette passivamente la realtà, ma la ricrea trasformandola.

La realtà che “si legge” sui giornali, infatti, è sempre una realtà selettivamente ricostruita e messa in prospettiva, anche laddove – come ad esempio nei titoli – il testo del quotidiano si propone al lettore come sintesi descrittiva dei fatti.

In particolare, nella redazione di un giornale, la conversione di un evento in notizia – ovvero in resoconto giornalistico dell’evento – si realizza attraverso una fitta rete di procedure, che vanno dalla selezione dei contenuti informativi da trasmettere alla loro ricombinazione e organizzazione all’interno delle pagine, fino alla scelta delle strategie linguistiche dipresentazione dei contenuti stessi.

La composizione e configurazione del testo-giornale, proprio come ogni altro atto di produzione discorsiva, introduce ampi margini di soggettività, ma nel giornale questa soggettività inalienabile tende ad essere sottilmente dissimulata.

Il quotidiano fonda la propria attendibilità su un’apparente manifestazione di obiettività e proprio perché l’obiettività è garanzia di credibilità – e di conseguenza anche di mercato – le strategie linguistiche messe in atto a tal fine possono anche essere molto raffinate e non facilmente riconoscibili.

 

I titoli

All’interno di un giornale i titoli entrano in rapporto sia con gli altri titoli e con gli altri elementi della pagina (testi verbali e immagini), sia con gli altri titoli del giornale stesso. Questo intreccio costruisce un “testo” vero e proprio, che diventa il luogo privilegiato in cui ogni redazione sviluppa il suo discorso.

Si può comprendere, quindi, che i titoli rappresentino un punto nevralgico e strategico della comunicazione giornalistica scritta. Si consideri, fra l’altro, il tempo che un lettore medio dedica alla lettura dei quotidiani – o, più spesso, di un unico quotidiano – nonché le modalità di fruizione: un quotidiano – a maggior ragione se online lo “si scorre”, leggendo solo alcuni articoli e per il resto dando una rapida occhiata ai titoli.

Nei settimanali, invece, identica “scorsa” avviene sfogliando le pagine e soffermandosi – oltre e forse ancor più che sui titoli – sulle immagini e sulle relative didascalie.

 

I titoli dei quotidiani nel sistema integrato dei media

Bisogna inoltre sottolineare che in un’era come la nostra – dominata dal mezzo televisivo – la conoscenza degli eventi-notizia viene quasi sempre data per scontata, per cui i titoli dei quotidiani assolvono sempre meno alla funzione di “informare”, che dovrebbe essere loro costitutiva.

Anche nelle modalità di composizione dei titoli, la stampa italiana sembra rincorrere e imitare modalità e schemi del discorso televisivo, privilegiando gli aspetti drammatici e spettacolari, che propiziano l’immediato – nel senso proprio di “non-mediato” – coinvolgimento emotivo del lettore.

Per questa via, nei titoli è diventata predominante una funzione di tipo “pubblicitario”, il cui scopo principale non è più quello di dare la notizia, bensì di “rinnovarla”, rendendola “appetibile” per il lettore. Nei titoli, cioè, i giornali tendono a privilegiare quelle funzioni del linguaggio attraverso le quali si stabilisce e mantiene un contatto con il lettore e si ribadiscono vincoli di vicinanza ideologica ed emotiva che vanno oltre gli scopi puramente informativi.

 

Il ruolo strategico dei titoli (e delle immagini)

La consapevolezza del ruolo strategico dei titoli è confermata dal fatto che la composizione dei titoli rientra nei compiti “propri” della Redazione di ciascuna testata e non viene delegata ai singoli autori dei pezzi.

Infatti, non di rado, il resoconto dei cronisti è smentito da titolazioni reticenti, ambigue, o comunque conformi ad una determinata linea editoriale piuttosto che ai contenuti dell’articolo stesso.

La confezione dei titoli è un’importante operazione editoriale, tesa a garantire l’uniformità del testo-giornale, che conferisce alla testata un’identità immediatamente riconoscibile.

La composizione dei titoli in definitiva – insieme all’inserimento di immagini e relative didascalie – rientra fra le strategie con cui ogni testata giornalistica costruisce la propria “griglia interpretativa”, il proprio “discorso”, all’interno dei quali vengono situati quelli che si vogliono presentare come “fatti”.

Di conseguenza, anche quando vengono pubblicate opinioni differenti intorno a un dato argomento, la “cornice” in cui esse vengono collocate costituisce un fattore determinante, che ne indirizza la lettura e genera una musica di fondo – come la chiama Giulietto Chiesa – che incide sull’orientamento dell’opinione pubblica molto più delle singole voci.

 

Un evento e la sua “rappresentazione”

L’evento in questo caso è la condanna Mediaset di Berlusconi passata in giudicato e quindi con tutte le conseguenze politiche del caso.

Tutti i piani prima citati si sono sovrapposti e sono confluiti nelle ricostruzioni giornalistiche dell’evento, ma in diversa misura e con differenti modalità, dando origine a diverse definizioni della situazione e a determinate rappresentazioni del fatto e delle “identità” dei soggetti coinvolti.

 

Dalla metafora all’anatema

Le metafore son da sempre ampiamente attestate nel linguaggio politico proprio per la loro facile comprensibilità, incisiva impressività e alta forza suasiva, spesso a tutto danno di una più rigorosa – ma controargomentabile – argomentazione.

Il lessico militare è una fonte privilegiata per le tante metafore belliche di cui è infarcito il linguaggio politico e Berlusconi fin dalla sua prima “discesa in campo” le ha moltiplicate – la sua è stata da subito, con parole di allora, una chiamata alle armi – così come ha moltiplicato le metafore calcistiche, che tanto facilmente si rifanno allo sport e alla tifoseria nazionale: il suo staff ha sempre avuto ben chiara la particolare tipologia del mercato dell’informazione e del consenso in Italia.

Fin dall’origine la sua campagna elettorale si è configurata non come campagna “politica” ma come campagna pubblicitaria del candidato-prodotto, radicato anche per questa via e di volta in volta riconfermato negli anni e quindi anche in questo senso non-sostituibile.

La condanna Mediaset è come un accertamento di inquinamento del N.O.E. su un terreno da vendere.

La posta in gioco – anche rappresentativa – è altissima.

Un particolare “brontolar di tuoni” è arrivato in sordina all’inizio di agosto con il passar dalla metafora bellica addirittura all’anatema biblico dei due post su Facebook – riportati da Repubblica – del berlusconiano Michele Perini, Presidente di Fiera Milano: Facciamo come in Egitto, segniamo le case dei giudici che tutti sappiamo dove vivono e Al Giudice De Pasquale bisogna augurare un brutto vivere, di soffrire. A parte l’ignoranza del sacro – visto che i segni sulle case dei “giusti” dovevano servire a salvare dallo “sterminatore” – il livello minatorio dei due post è tale che stupisce che sia stato privo di conseguenze: questa non è “libertà di opinione”, ma in tutta evidenza “minaccia” in cui il che tutti sappiamo dove vivono richiama modalità mafiose.

Questo passaggio dalla metafora all’allegoria – che come nel fascismo tende a circondare “il capo” di un alone di sacralità e comunque ad assegnargli uno statuto di superiorità e di eccezionalità che lo sottragga alla comparabilità con gli altri cittadini – è stato poi ripreso anche in diverso contesto da voce mediaticamente non ignorabile. È stato addirittura il vicepremier Alfano che in una tavola rotonda di un Meeting di Comunione e Liberazione – rispondendo a un parroco che lo invitava a guardare i detenuti come se fossero nella condizione di Cristo – ha dichiarato: l’esempio di Cristo non poteva essere più pertinente perché evidenzia l’esigenza di un giusto processo e i limiti di un giudizio popolare. Anche in questo caso la distorsione dei fatti pertinenti al sacro – come ha fatto notare, ad esempio, Marco Imperato dalle pagine de “Il fatto quotidiano” il popolo ha fatto liberare Barabba al posto di Gesù – è irrilevante: ciò che serve e si pratica è l’operazione di innalzamento ad un “piano superiore” che è di per sé sottratto alla legge e ontologicamente insindacabile.

 

Da Facebook a Panorama

Il 22 di agosto il segnar le case dei giudici di Facebook si è concretizzato in una brutta “lista di proscrizione” – pubblicata dal settimanale Panorama – significativamente intitolata Giustizia o politica? e accompagnata da tanto di foto, fra cui spicca la “peculiare” quanto sinistra inclusione di quella di un magistrato che non c’è più: Gabriele Chelazzi, “reo” dei processi passati in giudicato per la strage fiorentina di Via dei Georgofili, di cui ancora peraltro non si sono chiariti i mandanti esterni a “cosa nostra”.

La lista di proscrizione nominativa è stata richiamata da un articolo del 22 agosto sul quotidiano di identico orientamento “Il giornale”, a firma di Mariateresa Conti: Il plotone dei pm rossi anti Cav: sono 20, con sottotitolo: Panorama ha censito i membri di Md e “Movimento per la giustizia” che hanno inquisito il leader. Si ritorna alla metafora bellica con una “messa in discorso” in cui i reati condannati o inquisiti sono spariti: i pm rossi – la cui non-terzietà viene così affermata – non sono “contro i reati” ma anti Cav e si sono permessi di inquisire – lo si noti bene –non un cittadino fra gli altri e secondo il principio di obbligatorietà dell’azione penale ma il leader, della cui sacralità e sottrazione ai parametri democratici si è già detto e altro si potrebbe dire, come è sotto gli occhi di tutti.

La prova della non-terzietà e dell’attacco al leader è, fin dal titolo, l’appartenenza a Md e Movimento per la Giustizia-art.3: sono due Associazioni di settore e di conseguenza il lettore comune non ne ha né conoscenza né esperienza dirette, per cui è totalmente orientabile in quanto non in grado di contrapporre analisi critiche e ancor meno di controargomentare.

Scrive “Il Giornale”: i pm “rossi” – laddove per “rossi” si intende pm aderenti alle correnti di sinistra delle toghe, e cioè Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, dal 2011 federate nel cartello elettorale Area – sono almeno 20, mentre si omette qualunque altra definizione o notizia sulle altre Associazioni e sugli inquirenti di Berlusconi ad esse collegati.

 

Effetto-spot

Quando la complessità e interezza di un fatto viene oscurata e negata dalla scelta giornalistica di puntare tutti i riflettori su un frammento – reale o falso che sia poco importa – l’impatto massmediatico del particolare ingigantito ha la forza suasoria di uno spot pubblicitario. L’impressione che suscita è così vivida (“effetto di reale” ovvero illusione di realtà) da resistere ad ogni smentita.

Ne è un esempio evidente il "tormentone periodico" – come lo ha opportunamente definito Livio Pepino sul “Manifesto” del 21 agosto – giocato attorno al lessema toghe rosse a cui è in tutta evidenza legato con ripresa analogica intertestuale il plotone rosso de “Il giornale”.

Creata la cornice, il frame interpretativo di cui abbiamo detto, diventa fondamentale chiave di lettura univoca – in quanto non controargomentabile dal lettore comune – la definizione delle due Associazioni.

Ecco la definizione sintetica di Md di Panorama del 21 agosto nell’articolo significativamente intitolato Tutto il potere a toga rossa (che merita di esser letto nella sua interezza per aver più evidenti la “messa in forma” del discorso con cui si “crea” la realtà notiziata e la definizione di persone ed eventi): Md nasce nel luglio 1964 a Bologna: il suo obiettivo statutario è condizionare la giurisdizione in senso progressista con “l’uso alternativo del diritto”. Contrari a ogni gerarchia in magistratura, i suoi aderenti (all’inizio pretori d’assalto e poi soprattutto pm) sono stati vicini al Pci e ai partiti che ne hanno raccolto l’eredità: il Pds, i Ds e oggi il Pd. Ha 8-900 aderenti. In Giustizia o politica? del successivo, citato, numero di “Panorama” si ribadisce, tra l’altro, che nasce come corrente fiancheggiatrice del Pci così come si afferma che Movimento per la giustizia è corrente trasversale, per certi versi più a sinistra di Md. Area è sempre presentata come cartello elettorale.

Fra le scritte trasversali – e quindi in piena evidenza – spicca: Due terzi delle inchieste contro Berlusconi sono state condotte da un pm con un’ideologia opposta a quella dell’indagato – documentata per il riferimento di corrente – in cui si stabilisce nel lettore un nuovo e singolare “principio di diritto” secondo il quale la terzietà comporterebbe la selezione fra gli inquirenti di pm e giudici con ideologia uguale a quella dell’indagato.

D’altronde la conclusione – che è sempre occupata da massima salienza informativa – dell’articolo è questa: Insomma, Berlusconi in 34 procedimenti si è scontrato con almeno 26 pubblici ministeri che erano intimamente o esplicitamente suoi avversari ideologici. Si può parlare, allora, di uso “politico” della giustizia? (in cui la domanda retorica serve solo a radicare nel lettore l’illusione di esser lui a trarre la deduzione finale, la tesi).

Nella singolare lista di foto dei 20 pm rossi ciascun nome si associa anzitutto la titolarità dei processi in cui Berlusconi è stato o è coinvolto. Il “rovesciamento” è totale: la deduzione da fare e implicita non è più la titolarità di reati ma l’equipollenza fra “processo” e “persecuzione politica”.

 

Ricostruzioni della realtà

I lettori di questa rivista sono in grado di continuare un’analisi più dettagliata di questi articoli e di quel che sta “passando” su reti e testate berlusconiane. È evidente che l’occhio selettivo delle redazioni, in sintesi, compone frammenti di discorso, li ordina in una certa sequenza di maggiore o minore visibilità, finisce per alterare il senso della realtà e delle proporzioni, deformando l’immagine complessiva degli eventi, piegandoli entro i propri schemi interpretativi, le proprie categorizzazioni e definizioni.

 

Asincronia

Nonostante il suo caratterizzarsi come genere di approfondimento, sotto la spinta dei continui progressi tecnologici e della logica concorrenziale interna al sistema dei media, i giornali inseguono il modello televisivo.

Oltre a mutuare dai telegiornali l’agenda degli eventi emergenti, perfino i quotidiani – a maggior ragione quelli onlinehanno fatto proprio anche l’imperativo della rapidità dell’informazione. L’informazione veloce crea un effetto di tempestività, un effetto di presenza che aumenta l’alone di autorevolezza e di credibilità di chi trasmette le notizie. Si genera così una semplificazione del discorso informativo, che riduce e opacizza la complessità dei fenomeni sociali su cui l’informazione verte.

L’immediatezza, la “visibilità” e la spettacolarità diventano, cioè, ingredienti irrinunciabili del discorso informativo, a scapito della problematizzazione e della comprensione dei fenomeni oggetto di discorso. Questa discrepanza fra tempo “veloce” dell’informazione e tempo “più lento” della conoscenza/comprensione di eventi e fenomeni complessi – come i procedimenti penali – mette il destinatario del discorso informativo costantemente fuori sincrono.

 

Il lettore-consumatore

Così il bisogno/diritto del cittadino-lettore di essere informato viene scavalcato, mentre si accentua il suo ruolo di consumatore onnivoro: si configura, cioè, una situazione in cui i media informativi, in concorrenza fra di loro, gareggiano nell’offrire al potenziale utente la migliore opportunità di accedere velocemente e facilmente al mercato dell’informazione né più né meno di quanto avviene sui mercati dei servizi (M. Wolf, Le discrete influenze, in «Problemi dell’informazione», XXI, 4, 1996, p. 484), indipendentemente dalla qualità di tale informazione.

 

Il deficit di domande

Ma ciò che lascia perplessi e a disagio non è il deficit di risposte, bensì il deficit di domande.

La certezza con cui viene offerto un quadro d’insieme che appare onnicomprensivo e coerente – in cui tout se tient – produce una semplificazione che “fa breccia”, perché nella sua schematicità fa quadrare ogni cosa.

Nei giornali qui considerati è evidente che è scomparso il fatto – la condanna per frode fiscale – e si è creato un sostitutivo evento-notizia: la persecuzione politica di Berlusconi.

 

Il paradosso italiano: la non-controargomentabilità

L’assetto proprietario e politicamente spartitorio delle reti e delle testate italiane – in cui ciascuna ha solo la funzione di confermare e rinforzare un pubblico già fidelizzato – fa scorrere su binari paralleli e che non si incontrano mai le informazioni diversamente orientate.

Nel caso specifico, ad esempio, il doveroso comunicato stampa dell’ANM è stato riportato e ripreso da alcune redazioni – come “Il fatto quotidiano”, “Repubblica” ecc. – ma come prevedibile non da quelle berlusconiane, che non sono poche.

Analogamente, gli interventi dei magistrati tesi a ristabilire una diversa decodifica dei fatti – da Pepino a Caselli a Imperato – sono stati ospitati e ripresi solo da alcune redazioni e non dalle altre.

Le diverse “verità”, cioè, non si incrociano mai, non si confrontano realmente nel mercato dell’informazione. Questo “confronto” – in teoria possibile in un astratto e generico contenitore la stampa e l’informazione italiana – si scontra con i consumi informativi reali degli italiani: tutte le rilevazioni ci dicono infatti costantemente che la maggior parte delle persone seleziona le reti televisive sulla base delle proprie posizioni politiche di fondo e – in quella minoranza che li legge – quasi nessuno oltrepassa la lettura di un quotidiano.

L’assetto proprietario e il conflitto/i conflitti d’interesse sommati ai tassi di istruzione e di consumi mediatici determinano, di conseguenza, la non resolubilità per via comunicativa della libertà d’informazione in Italia: quando i fiumi non si incontrano non esiste il confronto che garantisce la libertà di scelta informativa.

Non possono essere i comunicati stampa – pur doverosi e necessari – o le altrettanto auspicabili prese di posizioni autorevoli a ristabilire la democrazia deliberativa di Habermas. Servono leggi.

Nel frattempo quei 20 magistrati son rimasti “esposti”.

29/08/2013
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