Magistratura democratica
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Le domande di Questione Giustizia a Luisa De Renzis, sostituta procuratrice generale presso la Corte di Cassazione

In un periodo di aspre ed incessanti polemiche sulla giustizia e sulla magistratura, il Parlamento è prossimo all’approvazione di un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura.
Il direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi, ha posto a magistrati, diversi per età e per le funzioni svolte, alcune domande – volutamente sempre le stesse – sui principali aspetti della vicenda istituzionale in corso: la valutazione del progetto di riforma; il giudizio sulla scelta dell’astensione dal lavoro; le trasformazioni in atto nella magistratura; i percorsi da intraprendere per riconquistare la fiducia dei cittadini dopo gli scandali sulle nomine. 
Lo scopo dell’iniziativa è quello di rappresentare - in termini più approfonditi ed argomentati di quanto sia possibile sui media generalisti - la pluralità dei punti di vista e delle prospettive che coesistono in seno alla magistratura.

Quale è la tua valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?

La spinta riformatrice[1] costituisce un doveroso e nobile tentativo di assicurare un assetto organico al comparto della giustizia (giustizia penale, giustizia civile, ordinamento giudiziario).

Una riforma imponente (si tratta di una riforma orizzontale e di contesto nell’ambito degli interventi post-pandemia) alla quale certamente va ascritto il grande merito di avere ripreso le fila dei tentativi di riforma parziali ed incompleti degli anni precedenti.

Va però osservato che gli obiettivi c.d. essenziali correlati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (che prevedono la riduzione dei tempi del processo del 25% nel settore penale e del 40% nel settore civile entro i prossimi cinque anni) rischiano di fuorviare il contenuto della riforma, facendole assumere la parvenza di un contenitore di norme tutte orientate su un unico e preponderante obiettivo: quello dello smaltimento rapido ed efficiente dei processi e del raggiungimento dell’ intento consistente nella velocizzazione sempre e comunque.

Gli obiettivi sono coerenti con i principi costituzionali e con quelli sovranazionali perché la giustizia deve funzionare in modo rapido ed efficiente tanto che la ragionevole durata del processo può essere ascritta, a ragione, tra i requisiti del giusto processo (artt. 111 Cost. e 6 Cedu).

L’impostazione di partenza però non persuade del tutto: vi si coglie l’esigenza di una preponderante valutazione del lavoro del magistrato su parametri che, pur utili come meri indicatori della professionalità, divengono il perno di un sistema improntato su dati statistici e su una valutazione di tipo aziendalistico che rischiano di oscurare la fisionomia autentica del lavoro del magistrato.

Senza entrare nel dettaglio dei singoli interventi di riforma, in termini ben più generali, si coglie il valore di fondo, la parola chiave che caratterizza il testo normativo: l’efficienza diviene un valore autonomo sganciato da ogni altro aspetto del giudizio.

Si tratta di un aspetto (quello dell’efficientismo produttivista) che perde la sua originaria funzione di ausilio rispetto al giudizio (nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria e della ottimizzazione delle risorse strumentali) ed è destinato ad assorbire la stessa funzione cognitiva del giudizio, quasi confondendosi con esso.

Arriveremo così a pensare che un giudizio efficiente è anche per definizione un giudizio giusto? 

Non persuade, sempre nell’ottica dell’efficienza, la sicura e non comprovata convinzione che le modifiche nel rito siano sempre e comunque di per sé risolutive per la velocizzazione del processo.

La giustizia procedurale non basta da sola a deflazionare; si prenda ad es. il giudizio civile dove la introduzione di modelli ordinari - per così dire semplificatori - dovrebbe fare i conti con la urgente ricognizione dei c.d. riti speciali che continueranno a trovare applicazione con una indomita proliferazione di riti non certo utile alla auspicata definizione sollecita delle controversie.

Il valore dell’efficienza permea di sé non solo il processo ma delinea anche un magistrato dal volto nuovo.

Il magistrato relegato al ruolo di definitore seriale ed efficiente di processi non risponde al modello voluto dalla costituzione perché l’attività del magistrato, e questo va sempre tenuto a mente, è tutta incentrata nella complessa «quotidiana necessità di scegliere fra diverse interpretazioni giuridiche, tutte formalmente legittime», orientando la scelta sulla base di una attenta selezione degli interessi e dei valori in gioco secondo gli schemi della Costituzione[2].

La premessa sin qui svolta mi è necessaria per introdurre il tema delle riforme sull’ordinamento giudiziario.

Mi pare evidente che le riforme di ordinamento giudiziario trovino sempre un aggancio diretto al modello ideale di magistrato che un dato ordinamento intende valorizzare.

Per questo analizzerò solo alcuni punti della riforma che non reputo rispondenti al mio modo di essere magistrato. Del resto, con poche battute, sarebbe impresa ardua analizzare a fondo il progetto di riforma. Cercherò però di far comprendere il mio punto di vista.

Ecco, concentrando l’attenzione su alcuni aspetti relativi al disegno di legge n. 2595[3] si coglie, a mio avviso, un tratto non positivo che è direttamente correlato all’efficientismo produttivista: il lento scivolamento verso la figura di un giudice eccessivamente burocratizzato, molto attento ai numeri ed alle statistiche.

Non dico che il magistrato debba vivere sulle nuvole e non interessarsi agli aspetti organizzativi del proprio lavoro ma occorre preservare quella centralità della funzione giurisdizionale, che non coincide affatto con un magistrato più attento alle statistiche che alla bontà del proprio lavoro.

Intendo dire: ci sono nella professione del magistrato moltissime attività che non possono essere ridotte a statistica e che se divenissero freddi dati statistici perderebbero il valore che gli è proprio.

Si tratta infatti di funzioni ad alto contenuto umano (“da maneggiare con cura”) e credo che ogni riformatore debba tenere conto di queste peculiarità per non snaturare la funzione giurisdizionale.

Ecco perché di questa riforma non valuto positivamente la norma che prevede l’istituzione del fascicolo del magistrato (art. 3, comma 1) da taluni commentatori definito, forse anche con un po' di ironia, come il fascicolo della performance.

La formazione di fascicoli personali improntati a criteri di efficienza decisionale e di conformità con i gradi successivi predice molto più di quanto non sia immaginabile.

Una previsione che lascia riflettere perché quando prevale la preoccupazione di valutare l’operato professionale sulla base di una acritica conformità (anche nei gradi successivi) si dà ingresso ad un lento ma inesorabile mutamento della funzione giurisdizionale: il pensiero si accomoda così, quasi senza accorgersene, sulla soluzione meno invadente, sulla soluzione meno dirompente, sulla soluzione che consente di rischiare meno.

Non sono mancate le voci che, al contrario, hanno stemperato le critiche ritenendo che già oggi esistono norme che impongono di considerare, quali indicatori della capacità del magistrato, anche l’esito degli affari nelle successive fasi nei gradi del procedimento e del giudizio (cfr. art. 11, comma 2 lett. a del d.lgs 160/2006).

Certo se è vero che il magistrato colto e professionale non teme alcun giudizio è anche vero che la norma, laddove non attuata secondo criteri di ragionevolezza e laddove applicata al merito delle singole decisioni, può condurre ad esiti non confortanti.

Non appaga nemmeno pensare che la valutazione a campione delle “gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi” sia condotta secondo criteri statistici che tengano conto della percentuale degli scostamenti tra le rispettive fasi del giudizio.

Non si comprende poi come possano essere identificate le “gravi anomalie” dal momento che si tratta di una clausola aperta tutta da riempire di contenuti e quali siano invece gli scostamenti considerati fisiologici e non affetti da anomalia grave.

In conclusione, la norma - anche a volerla considerare con un giudizio benevolo - non mi convince affatto perché introduce nel momento (fondamentale) della valutazione professionale specifici elementi che non tengono conto della peculiarità del lavoro giurisdizionale e del fisiologico scostamento tra le decisioni nei vari gradi di giudizio. 

Ancora, valuto con qualche perplessità il testo introdotto dall’art. 3 comma 1 lett. a) del disegno di legge sul ruolo degli avvocati e professori universitari nell’ambito delle competenze riservate al Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari.

E’ stata inserita, attraverso l’attività emendativa, la previsione di un voto (seppure unitario) quando il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati provveda ad effettuare le segnalazioni sui singoli magistrati in valutazione. Si tratta di conferire nuova vitalità alla disposizione già introdotta dall’art. 11, comma 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 mediante il meccanismo del voto unitario.

Non è in discussione la funzione dell’Avvocatura che, tra l’altro, dovrebbe esprimere la volontà non del singolo avvocato ma dell’Organo di Autodisciplina, tuttavia occorre riflettere a fondo se possa dirsi auspicabile un modello valutativo in cui l’avvocatura, da prezioso interlocutore dell’attività giurisdizionale, divenga un valutatore esterno come accade in altri settori nei quali si richiede a coloro che fruiscono delle prestazioni di certificarne la bontà ed il grado di soddisfazione.

Va poi detto che ove non sia assicurata una sicura imparzialità del componente laico avvocato, che in costanza di mandato potrebbe continuare a svolgere la professione forense, si porrebbero non pochi problemi. Si pensi ad es. ai distretti di piccole dimensioni dove il voto unitario dell’avvocatura sarebbe destinato ad incidere non poco.

Resta poi il nodo centrale, quello della separazione delle funzioni. Un vecchio cavallo di battaglia che torna ad essere galoppante quando la magistratura attraversa momenti di fragilità.

Inutile dire che molti di noi sono cresciuti nella sicura convinzione che mettere paletti tra una funzione e l’altra sia una incomprensibile privazione, una inaccettabile menomazione della funzione giurisdizionale ed una improduttiva modifica ordinamentale perché, a ben vedere, creando funzioni separate non si eliminano i guasti del sistema ma, al più, li si fossilizzano all’interno della categoria di riferimento.

Mi piace introdurre una riflessione che riguarda le origini del p.m. in ambito civile; è molto interessante esaminare le varie tappe storiche per constatare che il pm si è ben presto affrancato dalla soggezione al potere regio per entrare, a pieno titolo, nella giurisdizione. A tal proposito è sufficiente verificare l’ampia bibliografia richiamata dall’Allorio che, nel 1941, pubblicò un saggio su Il Pubblico Ministero nel nuovo processo civile.

Si tratta di un saggio, a distanza di anni, di grande attualità per la comunanza di problematiche e per la ricchezza degli spunti di riflessione offerti nell’inquadramento concettuale del pubblico ministero.

A ben vedere, a parte la trattazione della figura istituzionale del pubblico ministero nell’ambito dei testi di procedura civile e dei vari commentari ragionati, è assai più raro trovare approfondimenti sistematici con riflessioni sulla funzione in sé (ancora tutta permeata di modernità) e sulla perdurante vitalità del pubblico ministero come protagonista della funzione giurisdizionale e giusto contrappeso alla complessità del diritto moderno. Le origini dell’istituto vanno ricercate nella legislazione francese dove, sin dal 1300, si impose la peculiare figura del procuratore degli interessi regi tanto che i re di Francia erano soliti farsi rappresentare da procuratori e da avvocati nelle cause in cui veniva in rilievo il loro interesse personale o un interesse pubblico[4].

Si trattava di una magistratura strettamente collegata al potere regio (in funzione di dipendenza) che però, ben presto, seppe assumere anche atteggiamenti di marcata opposizione allo stesso potere che l’aveva istituita, sino a concludere verbalmente disattendendo le istruzioni scritte ricevute[5].

Il codice di rito italiano del 1865, mutuando al proprio interno numerosi principi giuridici importati dalla Francia, istituì la funzione del pubblico ministero e tale ruolo è rimasto immutato sino ad oggi: il passaggio all’ordinamento Zanardelli peraltro favorì il rientro del pubblico ministero nella giurisdizione e l’unificazione delle carriere tra la magistratura giudicante e la magistratura requirente.

Si è trattato di un percorso storico che ha caratterizzato la figura (istituzionale) del pubblico ministero quale soggetto, inizialmente in contrapposizione alla giurisdizione, per poi svolgere un ruolo di controllo e, in ultimo, nella versione moderna, un importante ruolo nella funzione giurisdizionale quale garante e custode della legalità.

Ebbene, io trovo un controsenso che oggi si stia ragionando per ricostruire un percorso inverso rispetto a quello che la storia ci ha consegnato: una cultura giurisdizionale comune si è imposta nel tempo e varrebbe la pena preservarla.

 

Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?

«Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati[6]»: ecco, espressa in poche e significative battute la ragione che ha condensato il desiderio impellente della magistratura di essere ascoltata.

Si tratta di un invito (quello dell’ANM ad essere ascoltati) del tutto condivisibile, anzi necessario, perché nessuna riforma politica può essere attuata se non porgendo l’orecchio all’interlocutore per testare le ragioni profonde delle scelte riformatrici e per rifletterne sui possibili esiti.

Il compito del legislatore è infatti quello di prefigurare con saggezza l’assetto futuro della società e dei vari settori nella quale essa si compone. Il comparto giustizia, come sappiamo, rappresenta uno degli snodi fondamentali per la riorganizzazione post-pandemia e, non a caso, il piano nazionale di ripresa e resilienza contiene specifiche misure che intervengono sul sistema giudiziario quale potente propulsore della ripresa sociale.

Si tratta di riforme finalizzate a velocizzare lo svolgimento dei processi, a prevedere specifici stanziamenti per la digitalizzazione dei procedimenti giudiziari, a gestire il carico (pregresso) delle cause civili e penali. 

Ecco allora che il disegno di legge n. 2595 (un grande contenitore di proposte riformatrici di tipo ordinamentale nel comparto giustizia) diviene l’occasione per stimolare il dialogo e per sollecitare l’ascolto di cui la magistratura ha tanto bisogno.

Ma è ragionevole sostenere che la magistratura per essere ascoltata sulle riforme ha la necessità di scioperare? 

Non vi è il rischio che lo sciopero, pur legittimo, divenga una reazione destinata ad allontanare l’ascolto e, prima ancora, il dialogo con gli interlocutori? Non vi è il rischio, anche alimentato dai soliti luoghi comuni, che lo sciopero divenga una scelta difficile da giustificare agli occhi di una società stremata e preoccupata da una lunga serie di eventi che hanno messo a dura prova il mondo intero? E poi ancora: quanto la magistratura, scossa dalle burrascose vicende che ne hanno messo a nudo le fragilità, è convinta di poter legittimamente intraprendere un percorso dialogante con la politica senza dover chinare il capo con il timore di subire riforme punitive? Lo sciopero è l’unico rimedio possibile per allontanare questi timori oppure esiste un’alternativa? 

Una lunga serie di domande si agitano nella mente con la convinzione che lo sciopero sia stato un piccolo e poco incisivo tassello nel tentativo di individuare la soluzione di un grande problema: quello prioritario di riallacciare il dialogo con la società e di recuperare l’essenza (profonda) di una magistratura sul cammino della propria sofferta identità.

Sin da quando ero una giovane uditrice ho vissuto sulla mia pelle la difficoltà del giudizio, la sensazione di non avere colto, in tutti i suoi tratti, la delicata vicenda umana che si pone alla base del giudizio stesso (da intendere come necessaria applicazione del diritto al «piano della vita nella ricchezza e varietà delle sue forme e sfere»[7]) e l’obiettivo era sempre quello di dover migliorare, sempre, prima ancora come donna, perché non è possibile essere magistrati senza avere coltivato la propria umanità: in fondo giudicare è anche comprendere il vissuto altrui (entrare nel fatto senza disdegnarne la comprensione).

Sono riflessioni che - a giudizio di alcuno - potrebbero esulare dal tema di fondo come inutili divagazioni persino dal sapore un po' antico; al contrario, sono convinta che, solo riflettendo sull’essenza autentica dell’essere magistrati, si possa fare luce sui tanti problemi che affliggono questa professione. 

Sono certa che le riflessioni ideali, veicolate nelle forme e nelle modalità più appropriate (es. la richiesta di un confronto serrato e dialogante nell’ambito dei lavori parlamentari ma anche le necessarie divulgazioni nell’ambito della comunicazione che escano dalla logica di una magistratura associata tutta colpevole delle degenerazioni correntizie), siano destinate ad incidere nella società con una eco certamente maggiore di quanto una giornata di astensione dal lavoro possa fare. Ecco allora, ad esempio, che il c.d. fascicolo delle performance, di cui ho già parlato, può divenire una preziosa occasione per riflettere e per far riflettere la collettività che non si tratta di prestazioni (quelle correlate al giudizio) così facilmente catalogabili in termini di sicura riuscita e che la “grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi e nei gradi successivi del procedimento e del giudizio” non può costituire indice attendibile di valutazione professionale perché, nella difficile arte del giudizio, non è corretto attribuire ai gradi successivi del procedimento aspetti indiscussi di verità sostanziale e procedurale. 

Tra l’altro, la complessità del diritto moderno rende inevitabile una fisiologica alternanza nella prospettazione di tesi giuridiche non sempre identiche e con un processo decisionale molto spesso strutturato per tappe (si pensi alle ipotesi di annullamento con rinvio dove diverrebbe impossibile contabilizzare se e chi, in quale stato e grado, debba rispondere della “grave anomalia”). Ancora, la difformità di vedute tra il p.m. ed il giudice non può essere intesa a priori come un disvalore ma, al contrario, può essere ascritta nei termini di un prezioso contributo all’inquadramento di questioni giuridiche controverse quasi mai risolvibili in senso univoco.

Mi pare evidente che coltivando le riflessioni ideali non è mai auspicabile che un magistrato sia impegnato nella conta ragioneristica dei successi professionali e delle conformità con i gradi successivi.

Viceversa, alimentando i circuiti di una esaltazione indiscriminata della carriera, diventa inevitabile che la stessa magistratura sia la peggiore nemica di se stessa in una sorta di corto circuito istituzionale che, anziché produrre benefici, acuisce sempre più il distacco da quelle ragioni ideali che occorre riprendere con coraggio e con determinazione.

Le proteste coraggiose dunque sono indispensabili ma devono partire da una rinnovata capacità di coltivare le riflessioni ideali (anche e soprattutto dall’interno), dalla necessità di uscire dalla programmazione della propria attività professionale secondo forme di carrierismo esasperato e di spartizione degli incarichi apicali.

Arrivati a questo punto resta da porsi l’unica domanda possibile: Siamo ancora capaci di riflessioni ideali? 

Solo nelle riflessioni ideali autentiche scorgo una via d’uscita: l’impegno coraggioso di recuperare l’essenza (profonda) di una magistratura sul cammino della propria sofferta identità e l’esempio dei tanti magistrati, che hanno combattuto per una società migliore, possono costituire l’unico autentico stimolo per la crescita della giustizia e per essere considerati interlocutori credibili al cospetto della società.

 

Al di là dei luoghi comuni – il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto – l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensi che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura?

L’esito dello sciopero rappresenta la fotografia di una magistratura molto cambiata rispetto al passato o comunque di una magistratura che ha acquisito una maggiore consapevolezza delle proprie fragilità.

Vi è una nutrita rappresentanza di magistrati che, pur non essendo entusiasta della riforma, non ha aderito all’astensione dalle funzioni giurisdizionali a causa di una rinnovata capacità di mettere in discussione ciò che proviene dagli organismi associativi. Infatti, non sono mancati coloro che hanno ipotizzato una seria crisi di rappresentatività dell’ANM. A torto o a ragione vi è la convinzione che i vertici associativi, anche quelli di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza, siano espressione di logiche di potere che si estendono in una sorta di circuito unico girevole che va dal CSM, all’Associazione Nazionale Magistrati, alla politica attiva ed alle carriere ministeriali.

Sono convinta però che l’ANM, nonostante ciò, non debba rinunciare ai propri legittimi spazi di intervento nel dibattito parlamentare ancora in corso e non debba rinunciare all’idea di recuperare il dialogo con l’intera magistratura: la partecipazione alla vita associativa resta un valore da preservare e da coltivare per sfuggire alla triste logica dell’individualismo.  

 

Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono “controintuitivi”. Ad esempio l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quella di altri settori professionali. E’ ancora possibile, come avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?

Siamo ancora capaci di riflessioni ideali? 

Ripropongo anche a me stessa la solita vecchia domanda. 

Le riflessioni ideali hanno sempre il significato di una svolta, non passano mai di moda e sono indispensabili per mettere a fuoco gli errori commessi e soprattutto per prendere le distanze da modelli di magistrati dediti esclusivamente a pianificare a tavolino le carriere proprie e quelle degli altri.

Non si tratta di puntare il dito contro qualcuno ma di avere il coraggio di costruire seri percorsi di autocritica, utili per disgregare, una volta per tutte, quelle perniciose forme corporative che distolgono lo sguardo dalla funzione (alta) che il magistrato è chiamato a svolgere ex art. 107 Cost.

In questo senso è ancora possibile, anzi direi inevitabile, assumersi il dovere di custodire i valori della legalità nella sicura convinzione che si tratta di preziosi valori della società civile.

La giustizia con obiettivi “s.m.a.r.t.” non appaga ed è per questo che molti dei principi fondanti la magistratura sono “controintuitivi” e, per usare un’altra espressione, vanno contro corrente: non può essere applicata alla giustizia la logica aziendalistica della fredda misurabilità della prestazione né il “time based” ovvero una temporizzazione dei risultati finalizzata ad un profitto più elevato.

In conclusione, il coraggio di riproporre le riflessioni ideali appare quasi una soluzione bizzarra, non adatta al tempo che viviamo, eppure credo con convinzione che solo dalle riflessioni ideali si possa trarre l’unica vera forza per essere ascoltati. 

 

Diamo appuntamento ai lettori tra qualche giorno con un ulteriore confronto.


 

[1] Il Parlamento infatti ha contestualmente approvato la Legge n. 134/2021, entrata in vigore il 19.10.2021, che prevede la «delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari» e la Legge n. 206/2021, entrata in vigore il 24.12.2021, contenente la «delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata».

[2] P. Borgna, Il giudice ancora “bocca della legge?”, in P. Borgna e M. Cassano, Il giudice e il principe. Magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Roma, Donzelli, 1997.

[3] Disegno di legge n. 2595 avente ad oggetto Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

[4] Cfr. Allorio, Il p.m. nel nuovo processo civile, in Riv. Dir. proc. civ., 1941, I, 212: «Troviamo la prima chiara traccia del pubblico ministero quale istituzione stabile e organizzata in un’ordinanza di Filippo il Bello del 25 marzo 1392: ma è probabile che già prima, di buon’ora,  “i re di Francia si facessero rappresentare, nelle cause in cui era in giuoco il loro interesse personale o un interesse pubblico, da procuratori e avvocati a volta a volta nominati per ogni affare” Da ciò risulta la primitiva indistinzione fra pubblico ministero e avvocatura dello Stato». Si tratta di un saggio nel quale si ricostruisce in modo molto accurato la figura del p.m. in sede civile. L’A., per i riferimenti storici, richiamava i passi virgolettati tratti dal Garsonnet, trad. Lessona, Trattato teorico pratico di procedura civile, I, Milano, 1922.

[5] Cfr. Allorio, op.cit.: «Che poi i funzionari del pubblico ministero, avendo formazione mentale di giuristi ed esercitando il loro ufficio in seno a collegi giudiziari, coi quali non erano praticamente sostenibili posizioni di perpetuo contrasto, finissero non di rado con l’assumere l’atteggiamento d’indipendenza dal potere regio che rappresentavano (fino a tal punto da concludere verbalmente contro le istruzioni scritte che ricevevano; onde si diceva: ”la penna è schiava ma la parola è libera”, atteggiamento quindi di sostanziale colleganza coi tribunali, presso cui svolgevano le loro funzioni così da essere chiamati “magistratura in piedi” in confronto con quella seduta; tutto ciò depone a favore della coscienza di quei funzionari, a sfavore della loro disciplina: ma non snatura il carattere amministrativo del loro ufficio».

[6] Così si è espressa l’assemblea nazionale dell’ANM del 30 aprile scorso: con 1081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti i magistrati, indipendentemente dalla corrente di appartenenza, hanno ribadito la loro contrarietà alla legge di riforma sulla giustizia.

[7] G. Capograssi, Saggi sull’esperienza giuridica, in Opere, Milano, 1959, vol. II, pag. 234.

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