Magistratura democratica
Magistratura e società

Giustizia fascista. Storia del Tribunale speciale

di Paolo Borgna
già procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino

A proposito del libro di Leonardo Pompeo D’Alessandro, pubblicato nel 2020 per i tipi de Il Mulino

C’è qualcosa di cinematografico nella concatenazione dei fatti che prepararono e accompagnarono l’emanazione dei Provvedimenti per la difesa dello Stato del 9 novembre 1926.  

Il clima emergenziale che ne fa da incubatrice era stato preparato da un tam tam che veniva da lontano e che, a partire dal gennaio 1925, aveva accompagnato la costruzione di un nuovo edificio giuridico del fascismo, di cui Alfredo Rocco era stato architetto e levatrice. Una «poderosa, intensa, magnifica attività legislativa del fascismo», secondo l’enfasi di Augusto Turati (all’epoca segretario del Pnf). Più prosaicamente, per usare le parole di Renzo De Felice, il «trapasso dal vecchio Stato prefascista al nuovo regime fascista».  

La costruzione di questo monolite autoritario fu paziente ed organica, senza un tassello fuori posto. E fu compiuta in meno di due anni. Facoltà ai prefetti di sciogliere le associazioni segrete. Legge delega al governo per riscrivere i codici penale e di procedura penale e l’ordinamento giudiziario. Legge sui “fuoriusciti”, che venivano privati della cittadinanza e a cui venivano confiscati i beni. Legge sulla stampa, per cui i direttori di giornale dovevano avere il gradimento del procuratore generale che a sua volta doveva consultarsi col prefetto. Legge che proibiva lo sciopero e ammetteva soltanto i sindacati «legalmente riconosciuti». Istituzione della figura del «capo del governo primo ministro segretario di Stato», responsabile esclusivamente verso il Re e con il potere di controllare insindacabilmente l’ordine del giorno delle due Camere. Sostituzione del Sindaco e del consiglio comunale (tradizionalmente elettivi) con le nuove figure del Podestà e della consulta municipale (rispettivamente di nomina regia e prefettizia).    

Ogni mattone di questo edificio era coerente con la filosofia di Rocco: con la sua idea di supremazia dello Stato sull’individuo e con la sua critica alle «dottrine demo-liberali», che vedevano nell’individuo il fine e nello Stato il mezzo e che, nel campo del diritto penale – secondo il Guardasigilli - avevano per decenni ispirato un «sentimentalismo aberrante e morboso, che ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità»[1].

Fu in questo contesto che già all’inizio del 1925 si cominciò a discutere della necessità di reintrodurre, per i delitti politici più gravi, la pena di morte, che il codice Zanardelli aveva abrogato e che Rocco invece riteneva «“la più perfetta delle pene»; attribuendo la competenza per tali reati ad un giudice speciale.  

In questa breve ma intensa marcia verso la fascistizzazione dello Stato, il regime era stato abile a sfruttare i quattro attentati subiti da Mussolini tra l’autunno 1925 e l’ottobre 1926. Il primo, a dire il vero, fu poco più che un complotto, bloccato, grazie ad una spia infiltrata, con l’arresto (il 4 novembre 1925) del deputato socialista e veterano della Grande Guerra Tito Zaniboni e del generale Luigi Capello. Il secondo fu un atto individuale di un’aristocratica irlandese un po’ squinternata, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 sparò una pistolettata al duce, provocandogli solo un graffio al naso[2]. La medesima fortuna assiste Mussolini l’11 settembre, quando una bomba a mano, lanciata a Porta Pia dall’anarchico carrarino Gino Lucetti contro l’auto del duce, scivola sul tetto dell’auto ed esplode a terra, provocando lievi ferite ad un passante. Ma la vera miccia che innesta l’accelerazione definitiva dell’ultimo giro di vite autoritario è l’attentato bolognese del 31 ottobre 1926, quando il quindicenne Anteo Zamboni spara un colpo di pistola contro il duce, mancando completamente il bersaglio e venendo linciato con calci e pugnalate dalle camicie nere di scorta[3]. Il primo a comprendere che è giunto il momento per sferrare l’ultimo affondo contro i residui acciaccati del vecchio Stato liberale è lo stesso Mussolini che, quattro giorni dopo l’attentato, dal balcone di Palazzo Chigi proclama al popolo romano in delirio: «Non è l’ora di fare dei discorsi. Domattina avrete i fatti che attendete».       

L’indomani, i fatti puntualmente arrivano. Ed è qui che il loro sviluppo cronologico assume la scansione della sceneggiatura di un film. Ce la restituisce, con straordinaria precisione, ora per ora, il libro di Leonardo Pompeo D’Alessandro dedicato alla nascita e al funzionamento del principale frutto di quei giorni convulsi: il Tribunale speciale per la difesa dello Stato[4]

La mattina del 5 novembre il ministro dell’Interno Federzoni propone al Consiglio dei ministri il nuovo Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza con alcuni provvedimenti draconiani: scioglimento dei partiti antifascisti; revoca di tutti i passaporti già rilasciati; reato di espatrio clandestino e di favoreggiamento del medesimo; revoca della amministrazione di tutte le pubblicazioni ostili al regime; istituzione del confino di polizia; costituzione dell’OVRA[5].

Il pomeriggio dello stesso 5 novembre, Alfredo Rocco presenta al Consiglio dei ministri (che immediatamente lo approva) il disegno di legge sui Provvedimenti per la difesa dello Stato. I suoi punti essenziali sono la reintroduzione della pena di morte per alcuni delitti politici (attentato ai sovrani e al capo del Governo e per i più gravi delitti contro la sicurezza dello Stato) e la competenza (per tali reati) del tribunale speciale[6]. La mattina del 9 novembre la Camera viene convocata in via d’urgenza per discutere e approvare il provvedimento. La seduta si apre con l’approvazione di un ordine del giorno che dichiara la decadenza dei 123 deputati dell’opposizione. La motivazione è che i parlamentari “aventiniani” avevano abbandonato l’ufficio per cui erano stati eletti e per cui percepivano una indennità. Sennonché, il provvedimento colpisce anche i deputati comunisti che non avevano partecipato all’Aventino. E’ la definitiva liquidazione, anche formale, dell’opposizione. Poche ore prima, l’8 novembre, il capo comunista Antonio Gramsci, nonostante l’immunità parlamentare di cui formalmente ancora godeva, era stato arrestato. A chiedere personalmente a Mussolini quell’arresto era stato Vittorio Emanuele III: un assaggio della sua tempra morale che avrebbe poi dimostrato con la fuga a Brindisi del settembre 1943. Gramsci veniva dapprima confinato ad Ustica e poi imprigionato. Uscirà dalla prigione dieci anni dopo soltanto per andare a morire nella clinica Quisisana di Roma il 27 aprile 1937, lasciando come lascito agli italiani e al mondo intero i suoi quaderni del carcere.

Ma torniamo a quel 9 novembre. Subito dopo l’espulsione dei deputati antifascisti, Rocco illustra il suo progetto. La Camera ne delega l’esame ad un Commissione di nove membri nominata ad hoc. La Commissione si riunisce, discute e delibera … in cinquantacinque minuti! Dalle 17,30 alle 18,25, come recita lo scarno verbale di diciotto righe con cui la Commissione consegna il suo lavoro al plenum dell’aula. La stessa sera, senza discussione, la Camera approva. In un’intervista alla United Press, Mussolini commenta: «La Repubblica romana ebbe parecchie decine di dittatori […] anche noi abbiamo bisogno della dittatura per riorganizzare il paese e per ridargli il sangue perduto nell’esperimento democratico». E l’indomani, il Popolo d’Italia chiosa: «Giustizia è fatta. La Camera fascista, come tutte le assemblee rivoluzionarie, non ha bisogno di opposizione. Il fascismo, pensiero, anima e braccio della nuova Italia è padrone del campo». 

Il consolidamento del regime è compiuto. Stravolgendo sostanzialmente, con il pieno consenso della Corona, lo Statuto albertino ma senza modificarlo formalmente, grazie al suo carattere flessibile.

La nuova legge prevedeva che le norme sulla reintroduzione della pena di morte e sul tribunale speciale – dettate dalla necessità di fronteggiare la situazione eccezionale creatasi con gli attentati al duce - avrebbero avuto una durata di soli cinque anni. Ma, ovviamente, non fu così: allo scadere del quinquennio i nuovi istituti furono prorogati con durata indefinita. Inaugurando così una tradizione che verrà poi confermata anche in età repubblicana: in Italia nulla è più stabile e duraturo delle norme eccezionali e temporanee.

Il 12 novembre il provvedimento è trasmesso al Senato che lo discute e lo approva nella seduta del 20 novembre. Alla Camera Alta si ha un minimo di discussione, con rilievi, da parte di pochi, su aspetti marginali della legge, la cui necessità e filosofia di fondo non vengono contestate. Alcuni di questi rilievi minori saranno poi recepiti con l’emanazione dei decreti attuativi. Nella votazione finale (a scrutinio segreto), quarantanove senatori sono contrari e soltanto cinque dichiarano apertamente il proprio dissenso. Il più esplicito è il senatore liberale Francesco Ruffini che nel 1931 sarà uno dei dodici docenti universitari che rifiuteranno il giuramento che impegna i professori a formare cittadini «devoti alla patria e al regime fascista», abbandonando così l’insegnamento.

Il tribunale speciale è composto da un presidente (scelto tra gli ufficiali generali del Regio esercito, della Regia marina, della Regia aeronautica e della Milizia volontaria), da cinque giudici (scelti tra gli ufficiali della Milizia, aventi grado di console) e da un relatore senza voto (scelto tra il personale della giustizia militare). Composizione e costituzione del tribunale sono ordinati dal ministro della Guerra. La procedura è quella del codice penale in tempo di guerra. Le sentenze non sono soggette ad alcun ricorso (ad eccezione della revisione). Il tribunale speciale è competente, per i reati attribuitigli, anche per i procedimenti già in corso davanti alla magistratura ordinaria. 

Ed infatti, due giorni dopo il voto della Camera (anticipando il voto definitivo del Senato), la Corte di assise di Siena, che stava procedendo contro Zaniboni e Capello per il complotto del novembre 1925, rinvia il processo, per poi devolvere il giudizio al tribunale speciale.  I due verranno condannati a trent’anni per alto tradimento[7].

 

***

 

Nei 17 anni di vita del tribunale (che fu regolarmente prorogato, ogni cinque anni, nel 1931, nel 1936 e infine nel 1941) furono 15.806 gli antifascisti deferiti alla procura e 5.619 quelli processati (molte furono le archiviazioni per fatti davvero minimi e ancor più i procedimenti trasmessi al giudice ordinario). 77 le condanne a morte comminate, di cui 62 eseguite.

Il libro di D’Alessandro, però, non si limita all’analisi delle sentenze. 

Valorizzando, per la prima volta in modo esaustivo, i carteggi interni al tribunale e quelli verso il Governo, le carte amministrative, gli atti della segreteria (atti già presenti da anni negli Archivi ma trascurati dagli storici, finora essenzialmente interessati alle vicende processuali degli imputati) D’Alessandro ci consegna una monumentale storia interna dell’istituto, della sua filosofia, del clima morale dei suoi componenti, della sua elasticità verso le esigenze del regime, della sua porosità e contaminazione culturale con le altre istituzioni. Così smantellando, mattone per mattone, alcune sedimentate narrazioni. Prima fra tutte quella troppo univoca e pomposamente autoincensante, per decenni in voga tra i giudici, secondo cui il tribunale speciale fu creato perché il regime fascista non poteva fare alcun affidamento sulla magistratura ordinaria.

Il primo luogo comune ad essere dissolto – dopo che lo stesso regime lo aveva diffuso, gonfiato e strumentalizzato – fu quello secondo cui il tribunale speciale era stato allestito come risposta allo stato di emergenza creato dai quattro maldestri attentati al duce. Certo, i primi processi ad essere celebrati furono proprio quelli a Zaniboni, Gibson e Lucetti (il giovane Zamboni, come abbiamo visto, era già stato giustiziato dai pugnali delle camicie nere). Ma, subito dopo, emerse chiaramente che il vero obiettivo del nuovo tribunale erano gli antifascisti militanti, con una particolare predilezione per i comunisti, la cui organizzazione clandestina, poco permeabile e dunque solo in parte conosciuta, costituiva la vera spina nel fianco del regime. «E’ questione di vita o di morte: o loro o noi», disse personalmente Mussolini nel 1933, ricevendo in udienza i giudici del tribunale speciale (ancorché in quei primi sette anni di lavoro l’attività di quei magistrati verso i comunisti fosse stata assolutamente «alacre» ed «encomiabile»). 

D’Alessandro analizza con cura, nelle sue complesse fasi, incipit, sviluppi ed esiti del più importante processo ai comunisti: il “processone” ai membri del comitato centrale del PcdI, iniziato con gli arresti del settembre e ottobre 1926 disposti dalla magistratura ordinaria e poi proseguito davanti al Tribunale speciale che, al termine di un complicato iter processuale, nel giugno 1928, emetterà le condanne. 

Con un’interessante ricostruzione retrospettiva sui processi politici di fine ‘800 e inizio ‘900, D’Alessandro ci ricorda che i «provvedimenti per la difesa dello Stato» del 1926 non costituirono uno strappo assoluto rispetto ai primi decenni dello Stato italiano. A ben vedere, essi diedero piuttosto carattere di regola generale alla legislazione straordinaria ed eccezionale con cui fin dalla sua nascita il nuovo Regno unitario aveva affrontato fenomeni sociali (ed a volte eventi naturali ritenuti emergenziali). A partire dalla celebre Legge Pica contro il brigantaggio (del 1863), proseguendo con le leggi che, nel 1894, dichiaravano lo stato d’assedio in Sicilia per reprimere il movimento dei fasci e nelle province di Massa e Carrara per fronteggiare il movimento anarchico, per finire con lo stato d’assedio in cui venivano messe le città di Messina e Reggio Calabria nel 1908 in occasione del terremoto, lo Stato liberale aveva mostrato una faccia decisamente autoritaria: emanando leggi speciali e affidando i processi relativi a tali fatti ai tribunali militari (in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino). Non è un caso che proprio nei tribunali militari, negli anni della Grande Guerra, si fecero i muscoli la gran parte dei magistrati che, a partire dal 1927, andranno a costituire l’ossatura originaria del nuovo tribunale speciale.

All’interno di questa robusta cornice, D’Alessandro si addentra in una ricostruzione meticolosa delle normative regolamentari, degli organici e della loro modificazione nel corso degli anni (composizione e costituzione del tribunale, inizialmente attribuite al Ministero della guerra, dal 1931 in poi rientrarono nella diretta competenza del capo del Governo). Con la stessa precisione, l’Autore analizza poi i criteri di scelta dei magistrati, i loro profili culturali, le loro manifestazioni di fedeltà all’ideologia fascista, le provenienze sociali e regionali, le carriere, le ambizioni, le meschinità, le dinamiche anche conflittuali interne ed esterne all’organo. Non trascurando un minuzioso esame delle statistiche dei provvedimenti emessi (che denotano una elevata “produttività”, peraltro facilitata dal fatto che l’inappellabilità delle sentenze spinse i magistrati a ritenere «un esercizio vano» la motivazione in diritto). 

Alla luce di questa paziente ricostruzione D’Alessandro dimostra che i Provvedimenti per la difesa dello Stato del 1926 furono lo sbocco più radicale di tendenze autoritarie già presenti. Soprattutto: furono un’anticipazione dei codici penali e di rito del 1930 che recepiranno, in modo sistematico, norme prima «sparse qua e là». Si pensi a tutti i delitti contro la personalità dello Stato (articoli da 241 a 293) che – come aveva lucidamente teorizzato Alfredo De Marsico, grande avvocato di scuola napoletana, relatore sulla riforma del codice penale – proclamavano «col rigore della legge comune, e non con norme transeunti dettate dalle urgenze di periodi eccezionali, che ideologie politiche, lotte di partiti, rivendicazioni di classi, passioni umanitarie possono spaziare nel campo della più vasta libertà, ma hanno un limite, uno solo ed inviolabile, la dignità e la salvezza della Patria, all’interno e all’esterno». 

A questa filosofia di fondo non è affatto estranea la stragrande maggioranza della magistratura ordinaria. Già lo sapevamo, avendo letto i panegirici di consiglieri di Cassazione che intravedevano, nella legislazione affermatasi sul finire degli anni ’20, l’impronta «dell’unghia del leone fascista»; nonché i discorsi dei procuratori generali, in cui i Provvedimenti per la difesa dello Stato venivano salutati cum gaudio magno. In proposito D’Alessandro ricorda le parole con cui, nel 1931, all’indomani della approvazione dei nuovi codici e alla vigilia della prima proroga quinquennale dei Provvedimenti del ’26, il procuratore generale della cassazione omaggiava il tribunale speciale che «duramente ma giustamente colpisce». E ne indicava l’orizzonte: «destinato, per l’altezza delle sue funzioni, nobilmente esercitate, a divenire, nella sua essenziale costituzione, il tribunale unico e permanente della Difesa dello Stato». 

Questo idem sentire è ora avvalorato dalle pagine in cui D’Alessandro, alla luce di nuovo materiale documentario, ci racconta l’estesa e convinta adesione suscitata dalla riforma con cui, nel 1928, si previde la possibilità di reclutare i magistrati del tribunale speciale anche dalla magistratura ordinaria (e non solo da quella militare, come prevedeva la legge del 1926). Si creò così un evidente paradosso: il tribunale per la difesa dello Stato, nato per mancanza di fiducia nella fedeltà al regime dei magistrati ordinari, dopo poco più di un anno dal suo varo doveva attingere, per un migliore funzionamento, proprio alla magistratura ordinaria e alla sua «specifica capacità giuridica», essendosi rivelata insufficiente la sensibilità dei magistrati militari alle «esigenze politiche dello Stato»[8]

Il contributo dato dai magistrati ordinari al funzionamento dell’organo speciale fu molto importante. Anche se il loro numero non fu elevatissimo (17 in tutto) essi occuparono quasi sempre i vertici di procura e tribunale. E, comunque, moltissimi furono i magistrati ordinari che fecero domanda per essere “comandati” al nuovo organismo e «non vi entrarono solo perché i vertici dell’organo avevano posto dei limiti al personale, oppure perché gli uffici ai quali erano preposti non potevano privarsene». L’elenco (peraltro non completo) che D’Alessandro è riuscito a ricostruire è davvero impressionante. E’ vero che - come ben evidenzia l’Autore – si trattò di un fenomeno circoscritto solo ad alcune regioni: i magistrati ordinari che chiesero ed ottennero di far parte dell’organo speciale erano quasi tutti di provenienza meridionale, solo quattro del centro Italia, nessuno del Nord. E’ vero che, in quegli stessi anni, altri magistrati, in situazioni difficilissime, seppero tenere la schiena dritta. Amo sempre citare, in proposito, la sentenza della sezione istruttoria della Corte di appello di Cagliari che riconobbe la legittima difesa ad Emilio Lussu che, nell’ottobre 1926, aveva freddato uno squadrista che aveva cercato di entrare nel suo studio scalando il balcone. Così come la sentenza del Tribunale di Savona che, nel settembre 1927 - processando (tra gli altri) Ferruccio Parri, Carlo Rosselli e Sandro Pertini per la procurata evasione di Filippo Turati del dicembre 1926 – dapprima si rifiutò di trasmettere gli atti per competenza al Tribunale speciale (appena istituito) quindi, derubricando il reato, applicò la pena minima di dieci mesi di reclusione. E ancora, la sentenza con cui, nel 1931, Domenico Riccardo Peretti Griva, presidente del tribunale di Piacenza, condannò tre capi del fascismo locale imputati di aver aggredito un avvocato antifascista cui avevano fratturato un dito di una mano (celebrando ritualmente il processo in un’aula affollata da miliziani in divisa e con gli imputati difesi da un collegio di avvocati fascistissimi guidati da Roberto Farinacci). Molti anni dopo Peretti Griva, rievocando quel processo, ricorderà onestamente che la sentenza non provocò alcuna conseguenza negativa sulla sua carriera. Anzi: fu la «dimostrazione che anche in regime fascista, il magistrato era nella possibilità di ragionare con la propria testa e di seguire la propria coscienza». Perché – ricorderà sempre Peretti Griva – «il conformista agisce da pauroso, anche senza che sussista, in concreto, una ragione»[9]

Ma, per l'appunto, si trattò di casi rari. E la pletora dei pretendenti ad occupare uno scranno al tribunale speciale fu molto più numerosa di questi casi eroici. Soprattutto, l’osmosi culturale che il libro di D’Alessandro ampiamente documenta consente oggi, più che mai, di concordare con il giudizio che, quasi vent’anni fa, formulava Alberto Aquarone: l’adesione della magistratura italiana ai valori dell’Italia fascista «fu esplicita ed estesa, anche se non profonda»[10]

Ecco: «anche se non profonda».

La grande maggioranza dei magistrati italiani non si comportò né come Peretti Griva e i giudici di Cagliari e di Savona, né come la più folta minoranza che sgomitava per andare a lavorare al tribunale speciale. Semplicemente: rimase a guardare.    

Ancora una volta la letteratura riesce a sublimare in poche parole quello che noi impariamo, faticosamente, dai nostri saggi. 

«Si sono fatti i loro tribunali speciali, ci hanno tenuto al di fuori e – perché non riconoscerlo – al di sopra della politica…non potevamo opporci: avremmo perduto quello che ancora ci resta; ci siamo contentati». Così, ci ricorda Antonella Meniconi[11], il procuratore generale risponde al piccolo giudice in Porte aperte di Leonardo Sciascia. Si accontentarono. Entrarono in magistratura, accettando l’obbligo di iscrizione al PNF imposto nel 1933. Presero atto del tribunale speciale (alcuni cercando di entrarvi, altri, a volte con sofferenza, girando la testa dall’altra parte). Nel 1938 subirono l’umiliazione delle leggi razziali (da ben pochi condivise). Non fecero gesti eroici. Non emigrarono a Parigi o negli Stati Uniti. Non andarono a combattere in Spagna. Evitarono carcere e confino. Ma rimasero, spesso disperatamente avvinghiati alla convinzione che il quadro legislativo italiano fosse rimasto, nella sua impalcatura essenziale, coerente con l’impronta liberale che lo aveva caratterizzato prima del ventennio e che il regime soltanto in parte aveva intaccato. Si accontentarono. Come avrebbe detto Bobbio, praticarono un faticoso nicodemismo. Spesso (non sempre) soffrendo in silenzio. Riducendo il danno: attenuando l’irruzione prepotente, nel sistema della giustizia, dell’ordalico “spirito dei tempi” affidato all’interpretazione delle nuove generazioni di giudici politicizzati, allevati dal regime. E forse anche a loro dobbiamo essere grati.

 

[1] Così si esprimerà Alfredo Rocco nella relazione al suo Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale [citato in F. Cordero, Procedura penale, Giuffré, VIII ed. (1985), p. 1103].  

[2] In realtà, quel giorno Mussolini fu assai fortunato. Violet Gibson, cinquantenne sorella del nazionalista irlandese William Gibson, era venuta in Italia appositamente per attentare al duce. Gli sparò mentre il dittatore si accingeva a partecipare alla cerimonia di insediamento del Nuovo Direttorio Fascista, al Campidoglio. L’unica pallottola partita dalla pistola sfiorò il viso di Mussolini, ferendolo lievemente al naso. Le cronache dell’epoca narrano che fu uno degli usuali scatti del viso di Mussolini ad evitare che il colpo fosse fatale. Con una sentenza del Tribunale speciale per la difesa dello Stato del 12 maggio 1927 Violet Gibson verrà dichiarata non punibile per infermità mentale. Espulsa dall’Italia ed internata in una casa di cura inglese, la Gibson vi morirà nel 1956. Dal canto suo, quel 7 aprile Mussolini partecipò comunque alla cerimonia di inaugurazione e, mettendo subito a frutto una certa aura di invincibilità che gli attentati falliti gli stavano creando, pronunciò un discorso con la celebre frase che diventerà poi uno degli slogan più ripetuti negli anni del regime: «Se avanzo, seguitemi; se indietreggio uccidetemi; se muoio, vendicatemi». 

[3] Quel giorno Mussolini era in visita a Bologna per l’inaugurazione dello stadio Littorio. L’attentato avvenne in piazza del Nettuno ove, ancor oggi, una lapide, ricorda il «martire giovinetto, trucidato dagli scherani della dittatura».  Il giovane Zamboni, di famiglia di tradizioni anarchiche, era iscritto ai balilla. Questa circostanza, insieme alla sua giovanissima età, alimenterà per lungo tempo molti dubbi sulla vera dinamica dell’attentato e soprattutto sui complici del giovane Zamboni.

[4] L. P. D’Alessandro, Giustizia fascista. Storia del Tribunale speciale (1926-1943), il Mulino, pp. 294, € 27.

[5] Il TULPS viene approvato e immediatamente pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 6 novembre. Cosicché entrerà in vigore già il 9 novembre.

[6] Il testo originario del ddl proposto da Rocco prevedeva, in realtà la costituzione di «tribunali speciali». Ma nel testo pochi giorni dopo presentato alla Camera il «tribunale speciale» diventa unico, con sede centrale a Roma.

[7] I biografi di Zaniboni raccontano che, dopo la condanna del tribunale speciale, Mussolini aiutò finanziariamente la famiglia del suo attentatore, sostenendone agli studi la figlia fino alla sua laurea (avendo quindi, da Zaniboni, ripetute attestazioni epistolari di gratitudine). Gesto sentimentale del duce verso l’antico compagno di partito e decorato al valore militare? Forse. Del resto, D’Alessandro ci ricorda che, nella fase di ideazione del tribunale speciale e di reintroduzione della pena di morte, Mussolini si era dichiarato contrario agli effetti retroattivi della riforma (che invece furono poi previsti nel testo definitivo).  

[8] Così si esprimeva, nel 1928, Francesco Giunta, sottosegretario della Presidenza del Consiglio, motivando la necessità di aprire il tribunale speciale ai membri della magistratura ordinaria.

[9] Esperienze di un magistrato, Einaudi, 1956, p. 25 e 327.

[10] A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, 2003, p. 242 (citato dallo stesso D’Alessandro).

[11] A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, p.172.

16/01/2021
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