Magistratura democratica
Magistratura e società

Giudicare e scrivere al femminile

di Patrizia Bellucci
già Univ. degli Studi di Firenze, Laboratorio di Linguistica Giudiziaria - LaLiGi.
Una recensione a "La Giudice" di Paola Di Nicola. Tutto nel libro, nella sostanza e nella forma è coerentemente femminile e, se un ricamo c'è, è quello della parola
Giudicare e scrivere al femminile

Il libro di Paola Di Nicola La giudice. Una donna in magistratura (Ghena, Roma, 2012) è stato ampiamente recensito e, per di più, l’obiettivo di una recensione è spiegare i motivi per cui vale la pena leggere un libro e non certo “raccontarlo”.

Mi limito, dunque, ad accennare al contenuto – nella misura in cui il volumetto ha il pregio indubbio di rendere più vicine e più note anche al comune cittadino la giurisdizione e la magistratura – e a qualche osservazione sulla resa linguistica, che non è stata ancora evidenziata quanto invece merita.

Il capitolo di esordio – Prima di essere un giudice e un detenuto eravamo una donna e un uomo (pp. 13-32) – è, direi, il più bello e raggiunge l’acme narrativo dell’intero libro: le pagine “dense” sull’interrogatorio in carcere sono di rara efficacia.

Il secondo capitolo – Indosso la toga ed entro nell’aula di udienza (pp. 33-84) – è non a caso uno dei più lunghi. Infatti, sta proprio in quell’iterativo “rito di passaggio” la fatica e l’impegno del passar dalla donna alla magistrata, dalla persona alla funzione. Le pp. 36-39 sono splendide e testimoniano l’abilità linguistica dell’autrice: con una insistita ripresa anaforica – che in realtà si distende come fil rouge primario dell’intero libro – la “toga” viene di volta in volta ridefinita nei suoi sensi, scopi ed effetti in contrapposizione alla “giacca sgualcita della propria vita”, per esprimere il gioco d’equilibrio, a volte funambolico, di chi deve farsi carico della doppia accezione dell’assolvere in quanto “portare a termine un compito” nella vita quotidiana e “dichiarare innocente un imputato”.

Nel terzo capitolo – Arrivo in camera di consiglio (pp. 85-118) – si ricostruisce la propria e l’altrui storia nella consapevolezza che: “È un curioso destino professionale quello di noi donne magistrato perché applichiamo la legge, che in quanto tale deve essere generale e astratta e dunque deve valere per tutti e in ogni contesto, ma presto ci accorgiamo che si tratta solo di un trucco. E non solo linguistico. Infatti il prototipo dei diritti è solo l’essere umano di sesso maschile” (p. 93).

Il capitolo, proprio in nome di questo assunto fondamentale, riduce qui drasticamente, pur senza abbandonarli del tutto, i tratti tipici del genere “autobiografia” ed assume piuttosto quelli del “saggio scientifico”, corredato poi da tabelle e numeri dell’Appendice (pp. 173-175).

Dal libro, infatti, molto si impara e forse non è del tutto inutile ricordare che – se l’accesso delle donne in Magistratura costituisce l’ultima tappa dell’affermazione del diritto femminile alla piena cittadinanza – nel diritto di voto significativamente i limiti di censo (1882) e quelli connessi all’analfabetismo (1912 con limiti di età e 1919 senza) sono significativamente caduti assai prima dell’estensione del suffragio anche alle donne.

In ogni caso, il dato emergente resta a tutt’oggi la qualità del vissuto e il percorso a ostacoli che separa le donne, in ogni settore, dalle posizioni apicali.

Il capitolo ha, comunque, anche pagine diaristiche assai belle, in cui si narrano, ad esempio, le lacrime che collegano una “sottrazione di punteggio” e la lontananza dai figli (pp. 104-113).

Nel penultimo capitolo – Dopo la scelta senza scampo e senza alternative tra assolvere e condannare (pp. 119-150) – l’opposizione di genere uomo ~ donna viene rideclinata multiprospetticamente all’interno della multiplanarità che assume all’interno della giurisdizione e dei processi, in cui la variabile “sesso” si coniuga inscindibilmente con quella dell’identità specifica in tribunale (magistrato, imputato, vittima): qui la variabile di genere deve rimaner presente in soggiacenza per arrivare alla lucida analisi e comprensione dei fatti, ma deve contemporaneamente approdare a neutralizzarsi in nome dell’uguaglianza del decidere e motivare rendendosi “comprensibile ‘al popolo italiano’” (p. 121).

È in queste pagine che il racconto di Paola Di Nicola si fa perentoria e comprovata “chiamata in causa” di tutte e tutti: “La lingua, il diritto, hanno un’univoca impostazione, un’unica posizione” (p. 132) e “Se non può negarsi che l’appartenenza a un genere abbia un’immediata ricaduta, anche inconsapevole, su ogni atto del nostro esistere, è chiaro che anche lo ius dicere, il giudicare, ne sia coinvolto, avvolto, travolto. Nell’ambito giuridico e istituzionale, però, accettare questo è un problema vero. Quindi, non se ne parla […] ma questo non vuol dire che non esista” (p. 138). L’ultimo capitolo infine – Adesso devo solo firmare la sentenza (pp. 151-164) – è quello incentrato sulla scelta dell’articolo femminile, che è uno degli aspetti che più ha fatto scalpore fra gli operatori del diritto e anche fra i recensori: “Allora come mi devo firmare? Quale articolo devo mettere? Per i miei figli il giudice è una donna con i tacchi e il rossetto che porta con sé, anche nel proprio quotidiano, il peso scompaginato della vita delle persone e degli affetti” (p. 154).

Paola Di Nicola è persona colta e dalle sue pagine e dalle citazioni si comprende che ben conosce gli studi di genere pertinenti, anche linguistici, e infatti fa esplicito riferimento al Codice di stile promosso nel 1993 dall’allora Ministro Sabino Cassese, in cui una sezione era dedicata proprio all’uso non discriminatorio e non sessista della lingua italiana, considerando anche “il fatto che in italiano il genere grammaticale maschile sia considerato il genere base non marcato, cioè […] valido per entrambi i sessi, può comportare sul piano sociale un forte effetto di esclusione e di rafforzamento di stereotipi. […] l’amministrazione pubblica, attraverso i suoi atti, appare un mondo di uomini in cui è uomo non solo chi autorizza, certifica, giudica, ma lo è anche chi denuncia, possiede immobili, dichiara, ecc.” (Codice di stile, cap. 4).

Per questo aspetto si deve risalire addirittura alle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini, uscite nel 1987 (con una presentazione “densa” di Francesco Sabatini alle pp. 9-16) e oggi comodamente disponibili anche in rete alla pagina web http://www.funzionepubblica.gov.it/media/962032/il%20sessismo%20nella%20lingua%20italiana.pdf.

Non tutte quelle raccomandazioni hanno avuto successo, ma gli studi successivi sono stati unanimi nel reclamare, fra l’altro, l’esplicitazione di genere con i nomi professionali: la giudice era proprio uno degli esempi citati fin dal 1987.

Paola Di Nicola nel suo libro ci fa, quindi, misurare e percepire tutta la distanza sociolinguistica tra italiano della norma e italiano dell’uso comune, fra teoria e prassi: con un percorso culturale e personale giunge a optare nel timbro, nella firma delle sentenze e nel titolo del libro per l’articolo femminile auspicabile e auspicato, ma poi si trova ad affrontare il prevedibile “rumore”, il “chiederne conto (spesso incredulo)” complessivo, dalla tipografa fino ai recensori “perché lo stereotipo millenario della calza e non della toga, della domus e non della polis, è duro a morire, prima di tutto dentro le donne” (pp. 158-159).

La sapienza linguistica è, infatti, fra le caratteristiche salienti del volumetto: ad esempio, i problemi giuridici e sociali sollevati da Paola di Nicola sono plurimi, rilevanti e complessi, ma lo stile rende agevole e lieve la lettura.

Nel libro la lingua è limpida e chiara, si fa “cesello”, associando il periodare breve alle selezioni lessicali accurate e meditate: ogni parola, ogni aggettivo o avverbio è pensato e sentito; anche la funzione espressiva del linguaggio si dispiega in un nitore in cui niente è rimasto di superfluo o inessenziale.

La sensibilità raffinata impronta perfino la copertina – che condensa nell’immediatezza di una metafora visiva la trama stessa del libro – e le preziose citazioni che introducono o penetrano i vari capitoli.

Tutto nel libro, nella sostanza e nella forma, è coerentemente al femminile e, se un ricamo c’è, è quello della parola.

Un’ultima annotazione infine. Di un libro normalmente si dice “quel che c’è”, mentre in questo sono significative anche “le assenze”, ciò che l’autrice – in parte anche perché e in quanto “magistrata” – ha deciso di lasciare al non-detto o di far solo intravedere della storia di vita che ha fatto di lei La giudice che è: dalla nota figura del padre – mentre sale invece in primo piano la realizzazione delle attese materne – ad alcuni aspetti “di donna” (del femminile portando in proscenio prima di tutto la dimensione di “madre”) ai luoghi dell’infanzia.

Per questo ha ancora più senso leggere le altre recensioni disponibili in rete: quella che è stata da altri definita “La giudice con il sorriso” in certi casi complementarmente “si racconta” sotto il pungolo dell’intervistatore che la incalza, anche se Paola Di Nicola non cede mai ad altri il profilo del suo essere e apparire, come ancora da titolo, “una donna in magistratura”.

24/07/2013
Altri articoli di Patrizia Bellucci
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.