Magistratura democratica
Magistratura e società

Genova, vent’anni dopo

di Andrea Natale
giudice del Tribunale di Torino

Una recensione a F. Barabino, G8 Genova 2001. La notte della democrazia e R. Caruso, G8. C’ero anche io. Un avvocato tra le barricate di Genova, (FOG edizioni, 2021)

Vent’anni. Sono passati vent’anni dal G8 di Genova.

Qualunque tentativo di fare memoria di quei giorni del luglio 2001 è fatalmente destinato a scontrarsi con l’inadeguatezza della parola e corre il rischio di sembrare uno stentato balbettio.

Per l’impossibilità di descrivere le mille voci che suggerivano la possibilità di un altro mondo; per l’impossibilità di dare conto delle pulsioni vitali, delle riflessioni, delle ingenuità, ma anche dei progetti che animarono i giorni che avrebbero dovuto accompagnare il vertice; per l’impossibilità di rendere anche solo l’idea di speranza che attraversava decine di migliaia di persone e delle molte associazioni – delle più disparate estrazioni – che componevano la galassia del Genoa Social Forum; per l’impossibilità di dire quanto bello avrebbe potuto essere tutto questo.

Ma qualunque tentativo descrittivo è destinato a risultare inadeguato anche per altre ragioni. Che sono note. E sono tragiche.

Una città militarizzata. Le grate a erigere muri all’interno dei carruggi. I genovesi espropriati dei loro luoghi. Un deficit di organizzazione delle misure di sicurezza. La violenza che stupra le idealità dei manifestanti. Il blocco nero. Le reazioni spesso sproporzionate e non selettive di molti operatori di polizia. Le cariche della polizia, anche su cortei o presidi pacifici.  La morte di Carlo Giuliani, un ragazzo che oggi avrebbe quarantatré anni e, chissà, magari avrebbe dei figli da accompagnare a scuola. Non lo sapremo mai, purtroppo, se Carlo avrebbe accompagnato i figli a scuola.

Già. La scuola. Le scuole: la Diaz; la Pascoli. Luoghi in cui uomini dello Stato consumarono uno scempio della Costituzione e dei diritti fondamentali delle persone. Una «macelleria messicana», la definì uno degli imputati per quei fatti. Scempio di Costituzione e diritti che si stava consumando in parallelo in altri luoghi, in cui i corpi delle persone erano affidati alla responsabilità dello Stato. Tra essi, la tristemente nota caserma della Polizia di Stato di Genova Bolzaneto.

Luoghi in cui si calpestò l’habeas corpus – uno dei fondamenti del costituzionalismo –  e ove si calpestò la dignità di centinaia e centinaia di uomini e donne, giovani e adulti. Luoghi in cui uomini dello Stato usarono la forza non per proteggere, ma per aggredire («ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. Se non tende a nessuno di questi attributi rinuncia da sé ad ogni validità», scriveva W. Benjamin).

Luoghi in cui – per dirla con le parole di Amnesty International – si determinò «la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda Guerra Mondiale».

Ne seguirono indagini e processi, durante i quali molti uomini dello Stato mostrarono il lato peggiore del potere: la falsificazione di prove; l’accusa di innocenti; la copertura dei responsabili in divisa; una discontinua collaborazione con i pubblici ministeri titolari delle indagini.

Fatti che sono stati faticosamente e dolorosamente accertati da sentenze oramai irrevocabili. Sentenze che, però, non possono offrire le risposte a tutte le domande. Ci furono responsabilità politiche? Il nostro sistema giudiziario è stato in grado di essere all’altezza della situazione? Il nostro ordinamento aveva strumenti capaci di offrire una risposta adeguata alla gravità dei fatti?

Ne è scaturita una letteratura pressoché sterminata, figlia di una miriade di approcci e informata alle più diverse prospettive. Una letteratura impossibile da riassumere qui. Da essa preleviamo – più o meno arbitrariamente – due recenti e agili volumetti sul G8 di Genova. Si tratta di F. Barabino, G8 Genova 2001. La notte della democrazia e R. Caruso, G8. C’ero anche io. Un avvocato tra le barricate di Genova, ambedue pubblicati quest’anno da FOG edizioni. Si tratta di opere che, evidentemente, non possono offrire una risposta a tutte le domande che il G8 propone, per lo strutturale scarto che esiste tra enormità delle questioni e qualsiasi possibilità di offrire tutte le risposte. E che, però, ci sembrano meritevoli di interesse per più di una ragione.

Anzitutto, gli autori. Francesco Barabino è praticante avvocato e, nel 2001, aveva sei anni. Per lui, il G8 di Genova è quello che ha letto nelle sentenze, nei libri e visto nei documentari. Il suo punto di vista è quello di un giovane, che supponiamo amante del diritto e della giustizia, sufficientemente informato sui fatti, ma non direttamente coinvolto in essi. Raffaele Caruso è oggi un avvocato penalista, specializzato in criminologia; nel 2001, era avvocato da pochi mesi ed era capitato – quasi per caso e non senza titubanze, ci dice lui – a far parte del team di avvocati che avrebbe dovuto offrire il proprio ministero nel caso in cui, a margine delle manifestazioni, se ne fosse presentata la necessità.

Nessuno dei due autori è etichettabile nel cliché dell’intellettuale della sinistra radicale, pregiudizialmente ostile all’autorità. Anzi, Raffaele Caruso ci dice esplicitamente che la sua formazione trova radici altrove: la parrocchia, il mondo cattolico, il volontariato, l’impegno politico in un partito moderato.

Tutto questo per dire che il loro punto di vista si sottrae a troppo facili etichette. Eppure hanno letto e ascoltato (F. Barabino) e hanno visto e vissuto (R. Caruso).

E ora raccontano.

Francesco Barabino propone una visione di insieme delle vicende giudiziarie scaturite dal G8 di Genova, soffermandosi in particolare sui processi relativi ai fatti avvenuti nella scuola Diaz e ai fatti relativi alla Caserma di Bolzaneto. La ricostruzione dei fatti è puntuale e fondata sulle sentenze rese dalle autorità giudiziarie italiane lungo i tre gradi di giudizio. Oltre a ripercorrere i fatti, Barabino offre alcune informazioni di carattere giuridico che – se possono sembrare didascaliche al giurista – sicuramente potranno essere utili a chi giurista non è. Perché tutti hanno diritto di capire cosa successe a Genova.

Attraverso l’esame delle carte processuali, Barabino ci conduce nella notte della democrazia, attraverso le soglie della scuola Diaz e della scuola Pascoli; ci fa conoscere le vittime e il desiderio dei loro corpi di trovare pace nei loro sacchi a pelo dopo le – già drammatiche – giornate genovesi; ma quei corpi pace non avranno, per effetto della brutale aggressione perpetrata in loro danno da persone in divisa; ci ricorda come la decisione di svolgere quell’operazione vide il coinvolgimento anche di altissimi funzionari della Polizia di Stato; ci descrive gli arresti degli occupanti della Scuola Diaz, l’immediato tentativo di costruire false accuse a loro carico (la descrizione di una improbabile resistenza a pubblico ufficiale agìta collettivamente; il trasporto di due molotov dentro la scuola; il falso accoltellamento che un agente avrebbe subìto, e via seguitando). F. Barabino poi ci accompagna attraverso il travagliato iter processuale, descrivendo la faticosa ricostruzione dei fatti durante le indagini, cui parte della polizia giudiziaria ha offerto una collaborazione ritenuta inadeguata dalle sentenze di merito (un esempio per tutti: nel momento in cui si rese necessario acquisire delle fotografie del personale intervenuto per procedere alle necessarie individuazioni fotografiche, al PM furono recapitate fotografie scattate al momento dell’arruolamento – talora risalente – dei vari operatori di polizia); ci descrive le tesi di accusa e difesa e le diverse risposte offerte ai vari temi dai giudici di primo e secondo grado (questi ultimi avendo dato una lettura ben più severa dei fatti).

Analoga è l’operazione narrativa relativa ai fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto. Attraverso alcuni stralci di drammatiche testimonianze, delle sentenze di primo e (soprattutto) di secondo grado, F. Barabino ci descrive cosa avvenne dentro un luogo di detenzione, ricordandoci i diritti processuali conculcati (la mancata possibilità per gli arrestati di informare parenti o le proprie ambasciate; il divieto di colloqui con i difensori; la mancata assistenza linguistica, e via seguitando) ma, soprattutto, descrivendo – in un rosario di efferatezze – come a Bolzaneto sia stato calpestato il fondamentale diritto alla dignità della persona: gli schiaffi, i calci, gli sputi, le manganellate; l’uso di spray urticanti; la costrizione a tenere – e mantenere – posizioni innaturali per periodi protratti; gli insulti di qualsiasi tipo, a sfondo sessuale, politico, razziale, sociale; le minacce di stupro o di morte; la costrizione ad espletare i propri bisogni fisiologici all’interno delle celle o nei bagni senza concessione di riservatezza; la mancata somministrazione di cibo e generi per igiene personale; la non adeguata assistenza sanitaria; il “marchiare” con un segno sul volto gli arrestati provenienti dalla scuola Diaz.

Anche nel caso di Bolzaneto, Barabino ci accompagna lungo l’iter giudiziario e ci sintetizza gli approdi delle sentenze di primo e secondo grado, riportando vari stralci di quest’ultima che ha speso parole molto severe sulla disumanizzazione delle vittime e sul tradimento della democrazia che si consumò tra le mura della Caserma di Bolzaneto.

Fatti che i giudici italiani non poterono chiamare tortura (come invece ha fatto la Corte Edu) per la semplice ragione che quella figura di reato non era prevista dal nostro ordinamento (e anche ora che è stata introdotta, ne è discussa da più parti la tipizzazione).

Totalmente diverso è l’approccio coltivato nel libro di Raffaele Caruso. Se il lavoro di Barabino è una ripresa dall’alto, capace però di mettere a fuoco i punti di maggior interesse del panorama, il lavoro di Caruso è, soprattutto, una ripresa dei fatti in costante soggettiva. È l’esperienza del G8, filtrata attraverso il suo «Io c’ero». Caruso scrive quasi un romanzo di formazione. Anzi: scrive un romanzo di de-formazione.

Con qualche eccesso di generosità ci scrive chi era quel giovane avvocato idealista; ci racconta di Genova, del mondo cattolico, del suo impegno politico e dei suoi amici. Ci racconta come – quasi per caso – si trovò coinvolto nel Genoa Legal Forum. Ci racconta delle sue titubanze; ma ci dice anche del suo coraggio e delle sue speranze nel partecipare a quest’opera collettiva che voleva far sentire ai «grandi della Terra» la voce di chi grande non è. E ci racconta che voleva fare tutto questo accettando di contaminarsi con ambienti che non conosceva e con uno strumento che amava: il diritto, per difendere i diritti.

Ma – abbiamo detto – quello di Raffaele Caruso è un romanzo di de-formazione: attraverso le pagine di un diario che scrisse nell’immediatezza, arricchito dalle considerazioni che egli è in grado di fare oggi, a distanza di vent’anni, Caruso ci racconta la de-formazione delle sue  – a posteriori: ingenue – aspettative e la cruda distanza che le separava dalla realtà dei fatti; ci ricorda come – di fronte all’esercizio materiale del potere e della forza – le armi del diritto rischino di valere poco (quantomeno nell’immediato e mentre accadono i fatti): vale poco un tesserino da avvocato; vale poco la richiesta di poter vedere un fermato, presentandosi in Questura o davanti al cancello della Caserma di Bolzaneto; vale poco la pretesa di interrompere un’aggressione ad un manifestante sostenendo di essere un avvocato; vale poco la pretesa di porre fine con la sola forza delle parole ad una perquisizione – diciamo così – legalmente discutibile e al fermo di un amico, poi risultato non giustificato. Nella sua ripresa in soggettiva, Caruso ci descrive soprattutto il senso di impotenza di fronte al potere. E il senso di colpa che in seguito ha nutrito per questa sua impotenza.

Ora Caruso è un avvocato di esperienza ed è in grado di mettere a fuoco le cose e, forse, si è perdonato. Ma ci racconta quanta fatica gli sia costata rimettere in ordine tutte le tessere del mosaico, per riacquistare un’immagine accettabile di sé e conservare fiducia nelle istituzioni del nostro Paese.

I due volumi contengono poi alcune analisi (Barabino, sulla inadeguatezza del nostro sistema penale a dare una risposta all’altezza di fatti come quelli avvenuti a Genova nel 2001) e prospettive (Caruso che – in modo non scontato – si chiede se una lacerazione profonda come quella determinatasi a Genova non potrebbe trovare una qualche forma di ricomposizione in percorsi analoghi a quanto avvenuto in Sudafrica o in Colombia, istituendo una Commissione per la verità; una commissione che tenti di analizzare «il contesto in cui si sono verificate le violenze più aspre all’interno del conflitto, assumendo la prospettiva delle vittime, nel tentativo di individuare le responsabilità collettive (…). Uno spazio in cui, dando ascolto a chi in quei giorni ha sofferto, si possa capire ciò che realmente è accaduto e quali siano state le dinamiche che hanno generato questa pagina in cui il dolore – l’autore ne è certo – ha visitato tutti i partecipanti, indipendentemente dall’abito o dalla divisa che indossavano»).

Una prospettiva, quest’ultima, che forse meriterebbe di essere coltivata. Prospettiva che, però, è difficile immaginare possa avere successo. Da un lato, i giudizi sui fatti del G8 si manifestano in un contesto ancora fortemente, e del tutto comprensibilmente, polarizzato. Dall’altro lato, le tendenze alla “rimozione”  sono marcate (basti pensare ai sedici anni che sono stati necessari per sentire le parole coraggiose, ma certo non troppo tempestive, rese a Carlo Bonini in un’intervista resa il 19 luglio 2017 da Franco Gabrielli, nel frattempo divenuto capo della Polizia: "Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso").

Si tratta di fattori che certo non agevolano l’avvio di un ragionamento condiviso. Ma i percorsi di giustizia riparativa si nutrono di queste – difficili e spesso impensabili – profezie.

Il racconto di Caruso e la ricostruzione di Barabino, anche per la diversità di punti di osservazione assunti, permettono infine di mettere a fuoco alcune questioni che conservano attualità per gli operatori giudiziari (come le cronache relative ai fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci ricordano ancora oggi).

Primo. L’esercizio del potere e della forza da parte dell’autorità pubblica è costantemente esposto al rischio di abuso. È un elemento pressoché connaturale all’attribuzione di un potere. Un potere – ove incontrollato – priva il consociato della possibilità di essere riconosciuto come soggetto di diritto e lo trasforma in oggetto; in corpo; in cosa.

L’abuso del potere non è solo quello di chi pone in essere atti di tortura. Lo scandalo è anche quello di chi, potendo e dovendolo impedire, non lo impedisce. Lo scandalo è anche quello di chi – per spirito di corpo – calunnia gli arrestati di comportamenti inesistenti; di chi non denuncia, o – peggio – non collabora successivamente alle indagini.

Secondo. Tanto la ricostruzione di F. Barabino quanto quella di R. Caruso permettono di mettere a fuoco alcune figure che appartengono al mondo giudiziario.

Il Pubblico ministero che dispone il differimento dei colloqui con i difensori delle persone trattenute a Bolzaneto, giustificando la decisione non con ragioni di natura processuale (come prevede il codice), ma con ragioni organizzative (la difficoltà di organizzare una sala colloqui per decine e decine di arrestati che, comunque, sarebbero stati trasferiti poche ore dopo in qualche carcere nei dintorni di Genova; tutto ciò nel contesto di un evento di dimensioni eccezionali e per un incombente che, d’abitudine, dura pochi minuti al massimo). La “ragion pratica” di una simile decisione è evidente e, sicuramente, il Pubblico ministero non l’ha adottata per “coprire” lo scempio che si stava compiendo a Bolzaneto. Tuttavia, è altrettanto certo che ove questa misura – apparentemente minore, apparentemente innocua, apparentemente ragionevole – non fosse stata adottata, forse le torture di Bolzaneto non vi sarebbero state.

I giudici per le indagini preliminari, che procedono all’udienza di convalida dell’arresto e guardano in faccia ciascuna persona arrestata e si rendono conto delle condizioni in cui questa si trova; i giudici per le indagini preliminari che rifiutano di percepire la convalida dell’arresto come passaggio meramente burocratico (come talora viene vissuto) e che, ascoltando il racconto degli arrestati, si permettono il dovere del dubbio e rifiutano le verità (che ora sappiamo) preconfezionate scritte nel verbale di arresto; i giudici per le indagini preliminari che non solo non convalidano gli arresti ma che addirittura – compiendo il loro dovere – trasmettono gli atti alla Procura della Repubblica perché vengano svolte indagini a partire dal racconto degli arrestati. Da quel dubbio, da quel coraggio, da quell’adempimento del dovere nascono i processi sui fatti della Diaz e di Bolzaneto.

E, ancora: il Pubblico ministero, che non si accontenta di verità preconfezionate e, nonostante la scarsa collaborazione di alcuni operatori di polizia giudiziaria, coltiva il desiderio di accertare i fatti, impegnandosi in indagini che sfiorano santuari che, sino ad allora, si immaginavano intoccabili. Non sappiamo a prezzo di quali sacrifici personali.

Gli avvocati delle parti civili che – a fronte del consenso dei difensori degli imputati all’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle sommarie informazioni rese dalle persone offese e a costo di “infastidire” i giudici del Tribunale, comprensibilmente preoccupati di dover snellire i tempi processuali – hanno preteso che le vittime testimoniassero a dibattimento, per poter raccontare in aula (e veder ivi riconosciuto) il loro dolore.

I giudici, che con grande fatica hanno condotto processi secondo le regole dello stato di diritto, riuscendo così a giungere (purtroppo allorché era oramai decorso il termine di prescrizione per troppi reati) ad affermare una verità processuale che oggi possiamo raccontare.

Le prospettive di Barabino (la visione oggettiva del fenomeno) e di Caruso (la visione in soggettiva della vicenda) ci ricordano che ciascun operatore di giustizia – pur portatore di una propria storia, inevitabilmente personale e condizionata da vissuti, anche contingenti – si trova sovente ad incontrare la Storia.

Vengono in mente le parole rese dalla Corte di appello di Genova nel caso Bolzaneto, laddove ricorda che la democrazia «essendo una creatura degli uomini, come tutte le creature nasce, cresce, vive, può ammalarsi e anche morire»; che la democrazia «non è un’entità monolitica e statica, ma che il fluido che la vivifica sta nella necessità di garantire la vita agli organismi che la compongono» e ricorda che «tutti, tutti coloro che le appartengono, cittadini in ogni loro veste, sono chiamati al compito arduo ed esaltante di esercitare i diritti e adempiere i doveri».

E in quell’incontro – tra la propria storia e la Storia – ciascun operatore di giustizia ha il dovere, ma prima ancora la responsabilità, di scegliere da che parte stare.

 

photo credits: SEAN GALLUP VIA GETTY IMAGES

21/07/2021
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