Magistratura democratica
Magistratura e società

Economia e diritto: perché il conflitto

di Donatella Salari
Magistrato dell'Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di Cassazione.
Una riflessione sulla retorica dell'apparente conflitto tra giustizia e impresa
Economia e diritto: perché il conflitto

Per oltre duecento anni le energie umane europee si sono focalizzate sull’economia. Molti elementi indicano che per l’homo sapiens è giunto il momento di riorganizzare l’azione umana al di là di questa dimensione esclusivamente economica. È qui che l’Europa può offrire il suo contributo al futuro…”

Giorgio Agamben

 

Colpisce nel dibattito cruciale sui rapporti tra economia e giustizia una certa marginalizzazione della genesi del "preteso" conflitto che sta come in un affilato crinale tra politica e giustizia, ossia tra libertà presidiata dai diritti, attraverso la giurisdizione, e libertà per così dire “controllata” perché filtrata da capitali e merci.

Discorso complesso, ma sintetizzabile in qualche nostro tentativo di dare forma a questo vuoto di senso di una democrazia estenuata e fragile, consapevoli che lasciare senza risposta questi interrogativi potrebbe valere, per noi, l’assenza irreversibile dal discorso pubblico.

Penso che noi magistrati abbiamo, in questo, una grande responsabilità rispetto al nostro ruolo di interpreti della democrazia se, in quel preciso momento  di verifica di bisogni e di diritti, la giurisdizione diventa pratica del diritto e si fa giustizia.

Ha ragione, perciò, Renato Rordorf, il quale nel citare Pietro Calamandrei «Chi pensa al peso di dolori umani affidato alla coscienza dei giudici, si domanda come, con un così terribile compito, essi riescano la notte a dormire sonni tranquilli», ci richiama al rifiuto del grande giurista rispetto al modello del giudice burocrate, «bocca della legge», che sembra «fatto apposta per togliergli il senso della sua terribile responsabilità e per aiutarlo a dormire senza incubi». La giustizia, sosteneva Calamandrei, è «creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana» e il giudice deve «saper portare con vigile impegno umano il grande peso dell'immane responsabilità che è il rendere giustizia».

Diventa, perciò, urgente la padronanza di un’intelligenza di sistema che ci aiuti a comprendere e gestire questo conflitto riflettendo sulla sua fisiologia per creare un appiglio tra "visioni" sfalsate e non soccombere davanti alle censure di protagonismo, oppure di argine conflittuale alla libertà della politica, o, peggio, d’inadeguatezza culturale o tecnica rispetto all’esigenze di crescita economica d’imprese strategiche, ovvero di scarsa “leggibilità” da parte nostra delle conseguenze economiche delle strategie d’indagine e d’intervento nella tutela dei diritti davanti ad emergenze occupazionali o produttive in genere. 

Qualche passaggio per spunti di riflessione sulla genesi di questa vera e propria emergenza culturale va operata perché la retorica del conflitto o, peggio ancora, quella dell’inaffidabilità della crescita italiana anche per colpa di una magistratura inefficiente o impreparata non deve rimanere senza risposta se non c’interroghiamo sulla genesi di questo apparente conflitto tra quelle che appaiono essere due visioni diverse della stessa democrazia.   

Democrazia /Egemonia

Penso che ciascuno di noi possa convenire che la migliore realizzazione della democrazia sta nel riconoscimento dell’individualità, o meglio della umanità  di ciascuno di noi. Se questo è vero ogni potere, e quello giurisdizionale, primo tra tutti, appare destinato alla realizzazione della persona, se, come siamo convinti, che democrazia significa condivisione del potere attraverso il corpo del cittadino

Qui, la simmetria tra diritto ed individuo attua il suo precetto e fonda le sue certezze.

Se ne deve concludere che tanto maggiore sarà la diffusione della conoscenza tanto più grande sarà quel desiderio di riconoscimento e tanto minori saranno le egemonie che potranno sempre essere contrastate con gli stessi mezzi che l’ordinamento democratico mette a disposizione.

Dobbiamo, allora, chiederci se la generalizzazione dell’economia di mercato come sistema di conoscenza va nella direzione dell’egemonia nel momento in cui sembra innervare ogni aspetto della vita collettiva e se può generare egoismi individuali e forme striscianti di neopopulismo.

E’ possibile, allora, che all’individualità consapevole dei propri diritti e delle proprie prerogative democratiche si opponga un’esistenza meramente quantitativa e numerica disorientata da un discorso pubblico che pone al centro di sé il pensiero economico unico delle espansioni infinite e sempre realizzabili e che fa della tecnologia non motore di progresso, ma di strisciante omologazione di forme sempre più pervasive di alterazione della nostra individualità? 

Si annida infatti, nell’idea del conflitto tra economia e diritto l’esito di un processo antico che ha visto e vede nelle continue negoziazioni di merci imposte dal mercato globale fasi di valorizzazioni e svalorizzazioni  che rischia di  travolgere non solo capitali  e scambi, ma anche le individualità tese- nell’idea occidentale di rapporto tra potere e sapere - al disconoscimento del diritto più grande che ciascuno individuo desidera, ossia l’eccellenza (Mario Perniola)  

Senza questa consapevolezza, infatti,  il paneconomismo rischia di avvilupparci in una rete che ci obbliga all’idea di scarsità e di consumo e, quindi, di bisogni che appaiono, all’uomo bisognoso, continuamente insoddisfatti (Ivan Illich), capovolgendo il rapporto tra l’individuo e le cose tanto più se incalzato dalle immagini dell’economia come unica possibilità – quantitativa - di crescita, se ogni individuo accetterà passivamente di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, mentre sempre di meno sarà in grado di comprendere la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio ( Guy Debord).

Siamo, credo, ormai consapevoli che, se queste premesse fossero fondate, il rapporto tra individuo e strutture produttive potrebbe alterarsi in forme destinate a riflettersi patologicamente nella tutela dei diritti costituzionali.

E’ vero, allora, che il conflitto, visto nella sua più lontana genesi, riguarda il carattere catastrofico che il processo di crescita incontrollato può ingaggiare con il singolo individuo, perché ogni forma di accelerazione e di proliferazione del mondo oggettificato finisce per prevaricare l’individualità saturando lo spazio emotivo e simbolico del soggetto che rimane stordito ed inerte (J. Baudrillard).

In questo punto sta l’episodio della violazione dei sigilli posti dalla Magistratura all’Altoforno 2 della Ilva di Taranto che dimostra quanto ciascuno, rischi di perdere  la consapevolezza dei propri diritti e del loro profondo significato di realizzazione della persona, accelerando la dinamica di un conflitto apparentemente senza via d’uscita tra ambiente, salute e possibilità occupazionali.   

Se ne deve concludere che, in questi ultimi decenni, il sogno tragico di un‘abbondanza illimitata ha soffocato ogni azione e riflessione critica devastando i legami sociali  mentre  i reali cambiamenti, diventano indecifrabili per  la collettività che viene così deprivata della dimensione storica degli stessi. 

Perciò il rischio più grande che si cela nel predicato “conflitto” tra economia e diritto sta proprio nell’adattamento a questa dimensione dell “es” economico se l’ ”io” sociale  rimane irretito da una sorta di falso realismo che accetti la dimensione paneconomica, davanti alla crisi, come il male minore.      

Deficit di cultura e incapacità della politica

Se queste premesse sono esatte la prima conseguenza che dobbiamo temere è che nella giurisdizione possano naufragare le verità date e introiettate dalla Carta Costituzionale, mentre la fatica intellettuale più grande è quella di resistenza al mainstream che si oppone quotidianamente a conoscenza e consapevolezza.

Dobbiamo, perciò, essere lucidi nel comprendere  che nessun potere pubblico potrà sopravvivere senza cultura e conoscenza dei propri diritti e che questo può rappresentare il grande limite della politica contemporanea nel momento in cui si essa si affida a forme di cooptazione della classe dirigente che si autolegittima nei percorsi burocratici di estrazione partitica o nei c.d think tank, ossia in pseudo-apprendimenti destinati, piuttosto, a creare i presupposti per l’analfabetismo di ritorno dei governanti e per l’incapacità della politica

Il conflitto diventa, allora, tale se mancano i momenti di mediazione tra crescita e diritti che la politica può enucleare.

Dove sono intellettuali ed economisti?

Evapora il discorso pubblico perché manca, oltre alla politica, un altro punto di riferimento per la collettività: gli intellettuali.

Essi appaiono, oggi, confinati in spazi puramente decorativi creati per loro da politica e capitale.

Si è, probabilmente, innescato un fenomeno paradossale di loro auto destituzione perché il ceto degli intellettuali ha consapevolmente abdicato a quelle forme di autonomia ed indipendenza indispensabili perché ad essi possa essere delegata, come in passato, una sintesi progettuale capace d’influenzare positivamente la politica e, per questo, Bauman, felicemente, parla di “decadenza degli intellettuali.”

E’  lo stesso Bauman che ci dice che il punto di crisi della nostra contemporaneità risiede nella perdita del discorso collettivo da parte degli intellettuali e, aggiungerei, della politica c.d. “alta”,  dove una società ammutolita perché priva di strumenti di conoscenza si limita ad affidarsi, in pieno dumbing down, alle approssimazioni del linguaggio comunicativo generato dallo sciame dei tweet dal basso e dalla zelante subalternità di una stampa  che il più delle volte- e con le dovute eccezioni - preferisce fare da megafono fedele a verità precostituite.

In questo quadro il potere giudiziario è facilmente vissuto, nella somministrazione di una regola- limite,  come un disturbo del campo visivo delle dinamiche sociali dal momento che i punti di mediazione e di elaborazione del discorso collettivo si sono involuti e l’ordinamento ha reagito con forme di bulimia legislativa e d’intervento che rappresentano già una staticità ordinamentale e una verticalizzazione che divengono facile metafora dell’assenza di vere passioni civili e di armonia della cosa pubblica.

Anche il ruolo degli economisti accademici diventa allora, cruciale.

Afferma Luigi Zingales nel suo recentissimo saggio “Does Finance Benefit Society ?” che le lobby possono impedire l’approvazione di una buona legge, ma non per questo dobbiamo desistere perché il ruolo dell’accademico può divenire quello dell’educatore, smascherando quelle tolleranze su comportamenti non propriamente etici del mondo economico e finanziario e in questo, sostiene sempre Zingales, andrebbero ricercate anche le responsabilità degli stessi economisti, soprattutto quelli che insegnano finanza, perché non è accettabile liquidare la questione  con la facile affermazione che l’economia è scienza e non filosofia morale.

Anche l’accademia, allora, deve dunque fare la propria parte creando un appiglio culturale che prevenga il conflitto tra orizzonti culturali inconciliabili in vista di una sorta di ordoliberismo, soprattutto perché potrebbe non esser vero che solo la giurisdizione debba farsi carico delle conseguenze sociali di un’azione economica non sostenibile.

Bilanciamento dei diritti, specializzazione e prevedibilità delle conseguenze dell’intervento giudiziario

L’idea di bilanciamento e di prevedibilità delle conseguenze economiche dell’intervento giudiziario presuppone, perciò, la nostra consapevolezza sulla genesi di questi collassi sociali determinati dalla perdita di punti di riferimento collettivo che rendono arduo il nostro agire e che c’impongono ruoli di mediazione nuovi e pesanti, spesso estranei alla nostra formazione e aggravati dal rumore narcotizzante della comunicazione main stream portata, per servilismo ed incultura, a preconfezionare responsabilità a la càrte.

Questo difficile equilibrio aggravato dall’implosione di deficit di mezzi organizzative e risorse diventa conflitto se la politica s’irrigidisce nel rozzo compromesso della responsabilità civile del magistrato, in un deficit culturale inarrestabile destinato a riconoscersi solo nel linguaggio arido del risentimento, quello stesso che polarizza il conflitto tra libertà d’impresa e tutela dei diritti, come se il progetto della crescita infinita incontri nei diritti costituzionalmente garantiti un ostacolo o un prezzo sociale del quale la politica non è propensa a farsi carico, specie in questo tempo senza eredità e senza futuro. 

 

07/09/2015
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