Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

C’era un giudice a Castrovillari

di Giuseppe Battarino
giudice del tribunale di Varese

La storia di un processo per l’usurpazione dei diritti dei cittadini ad Amendolara, un paese dell’Alto Ionio, nel 1871, e una riflessione sulla giustizia in Calabria

1. Straface 

Amendolara, paese dell’Alto Ionio cosentino, aveva, ed ha, un territorio di vasta estensione, oltre sessanta chilometri quadrati, che va dalla costa sino all’interno caratterizzato da un ampia zona di boschi e terreni a pascolo e coltivo la cui parte più rilevante, e praticata tuttora dagli amendolaresi, è quella di Straface[1].

Nell’ ‘800 da Straface derivavano al Comune importanti entrate, rappresentate dalla “fida di pascolo” sui terreni pubblici, dal “terratico dell’anno di raccolto” per la concessione di terre e dai canoni per la raccolta della corteccia di pino, detta zappino e per la produzione della pece.

Un’economia di comunità, in cui una consistente proprietà pubblica andava a sostenere, attraverso un uso regolato, i bisogni della popolazione locale, in particolare degli strati più poveri.

Ma questa visione e gestione democratica, risalente nelle sue prime forme al Secolo XVI, non era certamente gradita ai nobili feudatari, che ciclicamente avevano posto in essere tentativi di usurpazione[2].

Per vero l’uso dei beni comuni non risultava sempre pacifico, e frequenti erano le contese di confine o sulla misura delle concessioni: ma si trattava di questioni tra pari, nella quasi totalità dei casi risolte bonariamente.

 

2. Le pretese del nobile e il processo

Di un particolare tentativo di appropriarsi dei terreni pubblici, risalente alla seconda metà dell’800, riferisce lo storico Vincenzo Laviola:

«Il barone Francesco Saverio Pucci aveva avuto in fitto il bosco di Straface per ben dodici anni, dal 1858 al 1870. Finito il lungo periodo di locazione, continuò, egli come ogni altro cittadino, a godere dell’erbaggio per il pascolo dei suoi animali e, avendo avuto per tanto tempo l’uso del bosco, gli parve […] che gli fosse lecito di appropriarsene di una parte come se gli appartenesse. E per mettere in atto questo suo disegno, nei mesi di marzo e di aprile del 1871 mandò alcuni suoi coloni nel bosco comunale e precisamente nella contrada detta Manca della Tavola, ad eseguirne di tratto in tratto il disboscamento».

Si può immaginare che l’iniziativa del barone Pucci fosse dettata non solo da interesse economico, ma anche dal fastidio di vedersi parificato nell’uso comune a contadini e braccianti.

I quali, però, non restano acquiescenti: si rivolgono al sindaco, che a sua volta si attiva per difendere i beni della comunità.

Il sindaco di Amendolara, infatti, il 12 giugno 1871 si porta personalmente a Straface con la forza pubblica e redige a carico del barone un verbale di contravvenzione alla legge forestale, contestandogli il disboscamento di un’area di di tre ettari e sei are, con abbattimento di molti alberi. Una condotta che è anche rilevante penalmente, e dunque vengono denunciati i coloni del barone come autori materiali e lo stesso nobile come mandante.

Scrive il Laviola: «Procedutosi all’istruttoria, il 7 marzo del 1872 fu spedito mandato di comparizione verso il Pucci, il quale, comparso davanti al giudice istruttore di Castrovillari, oppose che sulla zona disboscata egli vantava diritti di proprietà».

Il giudice istruttore non accoglie la tesi difensiva, tuttavia dispone la sospensione del procedimento penale concedendo al Pucci il termine di sei mesi «onde sperimentare civilmente i suoi diritti di proprietà sul fondo» disboscato.

Ovviamente l’imputato (inusitato imputato, trascinato davanti al giudice penale da infimi contadini e da un sindaco irriguardoso!) non aveva alcun elemento per dimostrare il suo asserito diritto di proprietà: ma instaura un’azione possessoria nei confronti del Comune, davanti al pretore di Amendolara.

Il quale tira subito un sospiro di sollievo perché, essendo affine dell’attore, dichiara di doversi astenere: passaggio evidentemente atteso dal barone Pucci, che vede assegnare la causa alla limitrofa pretura di Oriolo, dove un prudente magistrato gli riconosce in breve tempo l’inesistente diritto di proprietà sui beni comunali («con speciose argomentazioni» chiosa Vincenzo Laviola).

Ma l’orgogliosa ostinazione degli amendolaresi fa sì che il Comune deliberi il ricorso in appello.

Si torna a Castrovillari, dove il tribunale, con sentenza del 1° giugno 1875, in riforma della sentenza di primo grado, rigetta le ragioni possessorie del barone e lo condanna alle spese.

Il Pucci ricorrerà in Cassazione (a Napoli[3], all’epoca non vi era ancora la Corte romana unica), senza successo: nel 1877 la sentenza del Tribunale di Castrovillari è confermata e viene definitivamente restituita ai cittadini di Amendolara la certezza del loro diritto comunitario sul bosco di Straface.

3. Stare tra i “galantuomini” o almeno “essere conosciuti” 

Una vicenda sociale e giudiziaria di centocinquanta anni fa, consumatasi in una remota periferia, può dirci qualcosa oggi?

Si può partire dai fattori persistenti nelle relazioni sociali che avevano improntato, all’epoca, le condotte del barone e dei giudici “di prime cure”.

Nel calcolare gli effetti della sua condotta usurpatrice, il nobile aveva certamente considerato almeno due elementi: la remissività dei “bracciali” di Amendolara - come si chiamavano nel catasto onciario istituito da Carlo II di Borbone nel 1740 coloro che vivevano del solo lavoro delle proprie braccia – e la benevola indifferenza o neghittosità delle istituzioni di fronte al comportamento di un “galantuomo”.

Una previsione doppiamente errata. Perché, come abbiamo visto, gli usurpati non rimangono remissivi e l’autorità pubblica a cui si rivolgono, il sindaco, reagisce e denuncia il nobile.

Ma il contesto sociale, allora (ora?) prevedeva, nella normalità, che la classe dei “galantuomini” avesse relazioni interne autodifensive privilegiate, il cui meccanismo di base era la conoscenza personale: che avrebbe ben potuto garantire il conosciuto e riconosciuto nobile di fronte ad altri “galantuomini”, i magistrati. 

Effetto disatteso a Castrovillari.

Con questi presupposti, generalmente il grado zero delle relazioni illecite risiede[va] in comportamenti in sé non illeciti.

Il meccanismo di base è, come detto, chiedersi se “si conosce qualcuno” (e dunque se “si è conosciuti da qualcuno”) nell’ambito in cui si dovrà esercitare una facoltà o un diritto: sia esso, ora (allora?) un’amministrazione locale, un tribunale, un ospedale.

Oppure se si conosce qualcuno che conosce qualcuno, che gli sia “amico” o – variante più intensa – “fraterno amico”.

Il contadino (o il cittadino inerme davanti a un apparato) deve “farsi conoscere” palesando la sua infima esistenza al potente, manifestandogli la sua anticipata riconoscenza e dichiarando di accettare qualsiasi sua azione.

Ne riceverà consiglio, conforto e aiuto, perché il potente subisce una coazione a rilegittimarsi continuamente attraverso l’elargizione di quelle utilità.

Quei contadini, se avessero voluto continuare a esercitare i loro diritti per ritrarre le modeste ma essenziali utilità dal bosco e dai terreni comunitari, avrebbero potuto riconoscere la superiorità del barone, immaginandone la condizione di intoccabile “pari” di amministratori e magistrati, per ricevere poi il contenuto di quei diritti trasformato in graziosa concessione.

Fecero una scommessa diversa sulla giustizia, la vinsero.

C’è un significativo personaggio letterario, del quale si dice: «tutti gli si rivolgevano per aiuto senza mai venire delusi; non faceva vane promesse e neppure avanzava scuse vili di avere le mani legate da forze più potenti” e si sapeva che “nulla avrebbe lasciato di intentato per risolvere il caso»; al postulante che si presentava era richiesto soltanto che «lui stesso proclamasse la sua amicizia»; e poi «era sottinteso, era una mera questione di buone maniere, che ci si doveva proclamare suoi debitori e che egli aveva il diritto in qualsiasi momento di chiedere di estinguere il debito con qualche piccolo servizio».

Uno schema riconoscibile anche nell’ordine giudiziario?

Domanda inquietante. Come altre.

Quanto distano i contadini di Amendolara del 1871 da un cittadino calabrese comune del 2021 che ha bisogno di protezione e deve “farsi conoscere”? ed entrambi da un magistrato che ambisce a un incarico e che deve “farsi conoscere”?

E quanto dista il nobile usurpatore dei boschi del 1871 da un soggetto del 2021 incardinato nelle istituzioni o in possesso di grandi disponibilità, che si sente intoccabile? ed entrambi da un appartenente all’ordine giudiziario che ha costruito una rete intensa di relazioni personali tale per cui in qualsiasi evenienza sarà sempre “conosciuto” e garantito?

Il magistrato che accetta, senza cerimonie di iniziazione ma per fatti concludenti, di appartenere a una “nobiltà” o che cerca di farvi ingresso, si è già smarrito.

E si smarrisce il magistrato a cui serve qualcosa in un mondo giudiziario che talora, non diversamente da quello carcerario, si basa sul principio della “domandina”, e che anela per questo a un contatto personale utile per farla procedere, o per cavarsi da un impaccio.

Dei giudici di Castrovillari, centocinquant’anni fa, ruppero questi schemi.

Oggi ci sono, in Calabria e altrove, magistrati pronti a rompere gli schemi della conoscenza personale.

Una doverosa informazione: il personaggio descritto attraverso l’attitudine all’”amicizia”, quello a cui tutti si rivolgevano per aiuto senza mai venire delusi e che non faceva vane promesse è don Vito Corleone, nel Padrino di Mario Puzo.

 

photo credits: Giuseppe Battarino

 


 
[1] Le fonti di questo scritto sono costituite in principalità da: Vincenzo Laviola, Amendolara. Un modello per lo studio della storia, dell’archeologia e dell’arte dell’Alto Jonio calabrese, Pacini Fazzi, Lucca, 1989; e inoltre da: Rocco Silvestri, Amendolara, profilo storico di un paese antico, Jonica, Trebisacce, 1987; Antonio Gerundino, Economia, soceità e demografia di Amendolara nel catasto onciario del 1752, Orizzonti meridionali, Cosenza, 2010; Vincenzo Padula, Calabria prima e dopo l’Unità (a cura di Attilio Marinari), Laterza, Bari, 1977. Il Padula (Calabria, cit. II, 383), indica Straface tra i luoghi di “tesori” nel paese di Amendolara. Una necessaria nota personale: a Straface i miei avi sono stati titolari di un livellario del Comune.

[2] Già nella prima metà dell’Ottocento il fenomeno si era manifestato in tutta la Calabria. Lo descrive Augusto Placanica (Storia d’Italia,. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Calabria, Einaudi, 1985, p. 106) come fenomeno «durato implacabilmente per gran parte del secolo XIX» favorito da leggi inadeguate e «nell’oscitanza delle autorità». Un termine desueto ma massimamente espressivo nel descrivere la diffusa fatalistica rassegnazione e negligenza delle autorità pubbliche. Placanica cita il principe di Giardinelli, intendente del governo a Catanzaro, che nel 1838 affermava: «Si è reso proprietà di pochi particolari il pubblico patrimonio ch’era d’uso comune, senz’avere aumentato il numero dei proprietari, e togliendo a’ comuni i vantaggi di che godevano. Si è chiuso un campo alla speculazione di quelli agricoltori che prima, avendone i mezzi, potevano coltivare le terre demaniali e ivi industriarsi pagando una modesta corrisposta. Ma più, a man franca, o signori, e sfacciatamente, si è usurpato il comune patrimonio da non pochi particolari».

[3] Notizie del processo, e della difesa del Comune in Cassazione si trovano nella pubblicazione dell’avvocato napoletano Giuseppe Perez Navarrete Pel Comune di Amendolara contro il Barone Francesco Saverio Pucci - Innanzi alla Corte di Cassazione, Napoli, Stabilimento tipografico del Cav. Francesco Giannini, via Cisterna dell’Olio 6, 1887.

27/12/2021
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