Magistratura democratica
Magistratura e società

«Un fiorino!»

di Tommaso Greco
ordinario di filosofia del diritto, Università di Pisa
Alcune considerazioni sulle regole, sulla cultura giuridica italiana e sulla (s)fiducia nei confronti di burocrati e cittadini

1. Un piccolo e divertente trattato sulle regole

Uno degli episodi più noti della cinematografia italiana, inserito in un film ormai riconosciuto come un ‘classico’, è quello nel quale Roberto Benigni e Massimo Troisi devono attraversare il confine doganale dello stato toscano del XV secolo, nel quale sono stati improvvisamente e inspiegabilmente catapultati. L’episodio è troppo noto per doverlo qui raccontare (www.youtube.com/watch?v=p6-yWvqE0G4), e personalmente lo ritengo — e lo presento nelle mie lezioni come tale — un vero e proprio “trattato sulle regole”. Proprio la sua notorietà può dunque aiutarci a fare una riflessione, sia sulla funzione e sul senso delle regole, in generale, sia sul modo in cui esse sono ‘pensate’ e applicate in Italia, in particolare.

La scena si basa sull’esistenza di una regola semplice, chiara, e che apparentemente non necessita di alcuna interpretazione: chiunque varchi il confine e passi la linea segnata sul terreno, qualunque sia la sua direzione, paga (deve pagare) un fiorino.

I fatti dimostrano presto che nella realtà ci sono più cose di quante possa contenerne una regola, per quanto dettagliata questa possa essere. Uno dei due viaggiatori, pagato il primo pedaggio, si vede costretto a tornare indietro per recuperare il sacco caduto dal carro. Varca nuovamente il confine, subito ripreso dal severo doganiere e dal suo soldato-assistente. “Chi siete? Quanti siete? Cosa portate? Un fiorino!” è l’esclamazione che il doganiere ha imparato a recitare e che viene rivolta nuovamente a colui che aveva pagato il pedaggio soltanto pochi istanti prima. Ma così vuole la regola. Recuperato il sacco e ripresa la direzione, la situazione si ripresenta: di fronte al viaggiatore che varca il confine – senza prendere in considerazione il fatto che fosse appena passato e che fosse tornato indietro soltanto per recuperare il suo sacco – il doganiere recita la sua litania, svolgendo la sua funzione di ‘applicatore di regole’. Egli insiste più volte, finché non viene simpaticamente mandato a quel paese da un Troisi incredulo e sospeso tra sbigottimento e divertimento.

L’immagine del doganiere con il foglio in mano da srotolare ad ogni passaggio è opposta e speculare a quella di un Azzeccagarbugli che cerca le ‘grida’ nel disordine delle sue carte. All’incertezza che progressivamente si impossessa dell’animo di Renzo nella stanza dell’avvocato manzoniano fa da contraltare l’assoluta certezza della situazione vissuta dai due attori comici italiani: ad ogni passaggio di linea «un fiorino!».

2. Ottusi o disonesti?

La situazione è così paradossale che può sembrare poco veritiera ma riassume in realtà molte situazioni analoghe, con le quali abbiamo a che fare di continuo. Massimo Gramellini, qualche anno fa, raccontando un episodio occorso a un passeggero delle ferrovie italiche, concludeva che le regole spesso sono congegnate in modo tale da mettere i suoi esecutori «di fronte a un’alternativa atroce: rispettare le norme così come sono oppure eluderle. Comportarsi da ottusi o da disonesti, mai da esseri umani»[1]. La questione non è di poco conto: tutti coloro che si sono occupati delle regole hanno evidenziato come non sia possibile costruire, e soprattutto applicare qualche regola, senza prevedere una qualche eccezione. Meglio di tutti ha espresso questa esigenza Joseph de Maistre (e non spaventi il nome di quel gran reazionario, il quale esprimeva ciò che, da Aristotele in poi, in molti hanno ripetuto). Questi faceva notare come non sia «in potere dell’uomo creare una legge che non abbia bisogno di nessuna eccezione», sia a causa della «debolezza umana che non potrebbe prevedere tutto», sia a causa della natura della realtà e delle cose, le quali «variano talmente da uscire, per il loro stesso movimento, dai limiti della legge»[2]. Fin qui nulla di nuovo o di speciale; quel che De Maistre faceva di interessante, però, era ricavarne la necessità giuridica di un «potere dispensatore»; perché mentre «ogni violazione della legge è pericolosa o mortale per la legge stessa», «ogni dispensa la fortifica». Di nuovo, si tratta di non perdersi nell’alternativa tra il comportarsi da ottusi oppure da disonesti, dando al decisore la possibilità di comportarsi da “essere umano” (per riprendere le parole di Gramellini).

3. Tra sfiducia e fiducia

La verità è che le regole fanno ciò che devono fare: come ci ha spiegato in maniera magistrale Frederick Schauer[3], esse operano una schematizzazione e un irrigidimento della realtà, nella convinzione che un’applicazione ‘caso per caso’ lasci troppo margine alla discrezionalità (se non all’arbitrio) di chi deve applicarle, producendo una sostanziale disuguaglianza dal lato di coloro ai quali si rivolge. Insomma, l’atteggiamento ‘trincerato’ delle regole è pensato apposta per opporre la rigidità allo sbraco. Una rigidità che nella scena del “fiorino” è significativamente rappresentata dal doganiere che non guarda mai ciò che gli accade davanti. Egli è ligio al suo dovere e il suo unico riferimento è fornito dal testo su cui è scritta la regola che è chiamato ad applicare.

Il problema è allora il seguente: quanta fiducia possiamo accordare a coloro che applicano le regole? Quanto possiamo affidare al decisore ultimo la possibilità di rendere in qualche misura elastica l’applicazione della regola, senza rischiare di rendere vana la regola stessa? La risposta non può che essere: dipende. Dipende da cosa? Innanzi tutto dai valori in gioco: ad es. è bene essere più precisi (e quindi rigidi) quando l’applicazione elastica faccia temere la possibilità di comportamenti discriminatori basati sulla razza, sull’appartenenza religiosa o sull’orientamento sessuale; in secondo luogo dalla natura della situazione: un fattore importante è la possibilità che il controllore/decisore/funzionario che applica la regola sia nelle condizioni di accertare direttamente la sussistenza delle condizioni che richiederebbero di derogare alla regola (riprendendo l’esempio del film: al doganiere bastava guardare in faccia i due viaggiatori per sapere che erano passati solo pochi istanti prima); infine – ed è forse il fattore decisivo, sul quale si reggono tutti gli altri – dalla possibilità di sottoporre ad un controllo coloro che applicano le regole.

Dico che quest’ultimo è il fattore decisivo perché è proprio l’irresponsabile comportamento del decisore quello che la rigidità delle regole tende a contrastare. Un decisore senza controlli, che abbia la possibilità di derogare alla regola, rischia di trasformarsi nel classico burocrate, forte con i deboli e debole con i forti; un personaggio che la cinematografia italiana ha anche stavolta raffigurato in modo memorabile.

Allora la questione cruciale sembra essere l’esistenza di un sistema di controlli tale da rendere difficili (se non impossibili) abusi ed arbìtri, dando però nello stesso tempo la possibilità di evitare che l’applicazione della regola si trasformi in una ‘sanzione’ per coloro la cui tutela è all’origine della regola stessa.

Si tratta di una questione molto seria, in quanto coinvolge – e svela allo stesso tempo – l’intera cultura giuridica di un popolo.

4. Sulla cultura giuridica italiana, a partire da Machiavelli

La cultura giuridica italiana – quella che anima l’intero nostro sistema di regole – ha infatti un rapporto tutto particolare con i controlli. Si pensa in genere che, per poter svolgere una qualunque attività, occorra prima superare una serie di filtri e barriere, i quali avrebbero di per sé la capacità di impedire gli abusi e di garantire il rispetto delle regole stesse. Di conseguenza, si tende a dare meno importanza ai controlli ‘a valle’, tesi a verificare l’effettivo rispetto delle regole nel contesto delle attività svolte. Questo tipo di cultura si basa su una ipotesi che possiamo chiamare “dell’uomo delinquente” e che è stata espressa una volta per tutte da Niccolò Machiavelli: «È necessario a chi dispone una republica ed ordina leggi in quella – scriveva il Segretario Fiorentino nei Discorsi (I, 3) –, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione (…) Gli uomini non operarono mai nulla bene se non per necessità».

A cinquecento anni di distanza possiamo dire che il messaggio di Machiavelli è stato recepito perfettamente, in Italia, almeno nella lettera. La minuzia con cui viene regolato ogni gesto dei soggetti – in particolare per coloro che appartengono alla pubblica amministrazione – nasce dalla loro preventiva raffigurazione quali “uomini rei”, pronti continuamente “a usare la malignità dello animo loro”. Si è creato così un sistema nel quale non solo tutto si è complicato a dismisura, ma nel quale il tempo che si è costretti ad impiegare nello svolgimento di procedure burocratiche tese a un controllo preventivo di qualunque attività rischia di superare (e a volte supera di gran lunga) il tempo a disposizione per le azioni sostanziali per le quali quelle procedure dovrebbero servire. Guardiamo all’università e alla scuola: il tempo per la ricerca scientifica è diminuito in proporzione inversa al tempo necessario per le procedure di valutazione; il tempo per la preparazione di una didattica adeguata è diminuito in proporzione inversa a quello necessario per il riempimento di moduli e schede.

Il risultato tragico di questa situazione è che il nobile fine di evitare che i furbi facciano i furbi è perseguito attraverso un irrigidimento che rende difficile raggiungere risultati migliori anche a coloro che avrebbero solo voglia di far bene ed onestamente il loro lavoro. E questo è già un danno enorme, anche senza aggiungere la beffa derivante dal fatto che i furbi riescono spesso a fare i furbi lo stesso. Non si dimentichi, infatti, che nella famosa scena dalla quale ho preso le mosse, di fatto Troisi passa e ripassa il confine senza pagare ulteriori balzelli, mentre il doganiere continua a reclamare il suo fiorino.

La conclusione di questo discorso, partito da una scena comica e finito in una constatazione ‘tragica’, è che l’irrigidimento delle regole è direttamente proporzionale al grado di sfiducia (e quindi inversamente proporzionale a quello di fiducia) che un sistema giuridico nutre nei confronti dei suoi funzionari oltre che dei suoi cittadini. Quanto più si opererà e quanto più si congegneranno le cose in modo che ci si possa fidare dei funzionari e dei cittadini tanto più saremo sicuri che le regole serviranno a vivere meglio e non peggio. Non si tratta, per usare un gioco di parole, di passare dalla regola del sospetto al sospetto per le regole; si tratta di pensare alle regole come ad un mezzo non per impedire ma per rendere possibili le azioni che ne giustificano la presenza.

 

[1] M. Gramellini, Dell’ottusità, in La Stampa, 27 ottobre 2010.

[2] J. De Maistre, Du pape, II.3; tr. it. Il papa, Rizzoli, Milano, 1995, p. 162.

[3] F. Schauer, Le regole del gioco. Un’analisi filosofica delle decisioni prese secondo le regole nel diritto e nella vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2000.

11/02/2020
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