Magistratura democratica
Diritti senza confini

Tutela delle relazioni familiari, circolarità migratoria e libertà di circolazione

di Paolo Morozzo della Rocca
ordinario di diritto privato, Università per stranieri di Perugia

Un breve commento ad una recente pronuncia del Tribunale di Milano, Sez. specializzata immigrazione, in materia di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, in ragione della prolungata assenza dal territorio italiano.

1. Quel che sappiamo della vicenda

Questa in breve la vicenda familiare esaminata dal tribunale milanese, così come la si può ricostruire in base alla lettura del provvedimento in commento.

Un cittadino egiziano, legalmente residente in Italia sin dal 1999 e percettore di un reddito principalmente derivante dalla pensione di invalidità a seguito di infortunio (pari a circa mille euro al mese) sposa nel 2006 una sua concittadina che lo raggiunge in Italia nel 2014 assieme ai due figli nati nel frattempo in Egitto.

La famiglia così riunificatasi vive a Milano dal 2014 (anno in cui nasce, sul territorio italiano, un terzo figlio) fino al 2017. Ma il 25 maggio di quell’anno la moglie fa rientro in Egitto assieme ai tre figli, rimanendovi sino al 25 marzo 2019 (secondo l’avvocatura dello Stato) od anche sino a dicembre 2019 (secondo il marito della donna), per poi ritornare nuovamente in Egitto per altri sei mesi (nel periodo febbraio - luglio 2020). Solo nell’agosto 2020, dunque, la donna e i figli della coppia tornano nella casa familiare.

Al netto delle ulteriori disavventure vissute alla frontiera aeroportuale (dove sono stati illegittimamente sequestrati alla donna e, chissà perché, a uno solo dei figli[1] i documenti di identità e i permessi di soggiorno) la ricorrente si trova a dover agire contro il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari notificatole dalla polizia di frontiera al suo rientro in Italia, chiedendo al Tribunale di Milano di accertare il suo diritto di soggiornare in Italia assieme ai familiari, tutti già titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo e possessori, di conseguenza, di un permesso di soggiorno di durata illimitata.

 

2. Sugli effetti del troppo prolungato soggiorno all’estero

Il diniego questorile del rinnovo del permesso di soggiorno è stato motivato dalla violazione da parte della donna dell’art.13, c.4, d.p.r. n.394/1999, ove in effetti è disposto che «il permesso di soggiorno non può essere rinnovato o prorogato quando risulta che lo straniero ha interrotto il soggiorno in Italia per un periodo continuativo di oltre sei mesi, o, per i permessi di soggiorno di durata almeno biennale, per un periodo continuativo superiore alla metà del periodo di validità del permesso di soggiorno, salvo che detta interruzione sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari o da altri gravi e comprovati motivi».

Peraltro, dato che la donna, stando a quanto narrato dal coniuge audito, ha soggiornato in Egitto non da sola ma con i tre figli, vi era la concreta possibilità che la Questura applicasse a questi ultimi - titolari dello status di residenti di lungo periodo - l’art.10, c.7, d.lgs. n.286/1998, ai sensi del quale il permesso di soggiorno Ue per gli stranieri residenti di lungo periodo «è revocato (…) in caso di assenza dal territorio dell’Unione per un periodo di dodici mesi consecutivi»[2]. Il Questore di Milano ha però opportunamente evitato di procedere in tal senso.

La donna, opponendosi al diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, assume di avere dovuto prolungare l’assenza dall’Italia per gravi motivi la cui consistenza verrà forse accertata nella successiva fase del merito. Ciò consente quindi di non affrontare qui, se non con qualche indicazione in nota, lo specifico tema dei «gravi e comprovati  motivi»[3]

Il Giudice dell’istanza cautelare osserva tuttavia (del tutto condivisibilmente) che anche nel caso in cui non dovesse essere fornita dalla ricorrente la prova di motivi sufficientemente gravi da giustificare la prolungata permanenza nel paese di origine, il diritto di soggiorno in Italia della ricorrente dovrebbe comunque trovare conferma in ragione del bilanciamento tra l’interesse pubblico al rispetto della norma violata (l’art.13, c.4, d.p.r. n.394/1999) e il diritto fondamentale al rispetto della vita familiare sia della donna che dei suoi familiari ormai stabilmente soggiornanti in Italia.

 

3. La base giuridica della decisione in commento

La base giuridica della decisione è in primo luogo costruita (al netto di un più ampio ventaglio di norme più genericamente richiamate) sull’art.13, c.2-bis, d.lgs. n.286/1998. Questa norma, letta alla luce di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale[4], dispone che nell’adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il ricongiungimento familiare, oppure è stato ricongiunto, o comunque ha relazioni familiari effettive in Italia, si deve anche tenere conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Benché riferita al procedimento di espulsione, questa disposizione fornisce un’inequivocabile indicazione all’interprete anche riguardo al procedimento di rinnovo o conversione del titolo di soggiorno, il cui diniego è l’antecedente immediato dell’espulsione stessa. 

Ciò è dimostrato da una norma gemella – l’art.5, c.5, d.lgs. n.286/1998, che è senza dubbio dotata di identica ratio – la quale, come poi noterà lo stesso estensore,  ancor più deve orientare il giudice nella direzione di senso prescelta, essendovi disposto che nell’adottare il provvedimento di rifiuto, del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, ovvero sia ricongiunto o abbia comunque significative relazioni con i propri familiari in Italia[5], si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale.  

Condivisibile è anche la sottolineatura da parte dell’estensore del possesso da parte di tutti i familiari della donna dello status di soggiornanti di lungo periodo: in primo luogo da parte del coniuge, in Italia dal 1999, ma anche da parte dei figli, nonostante il pericolo, per fortuna non inveratosi, della revoca a causa della loro troppo lunga assenza dall’Europa assieme alla madre[6].

La preminenza dell’interesse dei minori al mantenimento del diritto di soggiorno in Italia assieme ad entrambi i loro genitori è, già sulla base delle norme citate, del tutto evidente e ignorarlo significa per l’Amministrazione avere violato l’art.28, c.3, d.lgs. n.286/1998 (anch’esso richiamato nella decisione in commento) a termini del quale «In tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176».

L’estensore del provvedimento propone però, sia pure solo per il tempo di un breve passaggio, un’interessante e ardita interpretazione dell’art.6, par.2 della Direttiva 2003/86/CE, ove è scritto che «gli Stati membri possono revocare o rifiutare di rinnovare il permesso di soggiorno di un familiare per ragioni di ordine pubblico, di sicurezza pubblica o di sanità pubblica». 

In realtà la norma non afferma esplicitamente che gli Stati possano demolire il diritto di soggiorno già acquisito dal familiare straniero solo per i gravi motivi ivi indicati, ma la tesi della tassatività di tali motivi demolitori (benché pericolosamente vaghi e, almeno nel caso della sanità pubblica, anche molto discutibili) è invece qui sostenuta dal giudice ambrosiano che ne deduce l’esclusione dei titolari di un permesso di soggiorno per motivi familiari dall’ambito di applicazione dell’art. l’art.13, c.4, d.p.r. n.394/1999. 

Questa tesi, certamente estranea alla volontà del legislatore autore del segnalato divieto di prolungato soggiorno all’estero, è molto suggestiva, ma lo stesso estensore, dopo averla brevemente affermata, torna alla diversa e più facilmente condivisibile tesi secondo cui dalla violazione del divieto non può comunque scaturire in modo automatico la revoca o il diniego del permesso di soggiorno, sussistendo un’ineludibile esigenza di bilanciamento tra l’interesse pubblico alla revoca del diritto di soggiorno e alla conseguente espulsione dello straniero con il diritto alla vita familiare suo e/o dei suoi familiari. 

In effetti i segnalati divieti di prolungata assenza, benché di scarsa intelligenza, sono stati imposti a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti (o residenti di lungo periodo). Sarebbe dunque arduo dichiararne esonerato lo straniero titolare del permesso di soggiorno per motivi familiari o che comunque abbia in Italia altri suoi familiari cui è effettivamente legato. 

Tuttavia nei confronti di questi ultimi (e forse il ragionamento potrebbe essere esteso anche ad altri) una volta constatata la violazione del divieto non potrà automaticamente procedersi con la revoca del permesso di soggiorno o il diniego del suo rinnovo, ma dovrà prima essere valutato il loro effettivo radicamento sociale e soprattutto familiare in Italia. Il che è esattamente ciò che l’Amministrazione, nel caso di specie, ha omesso di fare.

 

4. Modificare radicalmente la disciplina dell’assenza dall’Italia?

Merita infine di essere spiegata l’affermazione relativa alla scarsa intelligenza dell’art.13, c.4, d.p.r. n.394/1999 (nonché dell’art. 10, c.7, d.lgs. n.286/1998), cui purtroppo ha talvolta corrisposto un’applicazione inopinatamente rigida. 

A tal fine ipotizziamo che, in un periodo di crisi economica generalizzata, uno straniero regolarmente soggiornante si trovi ad affrontare con sempre maggiore fatica gli oneri economici del mantenimento della propria famiglia (ipotizziamo, ad esempio, una moglie non lavoratrice e tre figli minorenni) e decida quindi di inviare per un periodo superiore a sei mesi o a un anno i propri congiunti presso i parenti nel paese di origine. 

Si tratterebbe di una strategia economica non priva di razionalità che, pur con tutte le sue controindicazioni, potrebbe risultare complessivamente conveniente e opportuna.

Questa strategia è però sicuramente impedita dall’art.13, c.4, d.p.r. n.394/1999, con il quale il legislatore persegue il disegno di un’immigrazione non circolare ma inesorabilmente inchiodata al suolo del paese di immigrazione. Un disegno che ha però come conseguenza l’indebolimento dell’economia familiare e un maggior tasso di cadute nell’irregolarità del soggiorno conseguenti alla repressione del comportamento vietato benché questo non sia affatto un comportamento deviante[7].   

Certamente per i figli in età scolare può essere un problema interrompere o ritardare l’inserimento scolastico nelle scuole italiane per un anno o addirittura due, ma forse sarebbe maggiore problema non potersi difendere dalla disoccupazione del genitore o dall’insufficienza del reddito familiare.

È dunque auspicabile che la norma posta all’origine di questa vicenda giudiziaria venga modificata in favore di una maggiore libertà di movimento legale in capo agli stranieri già regolarmente soggiornanti. 

Lo si potrebbe fare premiando per un verso la stabile e continuativa residenza in Italia, ma anche riconoscendo, per altro verso, un più ampio margine di libertà di circolazione e di residenza a chi ha necessità di tornare nel proprio paese per un periodo prolungato senza per questo potersi permettere di rinunciare alla possibilità di un successivo ritorno in Italia. 

Va infine osservato che una maggiore libertà di circolazione evolverebbe in una più efficace politica di regolarità dei flussi migratori ove si consentisse al lavoratore straniero lo scomputo dei periodi in cui è stato all’estero dal calcolo del reddito minimo annuo necessario ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno. 

Attualmente, in mancanza di tale scomputo, l’interessato è infatti costretto ad un accumulo di redditi da lavoro nel periodo di permanenza in Italia che supplisca alla mancanza di redditi prodotti in Italia durante il suo soggiorno all’estero. Pare però di tutta evidenza come quest’ultimo meccanismo giuridico-economico possa dimostrarsi responsabile di un maggior pericolo di successiva irregolarità del soggiorno dello straniero che, ancorché rientrato in Italia entro i termini consentiti dall’art.13, c.4, d.p.r. n.39471999, si trovi poi in difficoltà al momento del rinnovo del permesso di soggiorno a causa della mancata regolarità reddituale dovuta al periodo di soggiorno all’estero (non importando, al riguardo, che l’assenza dall’Italia, sia stata determinata da scelte del tutto volontarie oppure da motivi di necessità).  

Nella (forse) velleitaria speranza che il legislatore modifichi nel senso qui auspicato il quadro regolativo della circolarità migratoria, prestando finalmente attenzione alle necessità che vi sono sottese, spetta forse ai giudici anticiparne in qualche misura l’ascolto, sia dando adeguato rilievo ai diversi e giustificati  motivi delle prolungate assenze, sia valorizzando il mantenimento dei legami sociali e soprattutto familiari con l’Italia (come è stato fatto nella decisione in commento), sia introducendo un più elastico criterio di valutazione della sufficienza del reddito prodotto al momento della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno.


 
[1] Ciò potrebbe suggerire l’ipotesi che gli altri due figli fossero già rientrati in Italia con la madre a marzo (o dicembre) 2019, al termine del suo primo rientro dall’Egitto.

[2] Benché non prevista dalla norma, anche al caso di specie si ritiene applicabile la clausola di giustificazione dei «gravi e comprovati motivi». In tal senso: TRGA Trento, Sez. Unica, 7 settembre 2011, n. 228.

[3]L’onere di provare la sussistenza dei gravi e comprovati motivi che ne giustificano l’assenza dal territorio italiano oltre i limiti previsti dall’art. 13, co. 4, d.p.r. n. 394/1999 ricade sullo straniero ed è ovviamente limitato al periodo di assenza eccedente la durata consentita (Cons. Stato, sez. III, 27 giugno 2017, n. 3135). Ricade invece sull’Amministrazione la prova del prolungamento dell’assenza dall’Italia oltre i termini consentiti, evitando l’utilizzo di presunzioni, come l’avvenuta cancellazione anagrafica o la mancata risposta al censimento (come invece ritiene TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 17 settembre 2019, n. 00380). Secondo la giurisprudenza tali motivi, esemplificativamente, possono consistere nell’aver prestato assistenza  al coniuge o ad un altro congiunto gravemente malato, purché la patologia sia documentata e risulti connotata da una gravità tale da impedire il rientro in Italia dell’interessato (così TAR Piemonte, sez. I, 14 luglio 2020, n. 467; nonché TAR Toscana, sez. II, 13 giugno 2019, n. 00845, che valorizza altresì il buon inserimento sociale in Italia dello straniero assentatosi oltre i sei mesi consentiti). La giurisprudenza amministrativa risulta piuttosto severa nel valutare le ragioni di salute personali, giustificandole solo nel caso di patologie particolarmente gravi (Cfr., ad esempio, TAR Lombardia, sez. I, 27 gennaio 2016, n. 175). In tal modo si omette però di considerare l’impossibilità di fatto dello straniero di rientrare in Italia in una condizione di inabilità al lavoro, sia pure temporanea. Fuori dal tema sanitario si segnala una decisione di TAR Marche, Sez. I , 30 marzo 2007, n.424, riguardante un ritardo nel rientro in Italia, giustificato però dalla morte a breve distanza di tempo di entrambi i genitori e dalla conseguente difficoltà nelle operazioni di divisione ereditaria. Più in generale, la varietà delle situazioni dovrebbe sconsigliare categorizzazioni astratte. Se è vero, ad esempio, che lo smarrimento del passaporto non è, nella maggior parte dei paesi, un motivo sufficiente a giustificare un ritardo nel rientro di più che qualche settimana, pure è vero che in alcune situazioni questo può invece rivelarsi un impedimento di lunga durata. Al riguardo, infatti, cfr. Trib. Genova, 17 gennaio 2000, in Gli stranieri, 2000, 1, p.43, riguardante il caso di un minore cui era stato rubato il passaporto durante un soggiorno nel paese di origine.

[4] Cfr. Cass.12 luglio 2016, n.14176.

[5] Al riguardo cfr. Corte cost., 18 luglio 2013, n. 202, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5, co. 5, TUI, nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita in relazione all’adozione del provvedimento di rifiuto, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, si applichi solo allo straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o al familiare ricongiunto, e non anche allo straniero che abbia legami familiari nel territorio dello Stato, indipendentemente dal tipo di permesso di soggiorno di cui dispone.

[6] Peraltro, l’applicazione ai minori dell’art.10, c.7, d.lgs n.286/1998 avrebbe potuto avere come esito la perdita del permesso di soggiorno permanente, ma non certo la perdita della condizione di soggiornanti titolari del permesso di soggiorno per motivi familiari. In tal senso si veda Cons. Stato, sez. III, 20 marzo 2018, n. 1771.

[7] Critico nei riguardi della norma in esame è anche P. Bonetti, Ingresso, soggiorno e allontanamento, in B. Nascimbene, Diritto degli stranieri, Cedam, 2004, p.392

13/01/2021
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