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Processo penale e verità

Una recensione del volume "Verità e processo penale", a cura di Antonio Incampo e Vincenzo Garofoli
Processo penale e verità

Affrontare il tema del rapporto tra processo penale e verità significa condurre uno studio delle modalità attraverso le quali la verità si manifesta all'interno del processo e dei limiti, di ordine sia naturalistico sia procedurale, che la ricerca della verità incontra nel processo penale.

Un simile studio è suscettibile, ovviamente, di essere esteso al fenomeno processuale in generale, in qualsiasi forma esso si atteggi: per esempio al processo civile, o amministrativo.

Ma non è solo questo.

Perché significa anche imbattersi in una imponente letteratura. Si ricordino, emblematicamente, l'opera di Robert Alexy, Teoria dell'argomentazione giuridica. La teoria del discorso razionale come teoria della motivazione giuridica (1978) e quella di Franco Cordero, Riti e sapienza del diritto (1981).

Nel Vangelo di Giovanni (18, 38) si legge: Quid est veritas? Che cos'è la verità?Così Pilato interroga Gesù.

Verità e processo penale, il volume curato da Antonio Incampo e Vincenzo Garofoli, assume questa domanda come cruciale.

L'opera si inscrive nella serie, intitolata Unità del sapere giuridico, dei Quaderni del Dipartimento di diritto penale, di diritto processuale penale e di filosofia del diritto dell'Università di Bari.

Si tratta di una raccolta di saggi inter-disciplinari, poiché cercare di rispondere alla fondamentale domanda sulla verità implica uno sforzo, appunto, inter-disciplinare.

Lo studio del diritto processuale penale non può arrestarsi alle norme positive. Esso si alimenta inevitabilmente di questioni teoretiche.

Tentare di rispondere alla domanda sulla verità e sul rapporto che la lega al processo non è possibile senza il contributo della filosofia del diritto. Significa accettare la necessità dell'impegno a ricercare i fondamenti teoretici del diritto – non solo processuale, ma in questo caso processuale. L'inter-disciplinarietà, inoltre, si giustifica in virtù dell'unità del sapere giuridico. Non ci sarebbe unità del sapere giuridico se le discipline, i settori del diritto non “dialogassero”.

Una considerazione iniziale potrebbe essere la seguente: non si sa fino a che punto sia possibile provare un fatto passato, e cioè un fatto che si è compiuto, si è esaurito in un momento che, nell’inarrestabile successione temporale, si colloca nel passato.

Una considerazione che apre la riflessione non solo sul rapporto tra processo e verità, ma anche su quello tra processo e tempo.

La celebrazione di un processo penale è scandita da una sequenza di atti ordinati temporalmente (indagini, eventuale udienza preliminare, dibattimento, sentenza, esecuzione).Questo è uno dei modi in cui il tempo influisce sul processo.

Sovente accade, poi, che la “procedura” e le esigenze di brevità prevalgano sulla ricerca della verità (V. B. Muscatiello), sicché si configura un rapporto trilaterale, costituito da elementi che si co-implicano: tempo-processo-verità.

Il processo penale è inoltre un fatto pubblico. Per questo motivo, spesso i suoi esiti concreti dipendono dalle logiche della spettacolarizzazione (G. Siniscalchi).

Si tratta di un fenomeno che non potrebbe essere compreso se si prescindesse dal ruolo giocato, nell'era della comunicazione globale, dagli organi di informazione (N. Triggiani), e non è estraneo nemmeno ad altri àmbiti. Si pensi alla politica, e quindi al diritto, che da quella, attraverso la funzione legislativa del Parlamento e in alcuni casi del Governo, promana.

Che rapporto c'è tra verità e processo, ci si potrebbe nuovamente chiedere, quasi anaforicamente? Qual è la verità predicabile a proposito del processo? In primo luogo, si è detto, il processo è sempre e necessariamente in rapporto con la temporalità. Con il tempo. Ma forse il tempo con cui il processo ha a che fare è il non-tempo del passato, poiché la quaestio facti riguarda e interessa qualcosa – un fatto, appunto – accaduto nel passato. Tale è la premessa logica della teoria e del sistema delle prove processuali.

Ma quelli appena enunciati sono solo dei primi interrogativi.

Il rapporto tra il processo penale e il tempo si sviluppa, poi, in un'altra direzione.

Il processo penale, cioè, proprio perché si svolge nel tempo, è destinato a concludersi. E si conclude con un atto, la sentenza, del quale si può predicare la validità, mai la verità.

Se le cose stanno così, allora più che di un atto si dovrebbe parlare di un'azione. La verità della sentenza rifiuta la logica del sillogismo aristotelico e si manifesta piuttosto come conseguenza non necessaria della verità delle premesse. Essa è il frutto di un sillogismo giudiziale.

L'esempio kelseniano del ladro Schulze, assolto nonostante abbia commesso il fatto, lo testimonia (A. Incampo).

Tesi rafforzata e confermata a proposito della distinzione, della dicotomia tra verità ontica e verità semantica (G. Denora): la sentenza è, per la logica del discorso giudiziale, semplicemente un fatto, un'azione. Essa è valida o invalida; essa esiste o non esiste: in ciò è il suo attributo peculiare, nell'esistenza e quindi nella validità. Non è pertanto necessariamente adaequatio di una proposizione ad uno stato di cose che le preesiste.

Ma se la sentenza è un'azione, e nient'altro, allora essa sembrerebbe destinata a diventare mera forza. Arbitrio del giudice, in ultima analisi.

Davvero l'indagine su verità e processo penale può fermarsi qui? Davvero bisognerebbe rinunciare alla ricerca di nuclei di verità all'interno del processo, non solo di quello penale?

A tale riguardo, la motivazione della sentenza assicura che l'esigenza e la richiesta di verità non siano frustrate: nei confronti in particolare dell'imputato e in generale di tutte le parti del processo.

L'obbligo di motivare le sentenze scaturisce, sì, da norme positive: l'art. 111 della Costituzione della Repubblica e l'art. 527 del Codice di procedura penale.

Ma esprime, contemporaneamente, un dovere e un significato autenticamente teoretici. Sicché è attraverso le argomentazioni del giudice, e quindi attraverso la motivazione, attraverso, cioè, la ricostruzione dell'itinerario logico-giuridico [reasoning] che ha condotto il giudice alla decisione, che il processo può sperare di attingere, sebbene non compiutamente, la verità (L. Iandolo Pisanelli, G. Losappio).

Quello di verità è poi un concetto relativo: cambia a seconda delle epoche e dei popoli, come dimostrano, tra gli altri, gli studi etnologici di De Martino (C. Romanò).

E al perseguimento, e quindi al conseguimento, della verità, o più genericamente della conoscenza nel processo, è preordinato l'insieme degli strumenti messi a disposizione degli operatori del diritto: si pensi alla notitia criminis (P. T. Persio); o alla pratica del witness proofing nel diritto internazionale: ad esempio la testimonianza, dalla quale dipenderà il giudizio di condanna o di assoluzione dei criminali di guerra, resa da persone sopravvissute ad un genocidio (M. A. Pasculli).

Ma le esigenze di verità sarebbero vanificate se non esistesse una macchina processuale congegnata per favorire, per agevolare il raggiungimento della verità.

Sono funzionali a ciò l'abbandono della logica inquisitoria, ispirata a principî di segretezza; la connessa tendenza ad un sistema accusatorio e ai relativi istituti caratterizzanti quali contraddittorio e diritto alla prova (D. Certosino); e la rigorosa osservanza della regola sintetizzata nella ormai celebre formula (F. Zaccaria) dell' “oltre ogni ragionevole dubbio” [beyond any reasonable doubt].

Parlare del processo significa pertanto fondamentalmente parlare dei modi attraverso i quali si perviene alla decisione, e della loro giustificazione.

Il che equivale a dire dei modi attraverso i quali si ricostruisce la verità. Il processo è un fatto che attiene alla logica del discorso giudiziale. Come si atteggia la sentenza rispetto alla sue premesse?

La questione della verità e del processo è riconducibile essenzialmente a quella della funzione e dei limiti della sentenza. E cioè all’analisi circa l'idoneità dello strumento e della sede processuali al conseguimento della verità storica (V. Garofoli).

In altre parole: è il processo penale sufficiente ai fini di una univoca ricostruzione dei fatti storici dei quali le parti chiedono al giudice l'accertamento?

Forse no. Forse il processo, il che equivale a dire le persone, gli uomini (tecnicamente: le parti) che ne sono i protagonisti, è davvero il luogo della “verità probabile”.Della verità solo retorica.

Verità processuale e non storica, sostanziale.

Tali considerazioni indurrebbero allora ad un atteggiamento di sconforto, di pessimismo. Com’è possibile, dunque, porre rimedio a questo “ostinato scetticismo” del processo?

La risposta può essere offerta dalla coscienza che il processo, e quindi il diritto, possono e devono essere il luogo in cui praticare e coltivare – o almeno tentare di praticare e coltivare (W. Żełaniec) – quella tensione verso un orizzonte comune, verso un orizzonte invalicabile di verità fra gli uomini (A. Incampo).

Al di fuori del quale vi è solo incomunicabilità, e rassegnazione, e scetticismo.

26/04/2013
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