Magistratura democratica
Magistratura e società

Notte e nebbia sulla magistratura italiana

di Gaetano Silvestri
Presidente emerito della Corte costituzionale, già Presidente della Scuola Superiore della Magistratura
 C’è una via d’uscita dalla morsa delle degenerazioni correntizie e delle moralizzazioni pelose?

Di fronte all’attuale scandalo derivante dalle degenerazioni correntizie della magistratura italiana, ferve il dibattito giornalistico sulle riforme legislative ritenute necessarie per eliminare, o almeno attenuare, i mali presenti. Con puntualità si ripresentano coloro che propongono instancabilmente revisioni costituzionali, sul presupposto che la colpa di tutto stia nella Carta fondamentale, rea, tra l’altro, di aver liberato i giudici italiani dalla soggezione al potere politico, saggio controllore ed equilibratore di intemperanze ed esorbitanze, nonché severo e inflessibile fustigatore dei costumi di tutti i servitori dello Stato. Il tutto condito dal solito appello alla giustizia amministrata in nome del popolo, intesa, in modo distorto, come giustizia politica, parlamentare o di piazza. A quando la proposta di sentenze emesse mediante sondaggi “popolari”?

Intanto – secondo alcuni – in assenza di qualsiasi capacità dei magistrati di scelte lucide e consapevoli, non resta che affidarsi ad una buona stella e introdurre il sorteggio per la selezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura (in attesa della sua soppressione). A quando le sentenze tirate a sorte? A questo metodo ci aveva già pensato il giudice Brigliadoca di Rabelais, che decideva le cause tirando i dadi.

Potrebbe essere materia per farsi quattro risate, se non attraversassimo un momento davvero difficile per la Repubblica, caratterizzato dall’esasperazione di un rapporto patologico – purtroppo risalente nel tempo - tra politica e magistratura, come sottolineato in più occasioni dal Capo dello Stato. L’inscindibile connessione tra democrazia e principio di legalità è l’anima del costituzionalismo contemporaneo. La crisi dell’una o dell’altro (o di entrambi!) porta in rovina l’intero sistema: è quello che sta accadendo. C’è poco da ridere quindi!

Non aggiungerò la mia voce a quella di tanti che deplorano – giustamente! – comportamenti devianti di correnti, capi-corrente e singoli magistrati nell’ambito della massima istituzione di garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario: il Consiglio superiore della magistratura. Mi limiterò a ricordare un aspetto non collocato, a mio modesto avviso, nella dovuta evidenza. La faticosa conquista di strumenti importanti di garanzia di indipendenza dei magistrati, singoli e nel loro complesso, è andata di pari passo, dalla fine degli anni ’50 in poi, con un atteggiamento “concessivo” della classe politica dominante (o almeno di parte considerevole di essa), che interpretava alcune guarentigie come privilegi corporativi, trovando risonanza in alcuni settori della stessa magistratura. L’obiettivo politico era chiaro: attenuare, se non neutralizzare, con le blandizie, il potenziale eversivo del controllo di legalità in un sistema partitico che smarriva, ogni giorno di più, la sua essenziale funzione democratica, quale incisivamente scolpita dall’art. 49 della Costituzione. All’interno della magistratura v’era chi utilizzava al meglio i nuovi spazi di autonomia e indipendenza sia per un’applicazione davvero imparziale delle leggi, sia per progredire nel processo di attuazione della Costituzione, in virtuosa corrispondenza con la Corte costituzionale. C’era chi invece si adagiava  sulle guarentigie intese solo come vantaggi, di cui si percepiva poco l’orientamento finalistico di garanzia. In una parte della cultura diffusa dell’ordine giudiziario si fece strada l’idea che tutto fosse destinato a incrementare il “prestigio” della magistratura, mettendo in secondo piano l’obiettivo vero: la credibilità.

La doppia distorsione schematizzata sopra contribuiva a farne sorgere una terza: il CSM inteso come organo di rappresentanza para-sindacale dei magistrati, strumento di tutela dei loro interessi. La “sindacalizzazione” del Consiglio rispecchiava analoga tendenza che si faceva strada nell’Associazione nazionale magistrati, le cui correnti – originarie aggregazioni culturali e ideali – se non volevano ridursi a mera azione di testimonianza, erano, per così dire, costrette a venir incontro alle crescenti richieste di “tutela” individuale, a loro volta enfatizzate da filoni culturali, in piena espansione nella società italiana, ispirati ad un’antiretorica che somigliava tanto al cinismo. Oggi raccogliamo i cocci di tante rozze e semplicistiche “demistificazioni” dei valori e dei princìpi posti a base della Carta costituzionale. Cascami di marxismo orecchiato e concrete mire utilitaristiche in taluni momenti si tennero per mano, con risultati disastrosi. Nel quadriennio nel quale sono stato componente del CSM (1990-1994) erano presenti ed attive sia la dedizione a coraggiose battaglie di difesa dell’indipendenza della magistratura, di fronte ad inauditi attacchi provenienti anche dai vertici dello Stato, sia tendenze corporative che identificavano la figura del consigliere nel motto:” oggi come ieri al servizio del collega”. C’erano due file di magistrati che si formavano a Palazzo dei Marescialli: quella di coloro che venivano a chiedere ascolto e sostegno nella loro quotidiana azione per la legalità, specie in terra di mafia, talvolta non ricevendo né l’uno né l’altro; quella di coloro che venivano a raccomandarsi per trasferimenti, uffici direttivi e quant’altro. La prima fila era piuttosto esigua e andava accorciandosi; la seconda si allungava progressivamente. Mi sembrò di intravedere i segni di un processo degenerativo e di questa mia impressione tentai di lasciare traccia in un mio contributo dottrinale dell’epoca.

Di questo processo, composto da una serie di elementi, mi limito ad un solo esempio, che mi sembra cruciale.

Come è noto, dopo l’avvento dello Stato costituzionale, il problema della salvaguardia dell’indipendenza interna (dagli “alti gradi”), non era meno pressante di quello della difesa dell’indipendenza esterna (dal potere politico). Iniziò così un cammino di valorizzazione dell’anzianità come criterio di avanzamento, anche economico, allo scopo di evitare che le valutazioni di merito comparativo perpetuassero la dominanza dell’alta magistratura su tutto l’ordine giudiziario, che manteneva - ad onta dell’art. 107, terzo comma, Cost. - una struttura verticale-gerarchica, più adatta ad un corpo amministrativo che giudiziario. Non ripercorro vicende ben conosciute da quanti si sono interessati, per ragioni di lavoro o di studio, alle problematiche della giurisdizione in Italia. Le famigerate leggi Breganze e “Breganzone” introdussero la progressione in carriera a “ruoli aperti”, proprio per evitare gli effetti dannosi sull’indipendenza dei magistrati di una esasperata competitività tra colleghi aspiranti ai limitati posti di volta in volta disponibili.

La stessa tendenza a valorizzare in modo preponderante l’anzianità si manifestò per l’attribuzione degli incarichi direttivi. Chi non ricorda i fasti della mitica “fascia triennale”, superabile solo con la dimostrazione di misteriose “spiccate attitudini”, motivabili con molta larghezza? Chi scrive ha condotto una non fortunatissima battaglia per contrastare la prevalenza del criterio della “anzianità senza demerito”, refugium peccatorum di molti magistrati pigri e opachi, che si riparavano all’ombra del sacro principio dell’indipendenza. Ho trovato valida guida e appoggio in altri componenti, laici e togati, da cui ho tratto indimenticabili insegnamenti, tra i quali si erge la luminosa figura di un Maestro come Alessandro Pizzorusso, con cui ho avuto l’onore di condividere quattro anni di intenso lavoro.

Sia in campo politico che dottrinale cominciarono a fioccare critiche – fondate! – che denunciavano un crescente “appiattimento” della categoria, lo scoraggiamento dell’innovazione culturale e professionale, nonché dell’operosità, in favore di un placido “tirare a campare”, ben lontano dagli eroici furori di cui si incolpano alcuni pubblici ministeri da “tangentopoli” in poi e di cui si faceva carico, già in tempi remoti, ai famosi “pretori d’assalto”, primi ad accorgersi del mare sotterraneo della corruzione, che iniziava a corrodere i pilastri della Repubblica. Come sempre, si mescolarono il buono e il cattivo, il protagonismo becero e il silenzioso eroismo, la dura e umile fatica quotidiana e la neghittosità burocratica. L’episodio più eclatante fu, come tutti ricordano, la mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo e la mancata designazione dello stesso al ruolo di Procuratore nazionale antimafia da parte, rispettivamente, del CSM e della sua Commissione incarichi direttivi.

Ricordo queste vicende non tanto per rifare pezzi di storia recente della magistratura italiana (esistono recenti, ottimi contributi in proposito), quanto per rammentare a chi ha memoria corta che alcune “ricette” oggi in circolazione, che rivalorizzano l’anzianità, allo scopo di porre rimedio alle degenerazioni scandalose del sistema della spartizione correntizia rischiano di farci tornare ai punti di partenza, con l’aggravante della disillusione provocata dalla vanificazione del sogno di poter finalmente avere una magistratura indipendente e, nello stesso tempo, meritocratica. Era il sogno che ci animò quando, a fine consiliatura, presentammo al Parlamento e al Governo una relazione sullo stato della giustizia in Italia, che conteneva un ambizioso progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, ispirato all’abolizione radicale della “carriera” ed alla contemporanea valorizzazione della qualità (non solo della quantità) del lavoro giudiziario.

Sarebbe ingiusto e non veritiero dire il contributo culturale riformatore del CSM si è arrestato al 1994. Nelle consiliature successive è continuata la riflessione teorica, la proposta e la produzione normativa e amministrativa generale (odio l’espressione para-normativa!), alle quali tanto deve l’affinamento degli strumenti che dovrebbero coniugare indipendenza, qualità ed efficienza dei magistrati italiani. Mi limito a citare, tra le normative più recenti (detesto pure i termini impropri di “circolare” e “testo unico”), le discipline consiliari attuative in materia di dirigenza e tabelle. La furia distruttiva di coloro che vogliono azzerare le garanzie istituzionali, cogliendo l’occasione delle attuali difficoltà, assomiglia all’antiparlamentarismo dei fautori di regimi autoritari o all’anti-moralismo di corrotti e corruttori. 

Se pensiamo allo sforzo prodotto dal CSM per dare razionalità e garantire imparzialità nella scelta dei titolari degli uffici direttivi, e pensiamo pure che proprio in questo settore si sono maggiormente evidenziate le distorsioni, di cui tanto si parla, possiamo agevolmente constatare la fallacia delle soluzioni “normativistiche”, in assenza di prassi rigorose, che sposino l’imparzialità prescritta in astratto con l’imparzialità praticata in concreto. Solo agli ingenui (o finti tali) possono bastare “profili”, “griglie”, “criteri predisposti” e altri accorgimenti, tutti utili e segno di buone intenzioni, ma tutti aggirabili. L’unico criterio oggettivo non aggirabile è quello dell’anzianità. Ho visto troppi orrori prodotti dall’applicazione rigida – anche in perfetta buona fede - di questo criterio, per aver il coraggio di riproporlo ora, confidando sulla smemoratezza degli italiani. L’anzianità dovrebbe essere, come è logico, solo criterio residuale, a parità di merito.

La meritocrazia va tuttavia integrata con regole, queste sì, molto rigide, sull’ordine cronologico di trattazione delle pratiche riguardanti gli uffici direttivi e con audizioni accurate dei candidati con maggiori titoli. Sarebbe opportuno anche che il Consiglio approfondisse lo spettro delle domande da proporre ai candidati, allo scopo di massimizzare l’utilità di tale strumento cognitivo, la cui efficacia ho avuto modo di sperimentare personalmente. Anche le audizioni infatti possono diventare un rito di facciata. Gioverebbe inoltre che il CSM si rendesse promotore di approfondimenti ed autore di linee guida innovative sulle tecniche di redazione dei pareri dei Consigli giudiziari, troppo uniformemente elogiativi e pertanto talvolta fuorvianti in sede di comparazione tra candidati o di valutazione di professionalità.

Naturalmente tutti questi approfondimenti risulterebbero inutili, se la morsa delle correnti non si allentasse. Mi sentirei pertanto di ribadire le perplessità da tempo manifestate – senza successo, anzi con obiezioni critiche – sulla pubblicità dei voti dei consiglieri in questa materia. Si tratta di voti sulle qualità delle persone, campo elettivo per le votazioni segrete. A maggior ragione in un contesto istituzionale ed in un periodo in cui la libertà dei votanti può essere seriamente limitata dal controllo occhiuto delle correnti e da imbarazzi di vario genere, per rapporti personali e di colleganza. La decisione, ad esempio, sull’attribuzione di una procura molto importante può presentare profili di delicatezza, oggettivi e soggettivi, non inferiori a quelli di una decisione in materia disciplinare. A volte, la trasparenza sbandierata può risultare – a dispetto delle buone intenzioni - funzionale allo sfruttamento della debolezza umana, che non bisogna invece dimenticare nell’enfasi retorica di esaltazione di princìpi intrinsecamente giusti e validi.

Sin dal lontano 1997, vado proponendo un sistema elettorale per il CSM che possa integrare la valorizzazione delle personalità individuali, il loro riconoscimento nei territori in cui operano i singoli magistrati e quanto di positivo ancora rimane delle correnti, ingiustamente presentate da chiassose campagne mediatiche come covi di malfattori, mentre possono e devono tornare ad esprimere un salutare pluralismo culturale e ideale, se i magistrati italiani avranno la forza e il coraggio di affondare il bisturi nei bubboni formatisi negli ultimi decenni. Solo essi stessi possono farlo. Gli interventi legislativi, se permangono opacità e reticenze nella magistratura, saranno inevitabilmente segnati da volontà di rivalsa o dal desiderio di approfittare di un drammatico calo di credibilità (e quindi di forza morale) per “tagliare le unghie” di un potere dello Stato molto fastidioso quando i suoi membri fanno il loro dovere e molto gradito invece quando si politicizza in favore della propria parte. Lo dimostra la spasmodica ricerca di candidati magistrati in occasione di elezioni politiche o anche amministrative. Si potrebbe dire ai partiti politici: scagli la prima pietra chi non lo ha fatto!

Il sistema da me proposto non avrebbe certamente l’effetto magico di eliminare tutte le storture che oggi si denunziano. Non ripeto i suoi possibili effetti positivi, che ho già illustrato su questa Rivista (Questione Giustizia 4/2017). Sottolineo soltanto una via che lo stesso sistema potrebbe rendere più agevole: la formazione di nuovi raggruppamenti spontanei e inizialmente minoritari, ma possibili portatori di idee innovatrici. Circolano oggi proposte che, al contrario, tendono al rafforzamento del predominio di grandi organizzazioni nazionali o di blocchi di potere locali. Si tratta di prospettive che, se non si possono eliminare, sarebbe opportuno, quanto meno, non incoraggiare.

Mi astengo dal fare un fervorino moralistico, per non trovarmi nell’imbarazzante compagnia di quel ladro che, inseguito da un poliziotto, chiede a quest’ultimo conto e ragione della regolarità del concorso che lo ha portato a quel ruolo. Del resto, roba simile l’ho vista in campo universitario. Gli strali ben fondati contro la “corruzione generalizzata” dell’accademia e dei suoi metodi di selezione, spesso scorretti e nepotistici, provengono talvolta o da candidati che confidano più nei tar che nella scienza o dai nemici dell’università pubblica, cui si vogliono sottrarre finanziamenti. Anche in campo universitario sono state sperimentate le più diverse metodiche per selezionare i componenti delle commissioni di concorso, ivi compreso il sorteggio, secco o associato a votazioni, preventive o successive. Sfido chiunque a dimostrare che l’inserimento, in varie forme, del sorteggio abbia elevato il tasso di moralità dei concorsi universitari e la qualità dei vincitori.

Ripeto, anche per questo importante settore della vita culturale e istituzionale, l’ovvia raccomandazione di non fare di tutta l’erba un fascio. Accanto ad innegabili episodi di malcostume, si possono oggi segnalare, oltre a vere e proprie eccellenze in vari campi della ricerca scientifica, un livello medio dei nostri atenei pubblici che consente ai laureati italiani di ben figurare in confronto ai loro omologhi stranieri e di trovare lavoro e apprezzamento in tutto il mondo. Allo stesso modo, i magistrati italiani mostrano di possedere un livello medio di preparazione e professionalità di tutto rispetto, come ho potuto constatare nella mia quadriennale esperienza nella Scuola superiore della magistratura, oggetto, non a caso, di attacchi da parte dei settori più politicizzati del correntismo giudiziario. Ho pure rilevato che il confronto con i magistrati di altri Paesi va molto spesso a nostro favore, anche a livello delle nuove leve. Nelle competizioni internazionali tra giudici tirocinanti, i nostri giovani hanno primeggiato, mostrando peraltro, accanto alla preparazione, una freschezza e un entusiasmo che mi hanno rallegrato il cuore. Occorre impedire che la denigrazione sistematica e generalizzata di ciò che esiste ci porti, alla fine, alla dittatura dei mediocri.

Magistrati colti e consapevoli del loro ruolo costituzionale e sociale sono più difficilmente “intruppabili” al seguito di capi e capetti di questa o quella corrente. Alla fine credo stia proprio qui il “segreto” (che tale non è) per un nuovo inizio: l’orgoglio del ruolo che poggia sull’incessante sfida per la qualità. Farsi rispettare non con l’imperium, ma con il sapere e con l’esempio della propria condotta. Retorica? Forse ce n’è bisogno in un momento in cui la sfida per la qualità viene avvilita e mortificata da proposte di anzianità, sorteggi e statistiche puramente quantitative. Sembra che si punti ad un rispecchiamento nella magistratura della parte peggiore del Paese. Forse sarebbe il caso che i giudici italiani levino la loro voce, senza complessi né timidezze, per rivendicare un’eredità di civiltà giuridica, di dignità e coraggio che oggi, approfittando di un momento difficile, si vorrebbe disperdere, per far loro indossare quella livrea che sinora hanno rifiutato. Se non lo fanno prima che sia troppo tardi, peggio per loro e per tutti noi.  

 

12/06/2020
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