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La parabola dei diritti nella crisi del principio di uguaglianza e del ruolo delle differenze

di Sergio Mattone
già presidente di sezione Corte di cassazione e componente del Comitato Scientifico di Questione Giustizia
In ricordo di Sergio Mattone pubblichiamo un suo articolo tratto dal n.3/2003 di Questione Giustizia
La parabola dei diritti nella crisi del principio di uguaglianza e del ruolo delle differenze
Ieri Sergio Mattone ci ha lasciati. Tra i fondatori di Magistratura democratica, ne ha sempre seguito il percorso con passione ed intelligenza straordinarie impersonando, con la sua ricchezza morale e culturale, il modello di magistrato al quale tutti vorremmo poter assomigliare. Capace come pochi altri di coniugare rigore giuridico e sensibilità sociale, i suoi tanti contributi alla rivista Questione giustizia sono un tesoro prezioso ed un’inesauribile fonte di riflessione per chiunque abbia a cuore i temi della giustizia. Tutti coloro che lo hanno conosciuto continueranno per sempre a portare con sé qualcosa di lui. (Renato Rordorf)

 

SOMMARIO 

1. Il diritto diseguale come strumento di tutela di soggetti “deboli” / 2. La politica del diritto nell’ultimo ventennio: ritorno al formalismo / 3. La crisi della normativa promozionale nei diversi settori dell’ordinamento / 4. Ripensando al passato, guardando al futuro. 

 

1.Il diritto diseguale come strumento di tutela di soggetti “deboli” 

L’obiettivo che mi propongo in questo intervento è quello di osservare da una particolare angolazione taluni strumenti normativi ed orientamenti giurisprudenziali attraverso i quali si è attuata, in questi ultimi decenni, una drastica riduzione di quelle tutele che erano state realizzate negli anni ’70 in chiave promozionale, al fine di valutare se possa individuarsi una chiave di lettura unitaria, tale, cioè, da poter essere riferita ai diversi settori dell’ordinamento.

È largamente condivisa, in questo seminario, l’affermazione secondo cui l’attuale normativa che disciplina la condizione dei migranti e l’involuzione verificatasi quanto alle differenze di genere siano paradigmatiche delle tensioni che  stanno investendo il modello di democrazia delineato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra: nell’aderire pienamente a tale analisi, osservo però che questo discorso appare valido anche in relazione ad altri aspetti della legislazione, nei quali pure il segno “ordinante” è stato quello di una politica del diritto che ha avuto di mira lo smantellamento di quel fascio di valori che sembravano ormai radicati nel mondo occidentale.

Prendo le mosse del diritto del lavoro perché, nell’ambito del ragionamento che cerco di sviluppare, esso rappresenta un osservatorio privilegiato: è proprio nel diritto del lavoro, e soprattutto nelle «prime leggi sociali, introdotte sulla spinta delle lotte operaie ed in forza della rappresentanza della classe operaia in parlamento», infatti, che «l’omogeneità ideologica del diritto fu rotta, anche sul piano formale»[1]. Il disvelamento del carattere sostanzialmente asimmetrico del rapporto intercorrente tra il datore di lavoro ed i suoi dipendenti sollecitò, nei settori più sensibili della società e delle forze politiche, la realizzazione di interventi normativi che condizionassero il potere imprenditoriale al fine di correggere quella condizione di squilibrio. In altri termini, è “dall’insuccesso dell’idea liberale di uguaglianza (che) nasce e si sviluppa l’esperienza del cosiddetto diritto diseguale, di cui il diritto del lavoro è davvero il pioniere”[2]. La successiva evoluzione del diritto del lavoro, con la moltiplicazione e l’affermarsi delle garanzie in favore dei lavoratori, può allora leggersi come un percorso di progressiva acquisizione della consapevolezza delle mistificazioni insite nell’asserita condizione di parità delle parti, dotate viceversa di una ben diversa forza contrattuale, e del necessario ridimensionamento del ruolo attribuito alla volontà dei contraenti, in larga misura sostituita ed integrata da fonti eteronome, ora di derivazione statuale, ora espressione dell’autonomia collettiva.

Un particolare significato ha assunto, in questo itinerario, una sentenza della Corte costituzionale che, dopo aver affermato che non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura (ove da ciò derivi l’inapplicabilità di norme inderogabili di tutela); ha aggiunto – ed è questa la parte della motivazione che qui soprattutto interessa – che «a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato». «I principi, le garanzie e i diritti stabiliti dalla Costituzione in questa materia, infatti – ha concluso sul punto la Corte –, sono e debbono essere sottratti alla disponibilità delle parti»[3].

Come ha osservato Massimo D’Antona in un memorabile commento a tale sentenza[4], nell’enucleare un limite costituzionale alla discrezionalità legislativa ed a quella delle parti essa suona anche come un opportuno monito, «ricordando al diritto del lavoro le ragioni della sua autonomia dal diritto comune», nel senso che dall’esito del procedimento classificatorio del contratto dipende, nella disciplina in oggetto, «l’attuazione di una vasta regolamentazione eteronoma, che riflette interessi superiori rispetto a quelli delle parti, quali risultano in primo luogo dal sistema delle garanzie e dei diritti costituzionali del lavoro subordinato, che a loro volta formano parte integrante del modello di costituzione economica, nella misura in cui segnano iprincipali punti di equilibrio tra libertà economica e doveri inderogabili di solidarietà sociale». In altri termini – rilevava più avanti D’Antona – la subordinazione, fissando la posizione dei soggetti del rapporto di lavoro nella rete delle relazioni economiche, «giustifica…una protezione giuridica speciale del lavoratore» (il corsivo è mio) e «situa il cittadino nella sfera sociale, e situandolo lo rende destinatario del bilanciamento di interessi sotteso alla costituzione economica»: il lavoratore subordinato – concludeva l’A. sul punto – è infatti «il prototipo dell’homme situé, specificazione dei citoyen che si è prodotta quando si sono affermati i diritti fondamentali della seconda generazione, ossia i diritti sociali»[5].

È del tutto evidente che il collegamento instaurato tra subordinazione e diritti di cittadinanza si rivela oggi del tutto inadeguato a tutelare l‘intera costellazione del mercato del lavoro, una gran parte del quale si colloca in una dimensione estranea al lavoro subordinato in senso proprio ed è sostanzialmente priva di tutela: ma questo discorso ci porterebbe lontano, per cui al riguardo è in questa sede sufficiente segnalare il dibattito in corso sulle linee di riforma preordinate proprio ad ampliare i diritti di cittadinanza ben oltre l’area del lavoro subordinato[6].

 

 

2. La politica del diritto nell’ultimo ventennio: ritorno al formalismo

È indubbio che, rispetto al processo virtuoso delle tutele che ha caratterizzato gli anni ’70 ed i primi anni ’80, il ciclo successivo ha mostrato una netta inversione di tendenza che, ad una valutazione di carattere complessivo, sembra potersi attribuire essenzialmente al fatto che ha ripreso vigore una politica del diritto che definirei “generalista”. Pur in difetto di esplicite elaborazioni teoriche, sono state via via ridimensionate – e successivamente azzerate tout court – le “specificità” di particolari condizioni sociali, con il risultato di erodere progressivamente i fondamenti costitutivi del diritto diseguale. 

Si è cercato in realtà, attraverso un’operazione strisciante che non ha sollevato, a dire il vero, quella reazione che era ragionevole attendersi dalle forze di sinistra, di introiettare nel corpo sociale, e negli stessi destinatari delle tutele, la convinzione che la legislazione degli anni ’70 avesse realizzato dei privilegi, piuttosto che un’azione promozionale dei diritti. La conseguenza che ne è derivata è stata – in termini schematici – una caduta verticale del principio di uguaglianza, il quale comporta anche – come è ben noto – il dovere di introdurre trattamenti differenziati in relazione a situazioni fra loro diverse al fine di riequilibrare la differente forza contrattuale dei soggetti;  sì che, una volta rimossi quegli ostacoli ritenuti frutto di una ventata di ideologismo, le dinamiche conflittuali sono state in larga misura “restituite” alle regole del mercato.

Gli esiti conseguenti, nell’ambito del diritto del lavoro, al drastico ridimensionamento della specificità della figura del lavoratore subordinato sono troppi noti perché qui se ne dia conto[7]. Dal particolare osservatorio nel quale ci si è posti è sufficiente sottolineare al riguardo che l’allentamento dei vincoli normativi posti a tutela del dipendente si realizza anche attraverso un anacronistico ritorno al formalismo che si esprime nel recupero di un ruolo rilevante della volontà delle parti.

Per un verso, nonostante l’autorevole “monito”contenuto nella sentenza n.115/94 della Corte costituzionale, in precedenza richiamata, si è fatto strada nella giurisprudenza della Corte di cassazione un orientamento, sia pure minoritario, secondo cui, soprattutto nelle ipotesi in cui ci si trovi in presenza di soggetti dotati di elevata professionalità e ritenuti dotati, quindi, di maggiore forza contrattuale, in sede di qualificazione del rapporto sarebbe corretto utilizzare il nomen iuris e la volontà manifestata dalle parti al momento di instaurazione del rapporto stesso[8]. Riaffiora così il dogma, duro a morire, della volontà contrattuale, malgrado il diritto del lavoro costituisca il settore che deve la propria specificità alla «espropriazione della qualità di contraente nei confronti del lavoratore»[9] e sebbene sia da ritenere acquisito in termini generali che l’autonomia negoziale consenta, sì, alle parti di scegliere il tipo contrattuale ma non anche «di apporre un’etichetta “d’origine” sui “prodotti” confezionati al fine di “selezionare” a proprio libito… la normativa regolatrice»[10].

È proprio nel solco di questo revival della volontà delle parti nel rapporto di lavoro che si colloca una delle più sorprendenti disposizioni della legge n.30 del 2003 (vale a dire della legge-delega in materia di mercato del lavoro, che si ispira al contenuto del noto “Libro bianco”)[11]. Si intende fare riferimento all’art.5, con il quale, al dichiarato scopo di «ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro» (ma, in realtà, di marginalizzare la giurisdizione del lavoro in una materia che, in presenza di vaste aree di lavoro sommerso e di  precariato, assume attualmente un particolare rilievo), si consente alle parti di qualificare inizialmente la natura del rapporto dinanzi ad appositi organi, con scarsissime possibilità che il successivo intervento giudiziario possa “rendere” giustizia stabilendo quale sia stato il reale svolgimento del rapporto ed applicando quindi ad esso la relativa disciplina[12]. E se si considera che ben difficilmente il lavoratore, ove la controparte lo pretenda e sia dunque in giuoco la sua assunzione, potrà sottrarsi a tale insolita procedura emerge con evidenza ancora maggiore il carattere mistificante del rilievo qui attribuito alla volontà negoziale, a riprova di una generale tendenza, propria del potere legislativo ed in certa misura di quello giudiziario, a ricondurre il diritto del lavoro nell’alveo del diritto “comune”.

 

 

3. La crisi della normativa promozionale nei diversi settori dell’ordinamento

Il trend che nei paragrafi precedenti si è tentato di delineare non riguarda soltanto, peraltro, il diritto del lavoro (nel quale esso semmai è maggiormente appariscente), ma investe anche altri settori dell’ordinamento, alcuni dei quali meritano una pur sintetica riflessione.

Può farsi riferimento, in primo luogo, ai disegni di legge relativi ai minori (approvati dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 1° marzo 2002) attraverso i quali i partiti della maggioranza si propongono la separazione delle competenze penali e civili, attualmente attribuite ai tribunali per i minorenni, attraverso il trasferimento della materia civile a sezioni specializzate da istituire nell’ambito dei tribunali ordinari, nonché una incisiva riscrittura delle norme che disciplinano i relativi procedimenti.

Va al riguardo premesso, in termini generali, che come è largamente riconosciuto alla stregua non solo della elaborazione scientifica, ma anche dei principi costituzionali e delle convenzioni internazionali in materia,  il processo minorile – sia civile sia penale – va tarato sulla specifica “soggettività” del suo destinatario, sulla sua particolare personalità (una personalità in formazione in una età di transizione) e che obiettivo prioritario della giurisdizione è la tutela del suo interesse, che si realizza attraverso il suo tendenziale reinserimento nella società. Per quanto concerne, poi, il processo penale, è del pari radicato il convincimento che esso debba ispirarsi al principio della “riduzione del danno”, nel senso che occorra attivare tutte le forme di intervento che evitino il rischio di una possibile compromissione del rapporto del minore con la società civile; ed il vigente codice di procedura penale minorile, nonché l’attuale ordinamento giudiziario, che – come detto – unifica le svariate competenze attinenti ai minori in un unico ufficio, sono appunto ispirati a quegli orientamenti[13].

Ora, prescindendo in questa sede dai gravi rilievi critici che sarebbero da formulare nei riguardi della menzionata separazione delle competenze (la cui concentrazione è invero essenziale per una effettiva armonizzazione degli interventi preordinati alla prevenzione ed al recupero del minore deviante), ci si intende qui soffermare su due norme che in quel contesto normativo assumono un valore emblematico. Nell’ordinamento oggi vigente è stabilito, quanto alla esecuzione della pena detentiva irrogata ad un soggetto minorenne, che essa si svolga con le modalità proprie dei minori anche per chi, avendo commesso il reato prima dei diciotto anni, non abbia comunque superato i ventuno anni; ed è intuitivo che tale previsione è preordinata ad evitare (o quanto meno ad allontanare nel tempo) l’impatto del minore con la popolazione carceraria adulta. Ebbene, la prospettiva accolta da quel disegno di legge risulta, rispetto all’assetto attuale, completamente capovolta, nel senso che si prevede che – di regola – al compimento dei diciotto anni il minore sia trasferito in un istituto per adulti e sia assoggettato, quindi, alla disciplina ed alle prassi che governano quegli istituti penitenziari. In ordine, poi, alla materia civile, quel disegno di legge si segnala tra l’altro per l’espunzione dal momento decisionale dei magistrati onorari addetti ai tribunali per i minorenni, che sono portatori di saperi extragiuridici (psicologia, psichiatria, ecc.) i quali soltanto consentono una piena percezione del contesto sociale in cui maturano le vicende che formeranno oggetto del giudizio: ed è facile comprendere che una riforma del genere comporterebbe la riduzione della capacità di ascolto del minore e relegherebbe il giudice in una dimensione squisitamente tecnico-formale.

Già sulla base di questi pur scarni rilievi appare evidente come le ventilate riforme, al di là delle modifiche successivamente intervenute, rivelino ad ogni modo il proposito di una netta riduzione delle tutele predisposte per la specifica condizione del minore, denotando anch’esse la spinta ad una tendenziale omogeneizzazione delle differenti soggettività.

Una tendenza che è espressione del medesimo humus politico-culturale si rinviene anche nella proposta di revisione della c.d.legge Basaglia (n.180/1978). L’introduzione della nozione di “fondato sospetto” della presenza di alterazioni psichiche quale presupposto per l’accertamento sanitario obbligatorio; la sottrazione al giudice tutelare del ruolo di garante dei diritti del paziente affidatogli dalla legge; l’estensione di tale trattamento in danno del cittadino affetto da patologie fisiche che questi rifiuti di curare o di soggetti in stato di intossicazione da alcool o droghe; l’erogazione eventuale (sic!) di compensi economici in favore dei malati di mente che abbiano svolto un’attività lavorativa a seguito dell’iscrizione nel collocamento obbligatorio; il più che probabile riutilizzo degli ex ospedali psichiatrici[14]: sono, questi, gli elementi più significativi che rivelano una pari  inclinazione alla negazione (o, quanto meno, alla svalutazione) di “statuti” particolari edificati in relazione ai soggetti più svantaggiati del corpo sociale. Ad un modello di politica del diritto fondato sulla presa in carico di uno status che pretende una particolare tutela al fine del  suo possibile uguagliamento con quello degli  altri cittadini si sostituisce una visione darwiniana delle relazioni sociali, in virtù della quale si punta all’accentuazione delle condizioni di disagio e di disparità, che non può che sfociare  nella rottura di quei vincoli di solidarietà che sino ai primi anni ’80 avevano in qualche misura segnato le istituzioni.

Del resto, questi caratteri si ritrovano anche a livello macro, ove si consideri quale sia, al di là delle questioni di carattere strettamente istituzionale (che non possono trovare spazio in questa sede), l’autentica cifra delle prospettive di modifica della forma-stato attraverso la cosiddetta devolution. Non può certo dimenticarsi che la strada per una possibile «legislazione regionale di assalto» su diverse materie di grande rilievo (tra le quali la tutela e sicurezza del lavoro) è stata spianata dalla modifica del titolo V della Costituzione, approvata allo spirare della scorsa legislatura, la quale rendeva di per sé possibile una vera e propria «territorializzazione dei diritti»[15]. Tuttavia, nell’attribuire alle Regioni una competenza esclusiva su scuola, sanità e polizia locale l’attuale maggioranza di governo intende portare alle estreme conseguenze la riforma federalista, utilizzandola, per di più «in un contesto nazionale fortemente disomogeneo», come strumento destinato ad esasperare le irrisolte sperequazioni economico-sociali tra le diverse aree del Paese, «accentuando i diversi livelli di prestazione» attualmente esistenti ed «ampliando il distacco tra comunità territoriali ricche e comunità territoriali povere»[16], in palese dispregio del principio di uguaglianza sostanziale.

A questo punto ci si potrebbe chiedere se il tentativo di ricondurre ad un filone unitario l’ideologia che ispira l’attuale leadership non abbia forzato la realtà, nel senso che in relazione ad alcuni settori dell’ordinamento si è sottolineato il declino del diritto diseguale, mentre in altri si è piuttosto messa in luce una deriva legislativa in chiave discriminatoria; ed il rilievo, a dire il vero, sarebbe tanto più valido se riferito alla condizione dei migranti, della quale altri si è occupato in questo seminario[17]: ritengo che la forzatura sia soltanto apparente in quanto, a ben vedere, i due “modelli” normativi ora enucleati sono pienamente complementari.

Per un verso, talune figure sociali (i lavoratori subordinati, ad esempio), in relazione alle quali era stato costruito un apparato di tutele volto a rimuovere o quanto meno ad attenuare la loro posizione di debolezza, se ne vedono private attraverso un disconoscimento della loro specificità e per tal via se ne accentua la disuguaglianza; per altro verso, talune identità determinate dalle differenze (gli immigrati, in primo luogo), anziché essere valorizzate «vengono assunte come status discriminati» e «sancite e pensate come disuguaglianze»[18]. A voler tentare una sintesi, sembra di poter affermare che nel periodo a noi più vicino la legislazione si muove lungo un percorso volto alla riduzione o allo smantellamento di strumenti idonei a realizzare il principio di uguaglianza sostanziale, per un verso allentando le tutele in favore di aree sociali economicamente più deboli, con il risultato di divaricare ulteriormente le disparità già esistenti; per altro verso accentuando il carattere escludente del quadro normativo inteso a disciplinare le differenze identitarie ritenute negative, così da consolidare un «doppio livello di cittadinanza»[19]. La prospettiva che anima la maggioranza di governo è, dunque, quella di una ridefinizione dell’ordine sociale che passi attraverso l’abbandono del principio finalistico affermato dal secondo comma dell’art.3 della Costituzione.

 

 

4. Ripensando al passato, guardando al futuro

A voler trarre una lezione, forse scontata, dall’analisi che si è tentato di svolgere, osserverei in termini riassuntivi che ogni qual volta si registra un calo di attenzione, da parte delle forze progressiste, sulle soggettività specifiche[20] deperisce il valore dell’uguaglianza in quanto riprendono vigore le costanti pressioni, che hanno assunto ormai dimensioni sovranazionali, per il predominio delle regole di mercato, stante l’inevitabile antagonismo tra tendenze neo-liberiste e spinte per l’affermazione di una pari dignità sociale.

Riprendo il tema sul quale mi sono inizialmente soffermato per sottolineare che, secondo un giudizio largamente condiviso, una volta superato il trentennio in cui lo Stato ha cercato di mantenere le promesse enunciate dalla Costituzione è mancata una «rappresentazione del lavoro» in sede politica. Neppure nel periodo in cui il centro-sinistra è stato al governo del Paese i lavoratori sono stati al centro della sua attenzione, avendo esso preferito «rincorrere senza una precisa strategia il lavoro autonomo e l’impresa»; né è stato in grado, in particolare, di adeguare la sua politica alle profonde trasformazioni dei modi di produzione e del mercato del lavoro[21]. Può anzi aggiungersi che, al di là delle carenze della sua azione di governo, la sinistra non ha esitato ad avallare l’introduzione di forme di flessibilità orientate in via esclusiva al soddisfacimento di esigenze imprenditoriali, predisponendo – oggettivamente - un terreno favorevole all’attuale normativa volta alla brutale precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Ma le “distrazioni” della sinistra non si sono limitate alla materia lavoristica, se è vero, per fare un rapido cenno ad alcuni dei temi qui affrontati, che anche la legge Napolitano-Turco si ispirava ad una visione del migrante come soggetto di per sé pericoloso per l’ordine pubblico[22]; e che i rischi di una politica destinata ad introdurre ulteriori discriminazioni tra le diverse aree del Paese era già presente – come si è detto in precedenza – nella modifica del titolo V della Costituzione. Rilievi, questi, che non sono ispirati da una volontà fustigatoria, bensì dall’esigenza di riprendere una riflessione sul principio di uguaglianza, nelle sue diverse declinazioni,  e sui rischi derivanti da visioni politiche che non lo considerino quale il baricentro di un progetto di trasformazione sociale nell’illusione che “infedeltà” di modesta portata possano passare inosservate o essere comunque prive di significative ricadute.

Certo, l’attuale scadimento dei valori di equità e solidarietà e la difficoltà, per la sinistra, di ritrovare una forte motivazione per la rimozione delle disuguaglianze rendono assai cupo l’orizzonte politico, né si riesce oggi a comprendere con chiarezza quali dovrebbero essere le componenti sociali sulle quali puntare per una inversione delle tendenze in atto. Se è vero – come è stato osservato – che quello di Berlusconi è il primo governo in cui la “borghesia globale” è riuscita a stringere un patto con la piccola borghesia ed il ceto medio, “mostrando di considerare superato il vecchio patto fra impresa e sindacato”; e che, per altro verso, «dopo l’adesione ai valori del mercato (la sinistra) troverà assai difficile ritrovare la trama di un blocco sociale alternativo» alla suddetta alleanza[23], è innegabile che l’individuazione degli agenti di una evoluzione dello Stato in senso democratico e delle forme della loro coesione costituiscano oggi la questione di fondo sulla quale impegnarsi anche in sede teorica.

Lasciando da parte il pur doveroso e consueto appello ai settori più sensibili della società e dei partiti di sinistra, mi sembra di poter dire, a conclusione di queste note, che soltanto una prospettiva politica che attribuisca un valore assolutamente prioritario al riconoscimento dei diritti fondamentali a tutti gli esseri umani e si riappropri di quella tensione egualitaria che animò il Costituente può condurre ad una vasta riaggregazione di consensi in grado di opporsi efficacemente all’attuale maggioranza: dovrebbe essere ormai a tutti chiaro, ad ogni modo, che il tempo delle astuzie, delle mezze misure, degli equilibrismi e dell’autoreferenzialità dei partiti appartiene davvero al passato*.

    

   


* Lo scritto qui pubblicato è tratto dal n.3/2003 di Questione Giustizia e riprende, con alcune integrazioni e l’aggiunta di note, l’intervento svolto al seminario Diritti, cittadinanza, pace (Roma, 3 marzo 2003, Fondazione Basso), organizzato dalle riviste Questione giustizia e Quale Stato.

1. F. Mazziotti, Diritto del lavoro, vol. I, Pisa, 1979, p.18, il quale aggiunge che in tal modo si sono affermati «valori nuovi e antagonistici rispetto a quelli del capitalismo, che evidenziano…la struttura classista della società borghese».

2. R. Voza, Il diritto del lavoro oggi. Tre domande sul diritto del lavoro per giuslavoristi insigni e giovani dottorandi, in  Lav. dir., n. 1/2000, p. 78.

3. Si tratta della sentenza 21 marzo 1994, n.115, che può leggersi anche in Foro.it., 1994, I, 2656 ss.

4. Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 2000, pp.63 ss. (qui p.67).

5. Op.cit., p.73.

6. Per una prima analisi dei diversi orientamenti emersi in proposito, si rinvia a G. Cannella, Tutele per i collaboratori autonomi: la nuova frontiera del diritto del lavoro, in questa Rivista, 2002, pp.982 ss. (spec.par.5).

7. Per una efficace descrizione di questo processo involutivo, si vedano per tutti, G.Ghezzi, Dove va il diritto del lavoro? Afferrare Proteo, in Lav .dir., n 3/2002, pp. 333 ss.; G. Cannella, La parabola del diritto del lavoro, ne Il Ponte, n. 3/2002; pp. 81 ss.; ed i contributi raccolti in AA.VV., Il Libro bianco e la Carta di Nizza, Roma, 2002.

8. Per una rassegna di tali decisioni ed una puntuale critica a tale indirizzo giurisprudenziale, vedi da ultimo, G.Fontana, Subordinazione e collaborazione coordinate: l’ennesima “svolta” della cassazione, in Riv. giur. lav., 2002, II, pp. 440 ss.

9. R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, p.12, cit. da L. Nogler, Metodo tipologico e qualificazione dei rapporti di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 1990, I, 211.

10. In questi termini si esprime L. Montuschi, Il contratto di lavoro fra pregiudizio e orgoglio giuslavoristico, in Lav. dir., 1993, p. 31.

11. Per un esame complessivo di tale normativa, vedi M. Roccella, Lavoro e Costituzione nelle politiche del governo Berlusconi, in questa Rivista, 2003, pp.5 ss.

12. Così L. Curcio, Amministrativizzazione del rapporto e giustizia del lavoro, in AA.VV., Il Libro bianco, cit., p.116.

13. Nell’impossibilità di citare tutti gli autori il cui pensiero è conforme a quello espresso nel testo, ci si limita a richiamare A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, Bologna, 1996; A. Assante-P. Giannino-F. Mazziotti, Manuale di diritto minorile, Bari, 2000; G. Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, Milano, 2001; e, più di recente, in termini critici nei riguardi dei disegni di legge in oggetto, L. Fadiga, La scissione tra competenza civile e penale recita il requiem della giustizia minorile, in Guida al diritto, 2002, n.14;  A. Vaccaro, Tribunali per i minori: le dieci ragioni contro un ingiusto azzeramento, ivi, 2002, n. 17; e D. Pulitanò, Quale riforma per la giustizia penale minorile?,in questa Rivista, 2002, pp.731 ss. Per alcuni rilievi coincidenti con quelli formulati nel testo si vedano anche i pareri espressi dal CSM sui menzionati disegni di legge con delibere del 25 e 30 luglio 2002.

14. Sottolinea questi preoccupanti aspetti, svolgendo ulteriori notazioni di carattere fortemente critico, E. Lupo, Il progetto di modifica della legge 180: una controriforma fondata sulla segregazione, in questa Rivista, pp. 51 ss. (spec. p. 53).

15. L. Mariucci, Federalismo e diritti del lavoro, in Lav. dir., n. 3/2001, p. 413.

16. Le citazioni sono tratte da C.De Fiores, Involution, ne la rivista del manifesto, gennaio 2003, p.26, il quale incisivamente osserva più avanti (p.29) che il progetto politico che le forze di destra intendono conseguire è quello di «rompere la coesione sociale fra i cittadini, dividere il Paese, travolgere la rete universalistica delle prestazioni sociali».

17. Si allude all’intervento svolto nel medesimo seminario da A. Caputo, per le cui ampie riflessioni al riguardo può rinviarsi ad ogni modo a La condizione giuridica dei migranti dopo la legge Bossi-Fini, in questa Rivista, 2002, pp. 964 ss., nonché al più recente scritto L’immigrazione: ovvero, la cittadinanza negata, in L. Pepino (a cura di), Attacco ai diritti. Giustizia, lavoro, cittadinanza sotto il governo Berlusconi, Bari, 2003, pp. 31 ss.

18. Cosi L. Ferrajoli, La differenza sessuale e la garanzia dell’uguaglianza, in Dem. dir., n.2/1993, pp.50 ss., il quale assume la differenza di sesso come una differenza paradigmatica, come tale idonea ad «illuminare tutte le altre differenze d’identità»; propone quattro possibili modelli di configurazione giuridica delle differenze; e riconduce quello a cui ci si è riferiti nel testo al modello di differenziazione giuridica delle differenze.

19. L’espressione è di L. Pepino, La legge Bossi-Fini. Appunti su immigrazione e democrazia, in Dir. imm. citt., n. 3/2002, p. 20, il quale osserva che tale carattere è sempre più strutturato nel nostro sistema e lo riferisce, oltre che alla condizione dei migranti, alla «debolezza delle tutele nel rapporto di lavoro e nell’accesso ai diritti sociali in genere» .

20. Utilizzo questo termine  in modo promiscuo per indicare sia le identità determinate dalle differenze sia le mere condizioni di disparità sociale (distinzione posta nettamente  in luce da L. Ferrajoli, op. cit., p. 50).

21. In tal senso, H. Bierbaum-P. Ciofi, Rappresentare il lavoro, in Quale Stato, n. 2/3-2001, pp. 307 ss. (spec. p.3 11 e 315).

22. A. Caputo, La condizione giuridica dei migranti, cit., p. 967.

23. P. Barcellona, Il ribaltone dei poteri forti e la solitudine politica dei giovani, in G. Cotturri (a cura di), Domande a sinistra, 2001, p. 98-99.

30/10/2015
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