Magistratura democratica
Magistratura e società

L’agnosticismo politico di Gaetano Azzariti e i testacoda della storia

di Mauro Dallacasa
giudice del lavoro presso il Tribunale di Padova

La prima sentenza della Corte costituzionale (n. 1/56), istituita e posta in grado di operare con ragguardevole ritardo rispetto all’entrata in vigore della Costituzione, si trovò ad affrontare due questioni tra loro connesse, da cui dipendeva l’ampiezza del controllo di costituzionalità sulle leggi. L’occasione era il giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 113 T.U.L.P..S. (r.d. 773/31), che vietava la distribuzione e la affissione in pubblico, senza licenza dell’autorità, di scritti e disegni: tra le condotte che erano incappate nei divieti previsti da quella norma, dando l’occasione di sollevare la questione di legittimità costituzionale, vi erano quelle di avere distribuito avvisi o stampati sulla pubblica strada, di avere affisso manifesti o giornali, di avere utilizzato altoparlanti per comunicazione al pubblico, senza richiedere l’autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza. 

Le due questioni possono così riassumersi: se fosse da escludere il controllo di costituzionalità sulle leggi anteriori all’entrata in vigore della Costituzione, perché esse, se incompatibili con la Costituzione, dovevano ritenersi tacitamente abrogate, secondo la regola posta dall’art. 15 disp. prel. c.c.; se poi l’effetto abrogante potesse prodursi anche in presenza di norme programmatiche, cioè di norme che dettano un programma per il legislatore, ma non contengono un comando idoneo ad essere immediatamente attuato, non sono cioè precettive.

Ora è chiaro che chi dava una risposta negativa alla prima questione, ritenendo dunque che tutto si risolvesse secondo i canoni del raffronto tra legge anteriore e legge posteriore, era portato anche a ritenere che solo una norma costituzionale precettiva potesse produrre un effetto abrogativo di una legge ordinaria.  

La posta in gioco era rilevantissima, perché le due obiezioni, se fossero state accolte, avrebbero drasticamente ridotto la competenza della Corte costituzionale in favore della magistratura ordinaria, e, in ultima analisi, della Cassazione e cioè di un ceto giudiziario formatosi quando la Costituzione ancora non c’era e scarsamente propenso al nuovo. All’epoca fu motivo di polemica che l’Avvocatura dello Stato ricevesse mandato di costituirsi davanti alla Corte per difendere quella norma.  

La sentenza n. 1 del 1956 respinse entrambe le obiezioni e dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 113 del T.U.L.P.S. Infatti, «l’assunto che il nuovo istituto della “illegittimità costituzionale” si riferisca solo alle leggi posteriori alla Costituzione e non anche a quelle anteriori non può essere accolto… perché, dal lato logico, è innegabile che il rapporto tra leggi ordinarie e leggi costituzionali e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle costituzionali»; «Il campo dell’abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge»; «la nota distinzione tra norme precettive e norme programmatiche… non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche».     

Il relatore di quella sentenza (presidente De Nicola) fu Gaetano Azzariti.          

Gaetano Azzariti invero aveva sostenuto il contrario. Lo aveva scritto nelle sue opere, raccolte nel volume Problemi attuali di diritto costituzionale, edito nel 1951 per i tipi di Giuffré. 

Il suo pensiero poteva così riassumersi: 

1. Rientrano nella competenza della Corte «così il sindacato formale che quello sostanziale»; tuttavia l’espressione sindacato sostanziale o materiale «è, in fondo, anche esso un sindacato puramente formale, se si tiene conto del suo scopo. Esso è infatti diretto esclusivamente ad accertare se la forma prescritta per una legge che abbia quel determinato contenuto sia stata osservata» (p. 192, 193); tale controllo poi «riguarda soltanto le leggi ordinarie e non anche le leggi costituzionali perché solo per le prime è stabilita una limitazione di contenuto» (p. 193); «il contenuto concreto della legge può venire in considerazione soltanto allo scopo di stabilire quali siano le forme che erano da osservare per l’emanazione della legge avente quel determinato contenuto» (p. 133); 

2. dal che «parrebbe difficile ammettere che un contrasto di questo genere possa sussistere allorché si tratta di leggi anteriori alla Costituzione, le quali, appunto perché anteriori, non potevano essere emanate secondo le forme che la Costituzione sopravvenuta prescrive» (ibidem). Sulla questione comunque l’A. non intende giungere a conclusioni definitive; 

3. «i principi costituzionali a carattere direttivo, anche in un ordinamento rigido, restano direttivi e le leggi da essi divergenti non risultano, semplicemente per questo, invalide» (p. 99). L’affermazione poi che tutte le norme della Costituzione siano precettive, «se fosse da intendere in senso assoluto», lo lascerebbe perplesso (p. 100). Le norme direttive «non sarebbero vere e proprie norme giuridiche, perché non contengono un comando, o, se di comando vuole parlarsi, questo… ha un valore politico, etico, più che giuridico» (p.101); per le norme «puramente direttive, la legge che ad esse non si uniformasse non potrebbe essere accusata di incostituzionalità» (p. 103) Quali esempi di norme direttive, «si possono qui ricordare le norme costituzionali relative al matrimonio, all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, alla filiazione fuori del matrimonio, alle misure economiche a favore della famiglia (art. 29, 30, 31) e le norme relative alla libertà dell’arte e all’insegnamento (art. 33, 34). Credo che nessuna di queste norme porti deroga o abrogazione delle disposizioni vigenti del codice civile, della legislazione scolastica e via dicendo».

Va detto che all’epoca tali questioni erano materia di dibattito giuridico e ciò che oggi è ovvio non lo era affatto a quel tempo (chi voglia ricostruire le diverse tesi a confronto, può leggere Dibattito sulla competenza della Corte costituzionale in ordine alle norme anteriori alla Costituzione, in Giur. cost., 1956, p. 261). Però la tesi di Azzariti sarà poi giudicata estremista da Costantino Mortati, nelle sue Istituzioni di Diritto Pubblico (Cedam, Padova, 1976, tomo II, p. 1395 nt. 1).  

Le cose cambiano, almeno in parte, qualche anno dopo. Lo scritto è datato ottobre 1955 (La mancata attuazione della Costituzione e l’opera della magistratura, ne Il Foro It., 1956, vol. 79, p. IV, p. 1 ss), siamo dunque a un passo dalla sua nomina a giudice costituzionale e Azzariti dialoga con due interventi di Calamandrei (La Costituzione e le leggi per attuarla, in Dieci anni dopo, Bari, 1955) e di Balladore Pallieri (La Costituzione italiana nel decorso decennio, in Foro Pad., 1954, IV, 34), che avevano denunciato i ritardi e le omissioni nell’attuazione della Costituzione, imputabili ai diversi poteri dello Stato, anche alla magistratura.

Lo scritto di Azzariti è invece una difesa d’ufficio della magistratura, che a suo dire ha fatto quello che ha potuto, a fronte dell’inerzia del governo e del legislatore (e deve dirsi che alla fine anche Calamandrei giunge alla stessa conclusione). 

Ora Azzariti dichiara di avere «sempre considerato inaccettabile» una interpretazione del controllo diffuso di costituzionalità previsto dalla VII disposizione transitoria che lo limitasse ad un controllo puramente formale (c. 4) e ascrive a merito della magistratura di avere respinto una interpretazione così restrittiva; sarebbe quindi contrario alla realtà delle cose considerare «pretesto e mezzo per non applicare le nuove norme costituzionali», la nota distinzione di queste in norme precettive e norme direttive o programmatiche (c. 7).

Ammette che «nel campo della tutela dei diritti civili e politici e della disciplina dei rapporti economici e sociali» la legislazione anteriore alla Costituzione non possa essere «del tutto conforme ai nuovi principi» (c. 7). E tuttavia l’opera della magistratura incontra un ostacolo insuperabile nella distinzione tra norme programmatiche e norme precettive e, tra queste ultime, tra quelle ad applicazione immediata e quelle ad applicazione differita; distinzione che scaturisce «dalla natura delle cose» (citando E. Eula, Vita giuridica della Costituzione, in Riv. pen., 1955, fasc. 6, p. 13, altro magistrato compromessosi col fascismo e però giunto all’epoca alla presidenza della Cassazione). Quanto a quelle di applicazione non immediata, hanno tuttavia il crisma della giuridicità e contribuiscono a definire i principi generali dell’ordinamento giuridico, consentendo una interpretazione storico evolutiva (oggi si direbbe conforme) delle norme di legge ordinaria.  

Tuttavia, perché operi l’istituto dell’abrogazione tacita per incompatibilità è necessario «che la nuova norma non solo esista, ma sia anche applicabile» (c. 12); e vi è «necessità di fare capo alle leggi nelle quali è contenuta la disciplina concreta di singoli rapporti giuridici, fino a quando non intervengono altre leggi» (c. 7). 

Nei lavori di Calamandrei e Balladore Pallieri la denuncia della timidezza della magistratura riguardava specificamente il tema delle libertà civili: in Calamandrei, specialmente la decisione della Cassazione di non ritenere ricorribili per violazione di legge le sentenze emesse dal Tribunale supremo militare (p. 43 della ristampa del 2000, ed. Giuffrè); in Balladore Pallieri la normativa contenuta nel Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza e più in generale i diritti di libertà, che sarebbero stati inadeguatamente riconosciuti, anche da parte della magistratura, proprio per mezzo della distinzione tra norme precettive e norme programmatiche (p. 251).

Azzariti non considera che nel campo delle libertà civili non vi è necessità logica che, per considerare abrogata la vecchia legge, ve ne sia una pronta per sostituirla, essendo sufficiente che l’abrogazione riporta nella sfera del lecito le condotte prima vietate.

Più in generale, mentre lo scritto di Calamandrei vibra di sdegno civile e quello di Balladore Pallieri contestualizza storicamente l’evoluzione dell’ordinamento costituzionale, Azzariti si rifugia in una dimensione tecnico giuridica, e nel suo scritto si scolorisce la dimensione assiologica del confronto tra le norme del nuovo e del vecchio ordinamento. E’ come che manchi l’anima. 

Gaetano Azzariti era giunto alla Corte costituzionale, e ne sarebbe divenuto poi addirittura il Presidente, dopo una carriera di sorprendente longevità, passando indenne tra diversi regimi, quello liberale, quello fascista, quindi quello democratico, svolgendo un ruolo anche nella fase delicata di trapasso dallo stato autoritario e monarchico a quello democratico e repubblicano (per i riferimenti che seguono mi avvalgo della biografia di Massimiliano Boni, In quei tempi di fervore e di gloria, Bollati Boringhieri, Torino, 2022). 

Cominciò al Ministero della Giustizia con Vittorio Emanuele Orlando, fu responsabile dell’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia dal 1927 al 1949, svolgendo quindi un ruolo essenziale nel processo di fascistizzazione dell’ordinamento (o anche, se si vuole, nel tentativo velleitario di dare forma giuridica e limite all’autoritarismo), fece parte della commissione che si occupò di stendere il r.d.l. 9.2.39 n. 126, che fissava i limiti alla proprietà immobiliare e alle attività industriali e commerciali degli ebrei (p. 85), partecipò ai lavori di stesura dei nuovi codici, in particolare di quello civile (p.145); in tale veste, chiamato a relazionare a convegni, si abbandonerà a qualche espressione apologetica del fascismo, peraltro usuale all’epoca (a prova della corruzione morale delle dittature), ma anche a qualche cosa di più, celebrando l’epocale svolta verificatasi con l’abbandono dell’egualitarismo in materia di capacità giuridica, affermata con il terzo comma dell’art. 1,  c.c., oggi abrogato, il cui testo recitava «Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall'appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali» (p. 144).

Con la caduta del fascismo fu nominato Ministro di Grazia e Giustizia nel primo Governo Badoglio, esercitando tali funzioni sino all’entrata dei tedeschi a Roma, ponendo mano, con molta prudenza e con spirito burocratico, ai primi cenni di defascistizzazione dell’ordinamento: a suo avviso – e su ciò conveniva peraltro la gran parte della dottrina che a quei codici aveva collaborato – i codici  necessitavano solo di qualche ripulitura; quanto poi agli antifascisti perseguitati, per i condannati per reati contro lo Stato, «dovrà essere applicata inesorabilmente la legge» (p. 156). 

Non aderì alla Repubblica di Salò, né seguì il re e il resto del Governo nella fuga. 

Tornò presto a capo dell’Ufficio legislativo del Ministero e, un poco sorprendentemente, vi fu confermato da Palmiro Togliatti, quando questi divenne Ministro della Giustizia. Passò indenne, come del resto tanti, attraverso un procedimento di epurazione. 

Fece parte della seconda Commissione Forti, il cui compito consisteva nel predisporre materiali per la stesura della nuova Costituzione, assumendo sempre, nel raffronto tra libertà civili e potestà pubbliche, posizioni limitative delle prime (p. 210). 

E’ con questo curriculum che giunse alla Corte costituzionale, nominato da Gronchi, divenendone poi Presidente, carica che mantenne sino alla morte.

Azzariti si compromise anche, e questa fu la sua pagina più nera, nell’applicazione della legislazione discriminatoria e persecutoria degli ebrei, in particolare accettando di presiedere la Commissione della razza, istituita con la l. 13 luglio 1939, n. 1024, il cui compito era di formulare, a seguito di istruttoria segreta, un parere vincolante sulle domande di non appartenenza alla razza ebraica, anche in difformità dalle risultanze dello stato civile, cui avrebbe fatto seguito un decreto del Ministro dell’Interno, non motivato e insindacabile.

Per comprendere il senso dell’istituzione di tale commissione occorre tenere presente che il R.D. 17.11.38 n. 1728 considerava di razza ebraica colui che era nato da genitori entrambi di razza ebraica, ovvero da un solo genitore di razza ebraica, se egli professava la religione ebraica. Non era considerato di razza ebraica chi, figlio di una coppia mista, non apparteneva alla religione ebraica alla data del primo ottobre 1938. Con l’istituzione della commissione si apriva una porta, ancorché umiliante, al riconoscimento di una filiazione naturale (all’epoca illegittima) da madre ebraica e padre ariano. Come si sa, mater semper certa est, pater numquam, e così all’abiura della propria religione si aggiungeva la simulazione di un adulterio. Gli effetti dell’accertamento non si riversavano sullo stato civile e sui rapporti di natura familiare e patrimoniale. L’ebreo arianizzato avrebbe avuto due padri, uno putativo, civilmente riconosciuto, e uno incognito, che lo sottraeva alla legislazione razziale.

Il fatto che la Commissione esentasse da una legislazione odiosa, con provvedimento ad personam, ha consentito poi di attribuire a coloro che la componevano un ruolo meritorio, quello di aiutare il più possibile chi vi ricorreva (così R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1994, p. 348, ma anche la lettera del nipote al Corriere della Sera: Gaetano Azzariti: Errori, ma non infamie, 6 aprile 2015): in tal senso deporrebbero i dati dei ricorsi accolti.

E’ questo il tema dei conflitti di doveri a fronte di una legislazione moralmente iniqua: la stessa questione si pose, nell’esperienza giudiziaria tedesca, nei processi per l’eutanasia, contro i medici che applicarono l’ordinanza di Hitler, che prevedeva l’eliminazione dei pazzi inguaribili. Alcuni medici si difesero affermando che avevano ridotto al minimo le diagnosi di inguaribilità e così facendo avrebbero operato per il male minore. Se si fossero rifiutati di cooperare, sarebbero stati sostituiti da altri medici più zelanti.  

Nel nostro caso, il prezzo imposto agli ebrei, sia in termini di lesione della loro dignità che del loro patrimonio (sono intuitivi i costi della procedura, con il rischio, con ogni probabilità avveratosi, di estorsioni, di cui va detto non vi è prova che abbia profittato Azzariti). Parole aspre su tutto ciò si trovano nei diari di Calamandrei.

Si può ipotizzare che la scelta di Togliatti di mantenere Azzariti al Ministero sia stata decisiva per le sue fortune successive: forse fu proprio questo redwashing ad aprirgli le porte della sua seconda vita di garante della Costituzione repubblicana, a dispetto di quei precedenti inquietanti.

Può darsi che sulla decisione di Togliatti abbia pesato la necessità di garantire l’operatività del Ministero con il personale esistente, che abbia pesato anche la logica compromissoria con le altre forze politiche, che poi condurrà all’amnistia; che sia stata, in qualche modo, una scelta necessitata.

Tuttavia, si può anche ipotizzare che qualcosa accomunasse i due, qualcosa che atteneva al rapporto tra politica e diritto, anche se poi ognuno lo declinava a suo modo. E questo elemento consisteva in una idea di separatezza tra le due sfere, senza che si avvertisse che i tempi nuovi richiedevano anche un rinnovamento della cultura giuridica.

Solo che l’uno intendeva quella separatezza secondo il motto napoleonico, e poi gaullista per cui l’intendence suivra, e cioè che la decisione politica avrebbe conformato l’azione dell’apparato amministrativo, che poi si sarebbe adeguato (in tal senso, la testimonianza di Italo De Feo, Tre anni con Togliatti, Mursia, Milano 1971); su questa convinzione di Togliatti probabilmente influiva la speranza che la collaborazione tra i partiti di governo potesse durare a lungo e caratterizzare una intera stagione di governo. L’altro invece non intendeva seguire, ma imporsi alla politica, secondo il motto per cui bisogna che tutto cambi perché nulla cambi, nel nome di un tecnicismo giuridico che elevava la separatezza ad ideologia.

Pur non sottovalutando le sue doti camaleontiche, credo che si debba guardare ad Azzariti come ad un modello di giurista agnostico e che, in tal senso, il suo agire si svolse nel segno della continuità. 

Norberto Bobbio (L’ideologia del fascismo, Milano, Biblion ed., 2023, già pubblicata nei Quaderni di Lettera ai compagni della Federazione Italiana Associazioni Partigiane) individua tre diversi gruppi di intellettuali che confluirono nel fascismo: «i conservatori spaventati, provenienti dalla Destra storica e dal nazionalismo di destra, che chiedevano anzitutto ordine, disciplina, fermezza di guida, insomma il ristabilimento dello stato; gli “sradicati”, giovani della nuova generazione, piombati dall’ebbrezza della guerra e della vittoria alla mediocrità senza ideali della vita quotidiana»; «i piccolo borghesi, schiacciati tra le opposte schiere di antagonisti, che cercavano una mediazione, una sintesi tra vecchio e nuovo, tra conservazione e rivoluzione.. che sola avrebbe potuto evitare l’urto delle classi contrapposte».   

I primi trovarono il loro rappresentante in Giovanni Gentile, che «interpretò il fascismo come una forma superiore (superiore in quanto superatrice) del liberalismo, come una restaurazione, se pure ammodernata, del vecchio liberalismo ottocentesco, traviato dal connubio col democratismo popolaresco».

Penso si possa ascrivere Gaetano Azzariti a questa corrente. Questo è almeno quello che mi pare di cogliere guardando alla sua parabola, emblematica della continuità tra il prima e il dopo 25 aprile. 

Lo attesta la sua biografia, il ruolo svolto nella stesura dei nuovi codici e poi nella fase della loro ripulitura dalle scorie più evidenti dell’ideologia fascista; le posizioni assunte nel dibattito sulla nuova Costituzione; lo attesta la sua identità di tecnico, il rigore con cui il raffronto tra Costituzione e legge ordinaria viene ridotto, nei suoi contributi dottrinali, a una relazione logica tra fattispecie, senza che nulla trapeli dei nuovi valori sanciti dalla Costituzione.

Non, dunque, un fascista portatore di un ordine nuovo, ma un difensore dell’ordine; non un totalitario che si identifica nella volontà del capo, ma un moderato fautore della norma positiva, ostile alla dialettica libera della società civile.  

E’ questo poi il fascismo più duraturo e perenne, quello che c’era già prima del ventennio e che gli è sopravvissuto: come un virus capace di replicarsi in mille varianti, in grado di vivere anche in ambienti che, come le democrazie, dovrebbero essergli ostili.

Chissà come si sarebbe trovato Azzariti in un’epoca come questa, in cui il credo neoliberista classico si confronta con una far-right che vede nello Stato liberale un leviatano da abbattere.

Ma si sa che alla fine le diverse destre trovano un modo per convivere; ed anche Azzariti accettò un incarico in cui segretezza, mancanza di motivazione e inappellabilità lo avvicinavano molto, anche formalmente, all’esercizio di un arbitrio.  

Eppure… Sarà stata la divina provvidenza, o lo spirito della storia che si inverava beffardo per mezzo della persona che meno lo comprendeva, ma si deve alla penna di Azzariti quella sentenza n. 1 che schiudeva la strada ad un profondo rinnovamento del pensiero giuridico e dei contenuti della giurisdizione e che fece dire a Leonetto Amadei, che sarà poi anch’egli presidente della Corte, che si trattava di «una vittoria degli ideali antifascisti»; e che la Corte dichiarava «il proprio diritto a difendere, in nome del popolo italiano, i valori della democrazia dagli attacchi di un passato che, sotto forme diverse, era in quegli anni tuttavia resuscitato» (C. Rodotà, Storia della Corte Costituzionale, Laterza, Roma Bari, 1999, p. 31). Più dubbioso si mostrò Gustavo Zagrebelsky, ma anch’egli, in conclusione rilevò che sotto il vigore della VII disposizione transitoria e finale della Costituzione (che attribuiva ai giudici ordinari il controllo di costituzionalità sino a che non fosse entrata in vigore la Corte costituzionale) i giudici si erano mostrati più che timidi nell’opera di demolizione della legislazione fascista e che nelle condizioni di allora la decisione della corte consentì all’unico organo in quel momento idoneo (la corte appunto) di iniziare a far ciò che i giudici, in tanti anni, pur potendo, non avevano fatto (G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Il Mulino, 1977, p. 335). 

Da allora, una nuova strumentazione ermeneutica si è consolidata: l’obbligo di interpretazione conforme, che da sola sollecita il giudice a fornire una interpretazione della legge che sia aderente al dettato costituzionale; il giudizio di ragionevolezza della norma in confronto a un tertium comparationis, l’estensione del giudizio di ragionevolezza quale criterio conformativo di ogni parametro costituzionale, il giudizio di adeguatezza dei mezzi rispetto al fine, il bilanciamento tra gli interessi e i valori in gioco, l’attrazione nel giudizio di legittimità costituzionale delle fonti sovranazionali, ex art. 11 e 117 Cost.: tutti criteri che «non sono riducibili alla razionalità sillogistico deduttiva di tipo matematico, alla quale per lungo si è tentato di ricondurre la funzione giurisdizionale nella tradizione di civil law» (M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma 12 novembre 2013).

Ce ne sarà bisogno di questa cassetta degli attrezzi, in questi tempi di autoritarismo strisciante; c’è una sinistra analogia tra le fattispecie allora sanzionate dal T.U.L.P.S. e gli odierni eccessi di zelo che portano a identificare che stende striscioni che commemorano la Resistenza. 

Resta che la cancel culture, che ha toccato Azzariti nella proposta di rimuovere il suo busto dal Palazzo della Consulta, non coglie la complessità della storia e delle vicende umane che in essa si iscrivono; non coglie in particolare quando e come la responsabilità individuale diviene paradigmatica dell’atteggiamento di un intero ceto di giuristi.    

16/05/2025
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