Magistratura democratica
giustizia internazionale

Kosovo, ‘Kleçka case’: un processo, tre sentenze e alcune questioni

di Francesco Florit
Giudice del tribunale di Udine
Una recente assoluzione in un caso di crimini di guerra giudicato dalle corti ibride (composte da giudici europei e giudici locali) in Kosovo
Kosovo, ‘Kleçka case’: un processo, tre sentenze e alcune questioni

Si è recentemente concluso a Pristina (Repubblica del Kosovo) con la assoluzione di tutti gli imputati il processo per il c.d. ‘Kleçka case’, nel quale diversi soldati e comandanti del Fronte di Liberazione del Kosovo (KLA) erano chiamati a rispondere di crimini di guerra in violazione dell’art.3 della Convenzione di Ginevra del 1949.

Il KLA (Kosovo Liberation Army) era il movimento armato che aveva iniziatonel 1997 la guerriglia contro il regime di Milosevic per conseguire l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia; nella primavera del 1999 la sua azione aveva accompagnato, con operazioni militari sul terreno, l’intervento aereo della Nato contro il regime di Belgrado e contro la presenza dell’esercito e della polizia Serba in Kosovo.

Tra gli imputati spiccava la figura di Fatmir Limaj, ex combattente divenuto in seguito Ministro dei Trasporti del Governo di Pristina.

Il processo, iniziato l’11 Novembre del 2011, ha costituito un test di maturità della giovane Repubblica del Kosovo, delle sue istituzioni e della loro capacità di rispettare i principi, spesso invocati ma meno frequentemente applicati, della rule of law ed in particolare della capacità di rispettare l’indipendenza dei giudici e le loro decisioni. Un test tanto più difficile se si considera che l’opinione pubblica in larga maggioranza interpretava la vicenda giudiziaria come un attacco ai valori della lotta di indipendenza ed ai suoi eroi.

Il processo, svoltosi davanti ad una corte composta da un giudice locale e da due giudici internazionali della Missione EULEX (lanciata dall’UE e presente in Kosovo fin dal 2008) presenta diversi aspetti interessanti anche per il giurista nostrano.

L’indictment (richiesta di rinvio a giudizio) prevedeva accuse per war crimes asseritamente commessi nel villaggio di Kleçka, ove il KLA gestiva un centro di detenzione in cui erano rinchiusi militari e poliziotti serbi nonché collaborazionisti (o sospettati tali) albanesi. Le condotte, incriminate in base agli articoli 142 e 144 del codice penale vigente all’epoca dei fatti (codice penale post-yugoslavo, CCSFRY) che fa riferimento a violazioni dell’articolo 3 della convenzione di Ginevra del 1949nonché dei Protocolli Addizionali, includevano la tortura, i maltrattamenti e l’omicidio di numerosi Prigionieri di Guerra Serbi, commessi negli ultimi mesi del conflitto (Marzo – Giugno 1999).

L’intera costruzione accusatoria era basata sulla testimonianza di un veterano pentito divenuto ‘cooperative witness’ nel corso dell’investigazione.

La procedura penale kosovara dell’epoca (KCCP – Kosovo Code of Criminal Procedure) prevedeva (art.298 e seguenti) che un indagato o un imputato potessero acquisire lo status di cooperative witness (e quindi essere chiamato a testimoniare nei confronti di altri indagati) se il giudice per le indagini preliminari avesse accolto l’istanza in tal senso del pubblico ministero.

In cambio della collaborazione con il Pubblico Ministero, al cooperative witness viene garantita l’immunità dal procedimento per reati punibili con pene fino a dieci anni di reclusione. L’ordine del giudice che definisce i termini della collaborazione è sempre revocabile nel caso in cui il teste ritratti o deponga il falso al dibattimento.

Al cooperative witness può essere poi garantita protezione di diverso grado (dall’anonimato alla scorta, all’espatrio). Nel caso di specie il testimone fondamentale dell’accusa (denominato ‘Witness X’) era stato evacuato su sua richiesta in Germania, dove vivevano alcuni suoi familiari ma, giunto colà, dopo alcuni mesi aveva commesso suicidio, prima ancora che il processo avesse inizio.

Il processo era quindi nato monco, mancando il principale teste d’accusa, di cui rimanevano soltanto i verbali delle numerose deposizioni rese al p.m. oltre ad alcune pagine di diari manoscritti.

In primo grado, il processo si è arenato sulla questione della ammissibilità delle deposizioni testimoniali rese dal Witness X al Procuratore nel corso delle indagini.

Il trial panel (un giudice kosovaro, uno americano ed il presiding judge inglese) ha esaminato nel corso di ben 15 udienze (!) gli argomenti dei difensori (tra i quali, per Fatmir Limaj, Mr.Khan, QC, già difensore di Taylor di fronte allo Special Tribunal for Sierra Leone) e del Prosecutor (l’italiano Maurizio Salustro) sulla ammissibilità dell’evidence ed in particolare delle deposizioni rese dal cooperative witness defunto e dei suoi diari.

Durante la fase delle indagini il teste era stato esaminato nel corso di 12 sessioni dal Procuratore il quale, sempre nel corso delle indagini preliminari, aveva effettuato una ampia discovery delle dichiarazioni e dei fogli dei diari ai difensori degli indagati.

Il Pubblico ministero aveva quindi invitato i difensori a tre distinte sessioni nel corso delle quali essi avrebbero potuto fare domande al teste. I difensori avevano rivolto al cooperative witness oltre 1.000 domande; 86 pagine di verbale erano state riempite; le sessioni erano state video-registrate.

La decisione del trial panel, pronunciata il 21 Marzo del 2012, aveva dichiarato inammissibili in evidence tanto le deposizioni quanto i diari, in base all’art.156.2 del codice di procedura che recita: ‘La deposizione di un testimone alla polizia o al procuratore può costituire prova ammissibile in corte solo quando l’imputato o il difensore hanno avuto l’opportunità di confrontarla (challenging) durante una qualche fase del procedimento penale’.

Con una motivazione tipicamente da ‘common lawyers’ la Corte era giunta alla conclusione che la semplice possibilità offerta ai difensori di porre domande al teste nel corso dell’investigazione non soddisfaceva lo standard della norma. Richiamandosi ad arresti della ECtHR la Corte aveva affermato che ‘opportunity to challenge’ era una espressione ‘che deve essere riempita di contenuto dal Giudice’, in relazione alla complessità del caso, lo stato del testimone quale ‘co-perpetrator’, la unicità del testimone d’accusa e la assenza di ‘corroborating evidence’ nonché la circostanza che il teste fosse morto.

In altre parole, ‘on a case-by-case basis’, i requisiti per soddisfare lo standard normativo sarebbero flessibili e di intensità variabile. E nel caso di specie, con l’unico teste d’accusa deceduto e l’assenza di prove a riscontro, lo standard della ‘opportunità’ non potrebbe essere inferiore ad ‘as much as a full cross-examination as would occur at the main trial’.

Con la decisione del 21 Marzo, che dichiarava inammissibile quasi tutto il complesso probatorio predisposto dal Pubblico Ministero (dato che il cooperative witness, oramai deceduto, non poteva più rinnovare le proprie dichiarazioni in Corte), la Corte poneva una pietra tombale sull’accusa.

In effetti, il Prosecutor rinunciava ad ulteriori istanze istruttorie ed il processo si avviava ad una rapida discussione finale. Seguiva la decisione conclusiva del processo, con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Il Pubblico Ministero ha presentato appello, che è stato deciso da un collegio della Corte Suprema del Kosovo composta da due giudici tedeschi, un finlandese e due kosovari.

La sentenza d’appello, pronunciata il 20 Novembre 2012, ha ribaltato al decisione del primo grado ed ha ordinato il re-trial.

Criticando piuttosto aspramente la decisione di primo grado ‘per aver messo il carro davanti ai buoi’, la Corte ha osservato che il ragionamento seguito dalla prima Corte finiva per confondere ammissibilità con rilevanza della prova o quanto meno a fondere i due concetti; ha negato inoltre che lo standard richiesto dall’art.156.2 KCCP per l’ammissibilità come evidence delle dichiarazioni rese dal teste al pubblico ministero (opportunity to challenge) possa giungere a unacross-examination piena.

Su tali premesse, il processo ricominciava davanti ad un nuovo collegio della Corte Distrettuale di Pristina. Prevedibilmente, una volta ammesse ‘in evidence’ le prove richieste dal Procuratore (le dichiarazioni rese dal witness X ed i suoi diari), il processo si è avviato rapidamente verso la discussione e la decisione.

Ancora una volta, tutti gli imputati sono stati assolti da tutte le accuse (sentenza del 17 Settembre 2013).

Le motivazioni della decisione non sono ancora state pubblicate, ma non è difficile comprendere che, pur superata la soglia della ammissibilità, il Collegio giudicante deve aver ritenuto non sufficiente per la condanna, per così gravi accuse, le deposizioni rese da un testimone che non c’è più, anche se esaminato dai difensori degli imputati prima del processo. 

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La vicenda suggerisce alcune considerazioni.

L’establishment kosovaro (Governo, in primo luogo) ha espresso soddisfazione per le due sentenze assolutorie, ma prima e durante il processo ha espresso fiducia nelle istituzioni giudiziarie (dichiarazioni del Ministro della Giustizia Hajredin Kuçi). È probabile che la presenza di giudici della Missione dell’UE (EULEX) nei collegi giudicanti abbia suggerito ai politici locali prudenza nei commenti; tuttavia è un segnale importante di maturità e di progresso verso unvero sistema di diritto, in un Paese dove, fino a pochi anni fa non era sconosciuta la c.d. ‘telephone justice’

Il processo Kleçka è sicuramente uno dei più rilevanti processi per war crimes in Kosovo, per il rilievo delle accuse ed il ruolo pubblico dell’imputato principale (l’ex Ministro Fatmir Limaj). La sua conclusione assolutoria, nonostante gli sforzi profusi dalla Pubblica accusa, può rappresentare un punto di svolta nella vita giudiziaria in Kosovo, per processi per crimini di guerra. Su tale aspetto mi riservo di ritornare in un prossimo intervento.

La Pubblica Accusa non è immune da critiche. Certamente non gli si può addebitare il suicidio dell’unico testimone, come certa stampa locale ha fatto. Tuttavia, conoscendo la realtà kosovara, in cui l’intimidazione di testimoni o addirittura l’uccisione di testimoni non è pratica infrequente, non si può dire che fosse del tutto imprevedibile, durante le indagini, il sopravvenire di circostanze che rendessero irripetibile l’assunzione della testimonianza. Il Pubblico Ministero ha dimostrato di esserne consapevole quando ha consentito ai difensori di esaminare il testimone, prima del processo. Ma tale pratica non è prevista dal codice (che consente al Pubblico Ministero di invitare gli imputati, i loro difensori o le persone offese all’esame dell’imputato condotto dallo stesso Pubblico Ministero - art.237.4 KCCP - ma non prevede che questi rivolgano domande al teste). Il codice invece prevede all’articolo 238 KCCP un meccanismo sostanzialmente analogo all’incidente probatorio quando vi sia ‘un significativo pericolo che la (fonte di) prova non sia successivamente disponibile al dibattimento’. Certo, il suicidio non era immediatamente prevedibile, ma dopo anni di investigazioni, con documentate minacce al teste, con la richiesta del teste di espatriare in Germania, la prudenza investigativa avrebbe dovuto suggerire il ricorso allo strumento processuale atto alla formazione anticipata della prova.

Infine, il processo dimostra che, al di là della regola scritta, i giudici portano nella pratica molta della cultura giuridica del Paese di provenienza. Solo così si spiega la straordinaria rilevanza ed ampiezza (15 udienze) dedicate dai ‘common lawyers’ che formavano la maggioranza nel primo trial panel all’esame della questione dell’ammissibilità delle prove. Non che in Italia la questione della ammissibilità sia ignorata o trascurata. Ma generalmente il giudice, soprattutto penale, sarà propenso a valutare come ammissibili le prove, salvo poi valutarne la rilevanza e, successivamente, la credibilità. Nei sistemi anglosassoni, in cui dominano le exclusionary rules, dirette ad escludere prove acquisite in violazione di diritti fondamentali dell’individuo ed evitare di sottomettere alla giuria questioni che mescolerebbero fatto e diritto, il tema ha tutt’altra importanza. E non a caso il trial panel ha ‘mescolato’ ammissibilità con rilevanza (secondo la critica mossa dalla Corte Suprema): le exclusionary rules sono judge-made law, risalente all’inizio del secolo passato. In precedenza lo standard era che ‘qualsiasi prova era ammissibile nel processo se il giudice considerava la prova come rilevante’. Con una regola del genere, la promiscuità tra le due categorie pare inevitabile.

 

08/11/2013
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