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Il d.d.l. 2021 sulla concorrenza. Una privatizzazione annunciata

di Marco Manunta
già presidente di sezione del Tribunale di Milano

Il ddl sulla concorrenza ed il mercato, prevedendo la privatizzazione sistematica dei servizi di acqua potabile, trasporti e rifiuti, oltre a porsi in aperta violazione dell’esito dei referendum del 2011, finirebbe per piegare alla logica del profitto servizi essenziali pregiudicando diritti primari delle persone e delle comunità locali, che solo un’oculata gestione pubblica può garantire.

Sommario: 1. Il DDL concorrenza del Governo Draghi / 2. La quotazione in borsa dell’acqua / 3. La tutela della concorrenza / 4. Il contenuto del DDL / 5. Il contrasto con l’esito referendario del 2011 / 6. I profili di illegittimità costituzionale / 7. La proprietà delle reti / 8. I requisiti di un servizio pubblico essenziale / 9. Il DDL concorrenza è in linea con la disciplina comunitaria? / 10. Le prospettive e lo stato della democrazia in Italia 

 

1. Il DDL concorrenza del Governo Draghi

Il DDL sulla concorrenza e il mercato è un adempimento annuale ordinario del governo, in quanto previsto dell’art.47 della L. 99/1999: il disegno di legge, proposto dal Ministro dello sviluppo economico, previa consultazione della Conferenza Stato-regioni, viene approvato dal Consiglio dei Ministri e trasmesso al Parlamento per la discussione e l’approvazione.

L’intervento delineato dal DDL del dicembre 2021 è, però, del tutto “straordinario”. 

Infatti, richiamando la competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza, prevista dall’art. 117 lett. e) della Costituzione[1], il governo intende eliminare tutte le gestioni pubbliche dei servizi locali, espressamente ricomprendendo trasporti, rifiuti e acqua potabile. Servizi che, sottratti “finalmente” ai Comuni, verranno messi sul mercato. 

Ma non basta: il “mercato” verrà esteso anche alle reti idriche e a quelle del gas con la cessione ai privati anche di queste infrastrutture strategiche. 

Il tutto in un silenzio assordante del mondo politico e di tutti i partiti.

 

2. La quotazione in borsa dell’acqua

Il 7 dicembre del 2020, per la prima volta, l’acqua è stata quotata in borsa a Chicago. 

L’iniziativa è stata promossa dalla Black Rock, da molti definita il più potente fondo di investimento internazionale. Nel suo sito internet la Black Rock illustra i rendimenti crescenti (fino al 37,41% solo nel 2021) ottenuti dall’investimento su 50 società operanti nel settore idrico: il titolo all’uopo lanciato si chiama inequivocabilmente IH2O. Del resto, è ormai dato acquisito da molti anni che i profitti derivanti dalla gestione privata dell’acqua sono superiori a quelli del petrolio.

Ma Black Rock è ben conosciuta anche per altro: quasi paritariamente con l’altro fondo di investimento dominante, Vanguard, detiene il pacchetto di controllo delle maggiori case farmaceutiche mondiali[2], in particolare di quelle che producono i vaccini anti-Covid 2019. In pratica, i profitti ricavati dalla speculazione sull’acqua e quelli ottenuti dalle forniture di vaccini finiscono e finiranno a questi fondi di investimento per essere ripartiti fra i rispettivi azionisti. 

Quanto ai vaccini è appena il caso di ricordare che la sola Pfizer ha dichiarato a novembre che i suoi ricavi per il 2021, relativi al farmaco BNT162b2 (vaccino anti-covid 2019), avrebbero raggiunto i 36 miliardi di dollari (pari a 31 miliardi di euro), mentre nel luglio precedente la stima previsionale, sempre per il 2021 (e già rivista al rialzo), era di “soli” 33 miliardi di dollari[3].

Il governo è intervenuto esattamente un anno dopo la quotazione in borsa dell’acqua, varando il disegno di legge che apre agli investimenti speculativi privati il settore dei servizi pubblici locali.

Il contenuto del DDL si muove nel senso da lungo tempo auspicato dagli interessi finanziari internazionali e intende, prima di tutto, rimuovere l’ingombrante ostacolo costituito dai referendum del 2011.

Del resto, si tratta di un intervento “annunciato” da molto tempo: dieci anni fa, il 5 agosto 2011, nel pieno della crisi delle borse europee e con lo spread (differenziale tra i tassi sui titoli italiani e i bund tedeschi) giunto a livelli insostenibili, il governatore uscente della BCE, Jean Claude Trichet, e Mario Draghi (che sarebbe succeduto a Trichet di lì a poco), avevano inviato al governo Berlusconi una lettera riservata, dettando una serie di misure economico-finanziarie da assumere urgentemente e che, sebbene non fosse reso esplicito, costituivano la condizione per ottenere il sostegno della BCE stessa, attraverso l'acquisto massiccio di titoli di Stato italiani. Tra le misure “suggerite” era compresa la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali» con specifico richiamo alla «fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala». 

La successione temporale è importante: solo due mesi prima, nel giugno 2011, si erano tenuti i referendum, in particolare sui servizi pubblici locali, con i quali gli Italiani avevano espresso la netta contrarietà alla privatizzazione. Approfittando, però, del momento di grave crisi che aveva investito il nostro paese e ignorando l’esito dei referendum, fu proposta la privatizzazione sistematica. E non è un caso che uno degli autori di quella lettera riservata, quale odierno Presidente del Consiglio, riproponga oggi la stessa ricetta.

Dunque, acqua, salute, trasporti e rifiuti finiranno in mano alla speculazione finanziaria?

 

3. La tutela della concorrenza

La materia dei servizi pubblici locali, in quanto residuale (non ricompresa, cioè, né nella competenza esclusiva dello Stato, né in quella concorrente) è riservata in via esclusiva alle Regioni. Peraltro, come è noto, lo Stato può intervenire anche nelle materie di competenza regionale, valendosi della propria competenza esclusiva nelle cosiddette materie trasversali o materie-funzioni: ambiente, concorrenza e determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art.117 lett. e), s) ed m).

Il DDL reintroduce in modo sistematico un liberismo ampiamente “datato” e ispirato ancora a un luogo comune di “thatcheriana” memoria: “pubblico=inefficiente e antieconomico; privato=buono e bello”.

Questa appare la concezione sottesa alla privatizzazione integrale dei servizi locali e che, come si vedrà, è resa ancor più palese dalle misure di “sorveglianza speciale” riservate alle sole gestioni pubbliche superstiti.

L’art. 6 del DDL prevede la delega al governo stesso per provvedere entro sei mesi al «riordino della materia dei servizi pubblici locali», eventualmente adottando un apposito testo unico. 

Ma, come anticipato, più che di un “riordino” si tratta di un esproprio in danno degli enti territoriali: in nome dell’interesse pubblico si passano ai privati le gestioni dei servizi essenziali per le comunità.

Nell’esaltazione enfatica della privatizzazione, come ha osservato Attac Italia nel comunicato a firma di Marco Bersani, il testo del DDL giunge a proclamare che l’affidamento al mercato è necessario «per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini» (articolo 1). Non si vede come la gestione privata orientata al profitto, a differenza di quella pubblica, possa migliorare la “giustizia sociale”, tutelare meglio l’ambiente e, addirittura, garantire il diritto alla salute dei cittadini. In effetti, si può dire che tra le virtù salvifiche della privatizzazione sia stata omessa solo la pace nel mondo e poco altro. 

L’Associazione Articolo 21[4] censura, a sua volta, l’iniziativa governativa, rilevando che «l’esigenza di aprire il mercato dei servizi pubblici al capitale privato è una mera opzione ideologica che nulla ha a che vedere con il benessere dei cittadini e delle finanze pubbliche» e che «si perseguono vecchie opzioni ideologiche senza fare tesoro delle obiezioni che vengono dalla realtà ed in particolare dalla lezione che la pandemia ci ha impartito in ordine al valore della sanità pubblica ed all’esigenza di rafforzare tutti i presidi pubblici. E’ assurdo che, per la tutela della salute, la preoccupazione principale del ddl concorrenza sia quella di agevolare l’accesso all’accreditamento delle strutture sanitarie private, cioè di rafforzare il settore privato anziché quello pubblico».

In effetti, la gestione mercantile adottata sistematicamente in economia negli ultimi lustri e gli interventi anche economici imposti dalla pandemia hanno dimostrato chiaramente il fallimento della ricetta liberista, tra l’altro, riproposta proprio per i servizi più vicini ai cittadini: acqua, rifiuti e trasporti. 

Nei frangenti drammatici determinati dall’epidemia è stato unanimemente invocato l’intervento degli Stati, che hanno provveduto, essenzialmente con le strutture pubbliche, alla cura dei malati, alla profilassi e alla vaccinazione di massa; per non parlare degli ampi sussidi forniti alle imprese danneggiate dalla pandemia e dalle conseguenti misure restrittive. Ma il liberismo, momentaneamente messo da parte, è subito riaffiorato prepotentemente appena si è profilata l’uscita dalla fase acuta dei contagi.

La ragione vera della privatizzazione è quella di mettere a disposizione dei grandi interessi privati di investitori e speculatori finanziari il ricco mercato dei servizi pubblici locali. Se il Parlamento darà il via libera, il governo aprirà il più grande black friday delle ex municipalizzate. 

Nel 2024 si prevede, anzi, di poter “festeggiare” l’avvenuta liberalizzazione. 

Il 30 dicembre 2021, infatti, il Ministero degli Esteri ha proposto la candidatura dell’Italia ad ospitare, appunto nel 2024, la decima edizione del Forum Mondiale dell’Acqua. 

In una recente intervista[5] Emilio Molinari[6], impegnato da una vita a difesa dell’“acqua pubblica” e dei beni comuni, avverte: «Attenzione. Non è un Forum indetto dall’Onu o da qualche altro organismo sovranazionale: è un’iniziativa del Consiglio mondiale dell’Acqua, che è un organismo privato, privatissimo, con sede a Marsiglia, in Francia. È una lobby di aziende multinazionali dell’acqua, sostenuta da imprese come Veolia e Suez Lyonnais des eaux, presieduta da Loïc Fauchon, presidente di Eaux de Marseille, ovvero Veolia».

 

4. Il contenuto del DDL

Le previsioni più significative sono racchiuse nell’art. 6 del DDL.

La premessa è che la tutela della concorrenza in materia verrà esercitata nel rispetto «dei principi e dei criteri dettati dalla normativa europea e dalla legge statale»(lett. a).

Viene, poi, prevista la «separazione, a livello locale, tra le funzioni regolatorie e le funzioni di diretta gestione dei servizi» (lett. b) e la «razionalizzazione» per «l’ottimale organizzazione territoriale dei servizi pubblici locali», prevedendo «meccanismi di premialità che favoriscano l’aggregazione delle attività e delle gestioni».

Le previsioni certamente più invasive sono contenute nelle lett. da f) a i) dell’articolo 6 e riguardano il modello dell’autoproduzione, cioè, della gestione del servizio da parte dell’ente locale in forma diretta (in economia) o tramite un apposito ente pubblico (azienda speciale), ovvero, ancora, mediante una società, formalmente di diritto privato, ma integralmente controllata dallo stesso ente locale (in house).

Ai fini dell’affidamento del servizio in una di tali forme il DDL esige «una motivazione anticipata e qualificata, da parte dell’ente locale, per la scelta o la conferma del modello dell’autoproduzione…che dia conto delle ragioni che, sul piano economico e della qualità e dei costi dei servizi per gli utenti, giustificano il mancato ricorso al mercato». 

Cioè, la gestione pubblica di un servizio pubblico è di per sé gravemente sospetta e va severamente controllata. Così, l’ente locale che, malauguratamente, opterà per l’autoproduzione, dovrà passare anche sotto altre forche caudine: dovrà, in particolare, «trasmettere tempestivamente la decisione motivata di utilizzare il modello dell’autoproduzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato» e sarà assoggettato a «sistemi di monitoraggio dei costi ai fini del mantenimento degli equilibri di finanza pubblica e della tutela della concorrenza». Quanto a quest’ultimo aspetto, relativamente al servizio idrico o a quello di raccolta dei rifiuti, parlare di concorrenza è un vero fuor d’opera, perché si tratta di servizi che non possono essere gestiti se non in regime di monopolio: si tratta, cioè, dei più classici esempi di “monopoli naturali”. 

Il sistema di “sorveglianza speciale” predisposto a carico degli enti locali è, poi, ulteriormente inasprito anche riguardo alla revisione periodica, prevista a carico di tutti gli enti pubblici che possiedano partecipazioni in società (di diritto privato)[7], in quanto, per la gestione dei servizi locali, dovrà tenersi conto «anche delle ragioni che, sul piano economico e della qualità dei servizi, giustificano il mantenimento dell’autoproduzione anche in relazione ai risultati conseguiti nella gestione».

Naturalmente, ove il controllo affidato all’Autorità garante della concorrenza sulle motivazioni del mancato ricorso al mercato e sull’opportunità delle scelte dell’ente pubblico avesse esito negativo, il governo potrebbe valersi dei poteri sostitutivi, affidando la gestione del servizio al mercato mediante gara ad evidenza pubblica.

Per contro, rispetto alle gestioni affidate ai privati, non si applica alcuna delle misure di sorveglianza previste per le gestioni pubbliche, nemmeno se si rivelassero del tutto inefficienti e antieconomiche (salvo che l’ente affidante possa procedere alla revoca della concessione): una disparità di trattamento clamorosa e del tutto ingiustificabile data l’identità delle situazioni. 

L’asfissiante e penetrante controllo nei confronti della gestione pubblica è, dunque, palesemente diretto a costringere gli enti locali a passare la mano ai privati.

 

5. Il contrasto con l’esito referendario del 2011 

Il primo dato “politico” che risalta è l’antidemocraticità del DDL del governo, che intende reintrodurre una privatizzazione già clamorosamente bocciata con il voto. Il governo si è, infatti, assunto la grave responsabilità politica di andare contro la volontà espressa dai cittadini nella forma più tipica della partecipazione democratica diretta: il referendum.

Con l’articolo 23-bis del D.L. 112/2008 il governo Berlusconi aveva imposto l’affidamento ai privati dei servizi pubblici locali, ma con il referendum del 2011 la norma è stata abrogata con una maggioranza plebiscitaria.

Non potendo ignorare lo scoglio dell’opposizione democratica alla privatizzazione, si è preferito inserire la cosiddetta liberalizzazione in uno strumento normativo “ordinario” (l’intervento annuale dell’esecutivo in materia di concorrenza e mercato), in modo da suscitare il minor clamore possibile (cioè, il minor dibattito pubblico) ed ottenere il passaggio in Parlamento, sostanzialmente evitando una effettiva discussione: l’unanimismo, che si è ormai creato in relazione alle tante misure rientranti nel PNRR e/o, magari, il voto di fiducia sul provvedimento in blocco, dovrebbero servire allo scopo. In ogni caso, si intende approfittare della distrazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di informazione, costantemente impegnati a confrontarsi con la pandemia, con i richiami del vaccino o con il green-pass.

Nei referendum del 2011 in materia di servizi pubblici e, più specificamente, di acqua potabile la maggioranza schiacciante dei votanti[8], corrispondente alla maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, si è espressa in modo netto e assolutamente univoco: «no alla privatizzazione dei servizi pubblici» e «no al profitto sulla gestione dell’acqua». 

 Va, infatti, ricordato che, oltre al quesito sulla privatizzazione dei servizi locali in genere, era stato sottoposto al vaglio degli elettori anche il quesito sull’abrogazione della norma (il comma 1 dell’articolo 154 del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006), che prevedeva l’inserimento nella tariffa idrica della «adeguata remunerazione del capitale investito». Cioè, non solo è stata manifestata la contrarietà dei cittadini alla privatizzazione dei servizi locali, ma per l’acqua si è anche inteso chiaramente cancellare il profitto dalla relativa gestione: la strada della gestione privata, insomma, è stata completamente sbarrata. 

Ma, visto che gli epigoni di un liberismo anacronistico hanno trovato spazio nel governo e intendono sfidare la volontà popolare, è necessario far conoscere tutti gli aspetti critici del disegno di legge.

 

6. I profili di illegittimità costituzionale 

L’iniziativa dell’esecutivo è censurabile anche sotto l’aspetto giuridico, con particolare riferimento alla legittimità costituzionale.

Il decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 2011 n. 113 ha dichiarato l’abrogazione, «a seguito del referendum popolare, dell’articolo 23-bis del decreto legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, [...] in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica».

La Corte costituzionale ha ritenuto che le Camere conservano la potestà legislativa sulle norme estranee al quesito referendario, potendo «correggere, modificare o integrare la disciplina» risultante dall’esito abrogativo (cfr. Corte costituzionale, sentenza n.32/1993), ma sempre rispettando i «limiti del divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare».

Corollario di tale divieto è l’illegittimità anche dell’eventuale prolungamento, sia pure transitorio, degli effetti della norma abrogata in via referendaria: «Si deve qui richiamare la peculiare natura del referendum, quale atto-fonte dell'ordinamento. A differenza del legislatore che può correggere o addirittura disvolere quanto ha in precedenza statuito, il referendum manifesta una volontà definitiva e irripetibile» (Corte costituzionale, sentenza n.468/1990).

In sostanza, il legislatore non può riproporre, né formalmente, né sostanzialmente, le disposizioni abrogate dagli elettori con lo strumento referendario.

In una successiva pronuncia (sentenza n. 199/2012) la Corte si è pronunciato su un precedente specifico (la riproposizione di norme bocciate dal referendum qui in esame) e, dopo aver ribadito il «divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall'art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale», ha aggiunto che «un simile vincolo derivante dall'abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l'esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall'art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l'effetto utile».

La Corte ha riassunto la vicenda legislativa in questi termini: «A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell'avvenuta abrogazione dell'art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l'impugnato art. 4[9], il quale, nonostante sia intitolato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea», detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell'abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010».

La vicenda dell’odierno DDL è in pratica la “fotocopia” di quella affrontata dalla Corte con la sentenza n. 199/2012: anche oggi il governo tenta di riproporre nella sostanza e/o nella forma la stessa disciplina prevista dall’art. 23 bis del Decreto Ronchi; disciplina che è stata abrogata dai due referendum più volte ricordati. 

In particolare, procedendo al raffronto dell’art. 6 del DDL con l’art.23 bis del Decreto Ronchi (D.L. 112/2008 convertito con modifiche dalla L. 133/2008) emerge che:

- il DDL nel caso di autoproduzione del servizio, esige «una motivazione anticipata e qualificata, da parte dell’ente locale, per la scelta o la conferma del modello dell’autoproduzione…che dia conto delle ragioni che, sul piano economico e della qualità e dei costi dei servizi per gli utenti, giustificano il mancato ricorso al mercato»; l’articolo 23 bis del Decreto Ronchi, sempre in caso di opzione per la gestione pubblica, prevedeva che l’ente locale fosse tenuto a «dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità garante della concorrenza e del mercato». 

- la «previsione della separazione, a livello locale, tra le funzioni regolatorie e le funzioni di diretta gestione dei servizi», inserita nel DDL, riproduce totalmente, nella sostanza e pressoché pedissequamente nella forma, la lett. c) dell’art. 23 bis del Decreto Ronchi: «prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali»;

- del tutto analoga è, poi, l’estensione della stessa disciplina ai servizi pubblici locali in materia di rifiuti, trasporti, gas e acqua potabile.

Insomma, per usare le parole della stessa Corte costituzionale (sentenza n.199/2012), la normativa delineata dal DDL «è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria».

Emerge, dunque, chiaramente la violazione del principio costituzionale di immodificabilità delle norme in senso contrario all’esito referendario.

 

7. La proprietà delle reti

La privatizzazione totale perseguita dal governo si estende anche alle reti e agli impianti.

E’ forse opportuno premettere in proposito che il T.U. in materia ambientale all’art. 143 (proprietà delle infrastrutture) prevede che:

«1. Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge.

2. Spetta anche all'Autorità d'ambito la tutela dei beni di cui al comma 1, ai sensi dell'articolo 823, secondo comma, del codice civile».

Con grande disinvoltura il DDL concorrenza pone le premesse per la svendita ai privati delle infrastrutture costituenti il demanio degli enti locali (art. 42 della Costituzione e art. 824 del cod. civ.). In modo volutamente sintetico e criptico, infatti, l’art.6, alla lett. q), introduce la «revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente». 

La foglia di fico è la «valorizzazione della proprietà pubblica», ma la sostanza, presentata pudicamente come «riordino», è la cessione ai privati addirittura dell’intero patrimonio demaniale, creato dagli enti locali nel secolo scorso con fondi della collettività e destinato alla tutela della salute dei cittadini. 

L’anomalia più macroscopica, seconda solo alla svendita di beni demaniali in sé considerata, è che lo Stato non ha nessuna competenza a disporre di beni non propri, in quanto gli stessi rientrano nel demanio degli enti locali. Non può, infatti, invocare la competenza in materia di concorrenza semplicemente perché la concorrenza può essere prevista in relazione alla gestione del servizio (reso tramite i beni demaniali in questione), ma non in relazione alla proprietà delle strutture. 

Del resto, è un dato giuridico e di fatto che i servizi “a rete” possano essere affidati ai privati mantenendo pubblica la proprietà delle reti stesse, che vengono concesse in uso all’affidatario. E’ così, per esempio, per le ferrovie italiane: RFI (Rete Ferroviaria Italiana) è la società pubblica proprietaria delle strutture fisse (binari, stazioni), rete utilizzata e utilizzabile non solo dall’altra società pubblica (Trenitalia), ma anche da altri gestori ferroviari (quali Italo). Le autostrade appartengono al demanio dello Stato (art.822 cod. civ.) anche se la loro gestione è stata da lungo tempo affidata ai privati. Nello stesso senso (strutture di proprietà pubblica concesse in uso ai privati) è la disciplina europea nei settori in cui è intervenuta la “liberalizzazione”. In altri termini, anche se ci si vuole spingere alla privatizzazione estrema, la proprietà pubblica delle infrastrutture deve rimanere e rimane in mani pubbliche, perché non ha nulla a che fare con la concorrenza.

E anche su questo aspetto non c’è alcuna disciplina europea che richieda o imponga passaggi in mani private: l’articolo 345 TFUE[10] (ex articolo 295 del TCE) dichiara che «I trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri».

Anche per la distribuzione del gas naturale, settore che è già “liberalizzato”, il DDL vuole in tutti i modi “indurre” gli enti locali a cedere addirittura le reti e gli impianti di loro proprietà: all’articolo 4 lett. b) prevede, infatti, che «qualora un ente locale o una società patrimoniale delle reti, in occasione delle gare per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale intenda alienare le reti e gli impianti di distribuzione e di misura di sua titolarità, dette reti e impianti sono valutati secondo il valore industriale residuo calcolato in base alle linee guida adottate ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98». E’ chiaro che l’ente locale, dovendo passare ai privati la gestione del servizio, sarà fortemente tentato, se non costretto, a cedere anche le reti e gli impianti, se non altro per “fare cassa”.

Riguardo alla gestione privata di servizi essenziali va tenuto presente che la concessione ha generalmente durata dell’ordine di qualche decina di anni, anche in funzione di garantire gli investimenti necessari e il recupero dei relativi costi da parte del concessionario.

E’, quindi, facilmente intuibile che la via della privatizzazione è quasi senza ritorno, anche nel caso di gravissimi inadempienze e responsabilità del concessionario. 

Il caso delle concessioni autostradali italiane è troppo vivo e bruciante: non solo i concessionari non hanno eseguito le manutenzioni cui erano tenuti, ma hanno provocato una tragedia quale quella del “ponte Morandi” e hanno portato la rete a condizioni di degrado tali che a tutt’oggi il traffico veicolare è fortemente penalizzato e in alcuni casi bloccato, per la necessità di indifferibili interventi straordinari di ristrutturazione e manutenzione. Un tipico esempio del “privato è bello”. 

La stessa vicenda rende, poi, molto chiara la difficoltà di riprendere in mano pubbliche la gestione: nonostante la tragedia appena ricordata, attraverso l’acquisto delle partecipazioni azionarie, le autostrade in concessioni dovrebbero tornare in mano a una società a prevalente capitale pubblico, ma dietro corresponsione di un corrispettivo (da riversare a carico dei pedaggi e, quindi, degli utenti) di 9,3 miliardi di euro. Una buonuscita niente male per il concessionario, nonostante il crollo, i 43 morti e lo stato pietoso in cui sono state lasciate le infrastrutture[11].

 

8. I requisiti di un servizio pubblico essenziale

Un servizio essenziale come quello idrico ha caratteristiche e requisiti inderogabili e incompatibili con la gestione mercantile.

«Non si può dare valore all'acqua come si fa con altre materie prime scambiate», afferma Pedro Arrojo-Agudo[12], che aggiunge: «L'acqua appartiene a tutti ed è un bene pubblico. È strettamente legato a tutte le nostre vite e mezzi di sussistenza ed è una componente essenziale per la salute pubblica», sottolineando anche l'importanza dell’accesso all'acqua nella lotta contro la pandemia covid-19.

In linea con tali premesse sono anche i principi posti dal nostro ordinamento nazionale.

L’art. 1 della legge istitutiva del Servizio Idrico Integrato (L. n. 36/1994) afferma che:

«1 . Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà.
2 . Qualsiasi uso delle acque è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale.
3 . Gli usi delle acque sono indirizzati al risparmio e al rinnovo delle risorse».

E’, innanzitutto, indubbio - e nessuno ha il coraggio di contestarlo in linea di principio – che l’accesso all’acqua potabile costituisce uno dei fondamentali diritti umani, da garantire sull’intero pianeta agli esseri viventi. 

La questione diviene più spinosa quando si passa al “come” garantire l’accesso effettivo. 

Il discorso sul punto può allargarsi a dismisura, ma in questa sede è necessario limitarsi agli aspetti attinenti al nostro ordinamento, con particolare attenzione alle disposizioni che in concreto hanno dato attuazione ai principi generali. 

Infatti, a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo[13], che nell’art.25 enuncia il «diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere», per passare alla Costituzione italiana, che riconosce il diritto alla salute (art. 32) e per finire alla Carta di Nizza[14], che garantisce «un livello elevato di protezione della salute umana» (art. 35), nessuna delle Carte fondamentali menziona espressamente il diritto all’acqua.

Insomma, il diritto, soggettivamente e collettivamente inteso, certamente esiste, perché è addirittura il presupposto del diritto alla vita e alla salute, ma a livello dei massimi sistemi non si dice come attuarlo. 

La principale incongruenza è tra il riconoscimento del diritto universale di accesso e la regolazione in termini di diritto privato del rapporto fra gestore e utenti. Il servizio è, cioè, regolato come qualunque altro servizio commerciale e questo vuol dire che, in caso di mancato pagamento da parte dell’utente, il gestore, pubblico o privato, può sospendere l’erogazione.

Una volta tanto, però, dobbiamo dare atto che in Italia, anche per la presenza di movimenti per il diritto all’acqua, è stato fatto il passo decisivo in più ed è stata tradotta in pratica la determinazione dell’OMS sul quantitativo minimo giornaliero essenziale per la sopravvivenza. 

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 agosto 2016 (Disposizioni in materia di contenimento della morosità nel servizio idrico integrato) così si è espresso:

«Considerato che il quantitativo minimo di acqua vitale necessario al soddisfacimento dei bisogni essenziali alimentari, igienico sanitari e di tutela della salute è stabilito in 50 litri per abitante al giorno, tenendo conto che l'Organizzazione mondiale della sanità ha fissato tale quantitativo minimo vitale in 40 litri a persona al giorno nel documento della Division for sustainable development “Rio 2012 issue briefs-water”;
Considerato che alle utenze in documentate condizioni economiche disagiate il quantitativo minimo vitale deve essere garantito anche in caso di morosità […].
Decreta
Art. 3
Utenze morose non disalimentabili
1. In nessun caso è applicata la disalimentazione del servizio a:
a) gli utenti domestici residenti che versano in condizioni di documentato stato di disagio economico-sociale, come individuati dall'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico in coerenza con gli altri settori dalla stessa regolati, ai quali è in ogni caso garantito il quantitativo minimo vitale pari a 50 litri abitante giorno;
b) le utenze relative ad attività di servizio pubblico».

Questo è il provvedimento del Governo Renzi, che per la prima volta in Italia, sulla falsariga di quanto già attuato in Francia, ha enunciato il diritto a 50 litri a testa al giorno, anche in assenza di pagamento del corrispettivo del servizio.

Un provvedimento che ha molto agevolato il lavoro dei giudici: abbiamo avuto a disposizione un riconoscimento esplicito del diritto di accesso all’acqua, che ha semplificato l’intervento a tutela dei cittadini economicamente in difficoltà, soprattutto nei procedimenti d’urgenza. Per esempio, ha reso molto più agevole la motivazione dell’ordine di ripristino dell’utenza nei casi di abuso del locatore (che aveva disdetto la fornitura a lui intestata, ma a servizio dell’immobile locato, per ottenere un rapido “sfratto fai da te”); oppure ha consentito il rigetto dei ricorsi degli Amministratori di condominio, che nel caso di contatore unico condominiale intendevano sospendere la fornitura al condomino moroso (in applicazione dell’art.63, 3° comma, delle disposizioni di attuazione del cod. civ.)[15]

Certo, un riconoscimento di tale importanza dovrebbe rivestire una forma più consona: andrebbe con urgenza inserito in una legge formale, che offre maggiori garanzie di stabilità e di durata, rispetto a una norma secondaria (il decreto del presidente del consiglio dei ministri), revocabile in qualunque momento a discrezione del nuovo inquilino di palazzo Chigi. 

Nella gestione del servizio idrico, accanto ai diritti delle persone esistono altre priorità ineludibili, quali la tutela del patrimonio idrico e la solidarietà. 

Uno dei principi fondamentali, enunciati sia nella legge Galli (L. n. 36 del 1994, sopra citata), sia nel T.U. ambientale, riguarda il risparmio della risorsa.

Tra gli obiettivi specifici l’articolo 73 del T.U. pone il perseguimento di «usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, con priorità per quelle potabili» e il mantenimento della «capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici, nonché la capacità di sostenere comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate».

L’art. 95 dello stesso T.U. ribadisce, poi, chiaramente le esigenze di «tutela quantitativa della risorsa» prevedendo «una pianificazione delle utilizzazioni delle acque volta ad evitare ripercussioni sulla qualità delle stesse e a consentire un consumo idrico sostenibile».

Essenziale è anche «assicurare l'equilibrio del bilancio idrico come definito dalle Autorità di bacino, nel rispetto delle priorità stabilite dalla normativa vigente e tenendo conto dei fabbisogni, delle disponibilità, del minimo deflusso vitale, della capacità di ravvenamento della falda e delle destinazioni d'uso della risorsa compatibili con le relative caratteristiche qualitative e quantitative».

E’, dunque, evidente che un servizio pubblico essenziale, che deve assicurare l’accesso universale (a prescindere dal pagamento del corrispettivo), che deve assicurare il risparmio della risorsa primaria e che esige una gestione improntata al criterio della solidarietà anche generazionale (salvaguardare «le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale» – art.1 L. Galli sopra riportato) non può essere affidato al profitto, né può essere equiparato, in tutto e per tutto, a qualunque altro servizio gestito in forme e con finalità puramente mercantili. Solo una gestione pubblica oculata può garantire il risparmio idrico, mentre una gestione a fine di profitto sarà indotta a incentivare i consumi (più acqua “si vende”, più si guadagna). Chi amministra una gestione pubblica risponde ai cittadini, quanto meno al momento delle elezioni; chi amministra una società privata affidataria del servizio risponde solo agli azionisti in termini di profitto e di dividendi. La differenza non è di poco conto.

 

9. Il DDL concorrenza è in linea con la disciplina comunitaria?

Nel comunicato di presentazione del governo si afferma che: «Il Disegno di legge mira ad assicurare una maggiore qualità ed efficienza nell’erogazione dei servizi pubblici locali, prevedendo una serie di norme finalizzate a definire un quadro regolatorio maggiormente coerente con i principi del diritto europeo (…)».

Peraltro, la disciplina delineata non risponde neppure alla dichiarata esigenza di maggior coerenza «con i principi del diritto europeo».

Innanzitutto, va ricordato che l’art. 59 TFUE prevede che «per la liberalizzazione di un determinato servizio il Parlamento europeo e il Consiglio (…) stabiliscono direttive» e che non è stata approvata nessuna direttiva che imponga la liberalizzazione delineata dal DDL.

In particolare, la Direttiva Bolkenstein (Direttiva 2006/123/CE del Parlamento e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno)[16], pur premettendo che «una maggiore competitività del mercato dei servizi è essenziale per promuovere la crescita economica e creare posti di lavoro», pone un importante limite, affermando: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione» (punto 8 delle considerazioni in premessa).

L’art. 1 precisa, poi, che «La presente direttiva lascia impregiudicata la libertà, per gli Stati membri, di definire, in conformità del diritto comunitario, quali essi ritengano essere servizi d’interesse economico generale, in che modo tali servizi debbano essere organizzati e finanziati, in conformità delle regole sugli aiuti concessi dagli Stati, e a quali obblighi specifici essi debbano essere soggetti».

L’art.2 prevede espressamente (ed è proprio il caso dei servizi pubblici essenziali in regime di monopolio, quale il servizio idrico) che le disposizioni in materia di concorrenza nel mercato interno «non si applicano: […] c) ai servizi d'interesse economico generale assicurati alla collettività in regime di esclusiva da soggetti pubblici o da soggetti privati, ancorché scelti con procedura ad evidenza pubblica, che operino in luogo e sotto il controllo di un soggetto pubblico».

Del resto, il Parlamento europeo, contrastando la spinta liberista della Commissione, con la Risoluzione del 2000 sui servizi d’interesse generale, aveva già chiaramente espresso il proprio indirizzo, improntato al pieno rispetto dell’autonomia e dell’autodeterminazione delle comunità locali, affermando che: «la decisione su ciò che debba essere considerato servizio d’interesse generale e come debba essere gestito va innanzitutto presa a livello locale» e che «i cittadini europei devono ricevere servizi di qualità a prezzi accessibili e gratuitamente se lo richiedono le condizioni sociali» (punto 1.1 della Risoluzione).

La conclusione è, dunque, molto semplice: la normativa europea non prevede alcun obbligo di privatizzare i servizi di interesse economico generale (servizi pubblici locali) e lascia ampia facoltà agli Stati membri di regolare la materia come meglio credono, consentendo espressamente la gestione pubblica nelle varie forme previste, ivi compresa quella mediante una società di capitali di diritto privato, ma che presenti le caratteristiche, ormai consolidate, dell’in house providing.

Per alcuni aspetti, poi, la disciplina dettata dal DDL appare decisamente a rischio infrazione rispetto ai principi comunitari di tutela della concorrenza.

Come si è visto l’art.6 lett. b) introduce «meccanismi di premialità che favoriscano l’aggregazione delle attività e delle gestioni». 

Per favorire il raggiungimento di dimensioni industriali delle aziende affidatarie (eliminando le piccole gestioni ritenute inefficienti e antieconomiche) verranno, cioè, previsti incentivi per l’aggregazione di più gestori. Naturalmente, gli incentivi non possono che essere di ordine economico, riconoscendo nello specifico agevolazioni fiscali di vario tipo. Peraltro, un’iniziativa analoga assunta dallo Stato italiano è stata già sanzionata dalla Commissione europea nel 2002[17]

 

10. Le prospettive e lo stato della democrazia in Italia 

Un disegno di legge come quello descritto assomma in sé aspetti critici e illegittimi che è bene riassumere:

- ripropone un modello liberista già bocciato dalla crisi finanziaria del 2008;

- calpesta platealmente la volontà espressa dai cittadini in sede referendaria;

- viola il divieto costituzionale di riproporre norme abrogate in via referendaria;

- prevede una disciplina che non è affatto coerente con i principi dell’Unione europea;

- delinea misure, quale quella della premialità delle aggregazioni, che violano il divieto degli aiuti di Stato;

- privilegia e, anzi, impone la generalizzazione della gestione privata a scapito dei diritti universali di accesso a servizi pubblici essenziali;

- prevede addirittura la cessione ai privati di beni demaniali e di infrastrutture strategiche quali le reti di distribuzione degli acquedotti e del gas.

In una democrazia e, in particolare, nel nostro ordinamento ci si aspetterebbe che:

- il Parlamento bloccasse l’iniziativa del governo, quanto meno stralciando gli articoli 4 (vendita reti del gas) e 6 (privatizzazione dei servizi locali);

- in seconda battuta, il Presidente della Repubblica si valesse della facoltà di rinvio alle Camere per il riesame, attesa l’evidente incostituzionalità delle norme in violazione dell’esito dei referendum; 

- in assenza dei precedenti interventi, le Regioni impugnassero nuovamente il provvedimento innanzi alla Corte costituzionale.

Insomma, i filtri efficaci esistono e dovrebbero impedire il ripetersi di una vicenda legislativa poco edificante. 

Se, però, così non fosse, non resterebbe ai cittadini che riproporre il referendum.


 
[1] Art.117 della Costituzione come sostituito dalla revisione del titolo V approvata nel 2001 (Legge costituzionale n. 3).

[2] Sui fondi di investimento citati nel testo e sulle relative partecipazioni azionarie vedi Francesco Mercadante su Il Sole 24 Ore del 2/2/2021 e Joseph Mercola su Alessandria Oggi del 22/6/2021.

[3] Sul punto, v. Marco Manunta e Michela Bianchi, Senza brevetto per vaccini, farmaci e piante, di MC Editrice, Milano 2021.

[4] Articolo 21, liberi di… è un’associazione che dal 2002 riunisce esponenti del mondo della comunicazione, della cultura e dello spettacolo; giornalisti, giuristi ed economisti che intendono promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero, previsto appunto dall’art. 21 della Costituzione.

[5] Vedi Il Fatto Quotidiano del 23/01/2022, Fermare i signori dell’acqua.

[6] Presidente emerito del Comitato per un Contratto mondiale sull’Acqua e vicepresidente dell’Associazione Laudato si'; eletto al Parlamento europeo nel 1984 e al Senato nel 1992.

[7] Si tratta della revisione periodica di cui all’articolo 20 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica).

[8] Si sono espressi per l’abrogazione delle due norme oltre il 96% dei votanti.

[9] La norma impugnata dalle Regioni era l’art.4 del decreto legge 13/08/2011 n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14/09/2011 n. 148. Il decreto legge era opera dello stesso governo Berlusconi, che nel 2008 aveva varato il “decreto Ronchi”, abrogato dalla pronuncia referendaria.

[10] Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

[11] Dopo il clamore seguito al disastro, solo Il Fatto Quotidiano dell’11.1.2022 ha dato notizia di come si sta chiudendo la vicenda: una società posseduta per il 51% da CDP (Cassa Depositi e Prestiti) e per il 49% dai fondi d’investimento Blackstone e Macquarie, acquisterà Aspi (Autostrade per l’Italia) da Atlantia (controllata dai Benetton), valutandola 9,3 miliardi. I gravi inadempimenti che hanno portato al disastro del ponte Morandi sarebbero stati tradotti in “oneri compensativi” per 3,4 miliardi. Oneri che, però, graveranno sui bilanci di Autostrade dopo che sarà passata in mano ai nuovi azionisti (Cdp e fondi) e non graveranno sulla gestione Atlantia. In realtà Aspi sotto la gestione di Atlantia si è limitata a farsi carico solo di 580 milioni di euro per la ricostruzione del ponte. La Corte dei conti ha, peraltro e giustamente, sollevato obiezioni. Ad oggi (febbraio 2022) si attendono gli ultimi sviluppi.

[12] Pedro Arrojo-Agudo (Spagna) è il Relatore speciale sui diritti umani per l'acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sicuri,  nominato nel settembre 2020. È professore emerito di analisi economica presso l'Università di Saragozza e in precedenza è stato eletto membro del parlamento spagnolo. I Relatori Speciali, Esperti Indipendenti e Gruppi di Lavoro fanno parte delle c.d.  Procedure Speciali  del Consiglio dei Diritti Umani. Lavorano a titolo individuale, su base volontaria, non sono dipendenti delle Nazioni Unite e non ricevono compensi per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione.

[13] Approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

[14] Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000.

[15] Per approfondimenti v. Marco Manunta, Acqua. Se ci chiudono il rubinetto, MC Editrice, Milano 2016.

[16] La Direttiva è stata attuata in Italia con il Decreto Legislativo 26 marzo 2010, n. 59.

[17] 2003/193/CE: Decisione della Commissione, del 5 giugno 2002, relativa all'aiuto di Stato relativo alle esenzioni fiscali e prestiti agevolati concessi dall'Italia in favore di imprese di servizi pubblici a prevalente capitale pubblico per il trasferimento di attivi connesso alla trasformazione di aziende speciali e di aziende municipalizzate in società per azioni create in virtù della legge 142/90 e della legge 498/92. Per le aggregazioni la ratio, che rende illegittime le misure premiali, è assolutamente analoga a quella sanzionata, anche perché prelude ed è funzionale alla trasformazione in società di capitali quotate in borsa.

19/02/2022
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