Magistratura democratica
Magistratura e società

Giustizia in crisi (salvo intese). Leggi, giudici, processi e carcere di fronte alla pandemia

di Paola Perrone
già presidente di Sezione della Corte d’appello di Torino

La recensione al volume di Giovanni Maria Flick, edito da Baldini & Castoldi (2020).

«In una gelida giornata di inverno, due porcospini pieni di freddo si strinsero l’uno all’altro per riscaldarsi. Ma si accorsero di pungersi reciprocamente con gli aculei; allora si separarono e, così, sentirono freddo. Prova e riprova, i porcospini riuscirono a trovare quella giusta distanza che consentiva loro di scambiarsi un po’ di calore senza pungersi troppo».

 

Con questa metafora della vita sociale di Arthur Schopenhauer, Giovanni Maria Flick si accomiata dal suo lettore, spiegando di aver informato tutta la sua vita professionale -e anche questo bel libro- al metodo adottato dai saggi porcospini. 

Ma in realtà, dalla lettura di questa opera non emerge solo una pragmatica capacità di rimanere saldamente ancorato al principio di realtà. Vi si coglie una straordinaria capacità di individuare e di affrontare i problemi attuali della giustizia. 

E diversamente non avrebbe potuto essere se solo si tiene conto dell’esperienza professionale di Flick: dapprima magistrato (p.m. e giudice), lascia la magistratura per dedicarsi alla professione di avvocato e docente universitario; viene chiamato dal suo compagno di studi universitari Romano Prodi a ricoprire il ruolo di Ministro della Giustizia; infine, viene nominato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Campi giudice della Corte costituzionale e ne diviene pure Presidente. 

Si stenta a pensare ad una storia professionale più ricca e varia, capace di sviluppare maggiori capacità di guardare alla realtà da tanti punti di visuale diversi. Flick applica questa sua sensibilità nell’osservare il pianeta giustizia (ed in particolare la giustizia penale che ha sempre studiato). Ne emerge un libro che è una analisi sempre fedele dei nodi cruciali che oggi caratterizzano il funzionamento del sistema penale, una rassegna condotta con un piglio privo di impostazioni ideologiche o corporative.  

Oggi, a 80 anni, Flick si volge indietro e attinge alle esperienze fatte per interpretare l’attualità, che gli appare contrassegnata da una profonda crisi. 

Con una scrittura piana e comprensibile ai più, individua le cause di tale crisi in ognuno dei segmenti che compongono la giustizia penale: legge, giudici, processo, pena e reato. E per ciascuno di essi individua analiticamente i momenti di frizione, tentando delle possibili soluzioni.

La legge non è più la regola chiara dettata per essere applicata al caso singolo; con la stratificazione delle fonti normative attraverso le sentenze delle Corti europee, che si sono sommate alle pronunce della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, arduo si è fatto il compito del giudice e dell’avvocato, perché la legge è diventata essa stessa materia da ricostruire con difficili interpretazioni sistematiche. La lunghezza dei procedimenti poi è sotto gli occhi di tutti e si interseca con l’incertezza sostanziale della legge per restituire un processo in cui non è prevedibile né la decisione di merito né il tempo in cui essa verrà resa. 

A far traballare ulteriormente la certezza nella legge stanno poi i problemi interni alla funzionalità e rappresentatività del parlamento, il crescente attivismo della Corte costituzionale, della Cassazione e dei giudici di merito nell’interpretare la legge alla luce della Costituzione, la crescente tendenza dei giudici a riempire gli spazi vuoti nella normazione. La contrapposizione fra potere esecutivo (tutto votato all’efficienza) e quello della magistratura (interessato piuttosto all’affermazione di valori) porta a sua volta, secondo Flick, a rafforzare la produzione di leggi compromissorie, incomprensibili, ambigue ed aperte ad ogni interpretazione. 

Da qui una crescente sfiducia verso l’apparato normativo dello Stato.

I recenti scandali emersi nel Consiglio superiore, con conciliabili notturni fra magistrati e politici finalizzati a individuare i vincitori di concorsi ai vertici di alcune procure strategiche, vengono portati da Flick ad esempio di come anche le condotte delle persone che svolgono il loro ruolo nel processo penale si siano imbarbarite pesantemente. Con piglio anche qui analitico, Flick individua i tre centri concentrici in cui fluisce la responsabilità del magistrato: deontologico, disciplinare e penale. A chi rivendica la bontà del confronto fra politica e giustizia, Flick controbatte che nei recenti casi non certo di "alta" politica si è trattato, visto che le procure strategiche venivano decise nottetempo e clandestinamente. E aggiunge che non di proficuo confronto politica/giustizia si può oggi parlare, visti i casi frequenti di "porte girevoli", con magistrati diventati parlamentari e poi tornati alla loro funzione. E’ pur vero che i recenti scandali sono stati scoperti grazie al trojan, mezzo di indagine fra i più invasivi e ai limiti della tensione con i principi costituzionali; sta di fatto che oggi noi abbiamo del materiale probatorio che non può che far scandalizzare. 

A chi rivendica i meriti dell’associazionismo della magistratura (qui non in discussione), contrappone i suoi frutti avvelenati di oggi: la degenerazione correntizia (che ha portato ad una relazione incestuosa con la politica), i veri e propri giochi di potere (in cui si inscrivono le nomine pilotate dei direttivi), infine i franchi traffici venali (corruzioni, calunnie, falsi). Da qui la necessità non di una blanda autoriforma ma di una novella legislativa dell’ordinamento giudiziario che vada in profondità. 

Venendo ai rimedi davanti a queste disfunzioni, Flick ritiene l’attuale corpo politico in grado di elaborare una riforma giusta ed efficace attraverso un metodo parlamentare trasparente e concreto; l’A. non si addentra fra le varie ipotesi di riforma ma giunge, a mali estremi, ad accettare anche un metodo elettivo al C.S.M. con un parziale sorteggio che superi lo scrutinio costituzionale. 

Il processo, dopo la sua riforma del 1989 di Giuliano Vassalli, ha subito varie modifiche che si sono stratificate, secondo Flick, in maniera disorganica e senza tener conto del quadro globale di sistema. Si va dall’aumento delle pene per alcuni reati per permettere le intercettazioni o evitare la prescrizione, ad una aspirazione al carcere come momento centrale del processo, in un’ottica di diritto penale del nemico.  Fino alla recente legge “spazza corrotti” (L. n.3 del 9.1.2019) che ha equiparato i delitti contro la P.A. ai quelli di mafia, con un’operazione, secondo Flick, non condivisibile posto che la mafia si caratterizza per l’esercizio della violenza, mentre alla base dei reati di corruzione vi è pur sempre un accordo benché illecito. Nella fase esecutiva della pena, l’accesso alle misure diverse dal carcere è precluso (per i delitti di mafia e di corruzione) se il condannato non coopera con l’autorità giudiziaria, il che è un’ulteriore forzatura securitaria. 

Fra le novelle al codice che maggiormente colpiscono sta la recente disciplina delle intercettazioni che di fatto, autorizzando l’utilizzo del materiale captato anche per reati diversi non avvinti per connessione a quelli per cui si procede, porta di fatto alla “pesca a strascico”, cioè al disinvolto uso di questo mezzo così invasivo per tutti i reati che casualmente emergano. Il tutto è ulteriormente aggravato dalla ormai piena legittimità del trojan, mezzo di un’invasività estrema che appare a Flick in rotta di collisione con i diritti fondamentali di cui all’art. 21 della Costituzione. La sensibilità sviluppata da Flick nei suoi diversi ruoli gli fa concludere che il conflitto fra diritti fondamentali dell’individuo e la repressione dei reati va superato solo in modo proporzionato, il che non appare avvenuto, specie nella “pesca a strascico” ove manca del tutto l’autorizzazione del giudice a utilizzare il mezzo di prova con riferimento al reato emerso per caso.

Anche la riforma della prescrizione, con suo congelamento dopo la sentenza di primo grado, sembra a Flick regola assoluta e indifferente, anche qui, alla proporzione che invece deve sostenere qualunque riforma. L’equilibrio fra oblio e memoria non è stato ricercato dal Legislatore, che ha preferito una regola tassativa che comporterà inevitabilmente un allungamento dei tempi del processo. Si è legiferato esplicitamente per contrastare i comportamenti dilatori di avvocati; dimenticando che la massima parte delle prescrizioni si verificano nella fase delle indagini, nella quale gli avvocati non hanno voce in capitolo.

Le recenti vicende dell’epidemia hanno acutizzato i problemi di affollamento del carcere, inducendo le autorità ad assumere regole drastiche per ciò che riguarda i contatti fra detenuti, e fra loro e i parenti, di fatto sommando alla sofferenza della pena quella ulteriore dell’isolamento. La crisi da coronavirus avrebbe potuto essere lo spunto per iniziare una riflessione seria sui penitenziari e invece essa è stata solo l’occasione per agire sulla base dell’emergenza senza progetti di lungo respiro. Eppure, nel precedente Governo si era dimostrata una rinnovata sensibilità verso il carcerario attraverso l’istituzione con legge delega della Commissione Giostra che avrebbe dovuto riscrivere ed integrare l’ordinamento penitenziario; purtroppo il risultato di quei lavori è stato fatto decadere non portandolo all’attenzione del Parlamento. Oblio e memoria si ripartiscono rispettivamente nel carcere (dove "mettere le persone in carcere e buttare la chiave" condannandole all’oblio) e nella prescrizione (dove invece dopo la sentenza di primo grado si assicura la memoria indefinita del reato).

Secondo Flick è l’intero istituto della pena a dover essere ripensato; non è pena solo la carcerazione; questa dovrebbe essere limitata ai violenti e pericolosi mentre per tutti gli altri condannati dovrebbero valere le misure alternative, in primis le confische e anche la responsabilizzazione che nasce dalla mediazione con le vittime del reato. Solo in questo modo si darebbe piena affermazione al principio costituzionale della rieducazione. Sicuramente per arrivarci sarebbe necessario un grande sforzo culturale. In secondo luogo il condannato non deve essere abbandonato a se stesso ma seguito con appoggi acconci. 

A coloro che si oppongono ad un tale sistema va ricordato che la recidiva nel reato di coloro che scontano in carcere la pena è molto più frequente rispetto a quella di coloro che hanno beneficiato delle misure alternative.

Chiudendo il libro e riflettendo sulla ampiezza di esperienza e profondità di elaborazione teorica dell’Autore, non possono non sorgere una riflessione un po’ nostalgica ed un sottile pessimismo. Se le articolate ed organiche riforme che Flick da Guardasigilli propose nel primo Governo Prodi del 1996 (il cosiddetto "pacchetto Flick") fossero andate in porto anziché arenarsi per il varo della Bicamerale, per la crisi del Gabinetto Prodi (e anche per le sottili opposizioni della corporazione dei magistrati), la storia della giustizia italiana sarebbe stata diversa. Ed oggi non assisteremmo ad una crisi così profonda. E nasce anche un certo pessimismo: se questa riforma organica non fu possibile allora, con un tale Guardasigilli ed in una fase politica caratterizzata da personalità di alto livello e dal sicuro slancio politico, come potrebbe oggi lo sforzo riformatore avere una prospettiva di successo?      

24/12/2020
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