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Magistratura e società

A Gaza, un museo delle nuvole

di Sandra Burchi
P.H. Doctor in History and Sociology of Modernity / University of Pisa

Chiuderà il 19 novembre la mostra Ce que la Palestine apporte au monde all’Institut du monde arabe (IMA) di Parigi diretto dall’ex ministro francese Jack Lang. 

Visitata in questi giorni la mostra rende le riflessioni che propone ancora più potenti e urgenti di quando è stata aperta lo scorso maggio quando nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo. 

Il filo della mostra è quello di una riflessione sull’idea di museo, riflessione molto in voga attualmente e che qui mostra tutta la sua necessità e la possibilità di un superamento.

L’idea di museo nazionale, ricorda il pannello che accoglie i visitatori, nasce con Napoleone Bonaparte ed è parte integrante di un’idea di Nazione. Riunire il patrimonio culturale di un Paese, portarlo allo sguardo del suo popolo, significa definire i contorni di un immaginario, disegnare altrimenti i confini di un territorio. Come può allora la Palestina avere uno spazio del genere? Come può, una nazione non riconosciuta, misurarsi con il regime della visibilità su cui si basa un museo e ritrovarsi in un sistema di immagini e di storie raccontate.

Nel 2016 a a Birzeit, in Cisgiordania, ha aperto il Museo Palestinese riunendo il materiale fotografico e audiovisivo dell’Unrwa, agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi. Dallo stesso anno, a Parigi, l’IMA ospita una «collezione solidale» composta di oltre quattrocento opere offerte dagli artisti di tutto il mondo e che nel progetto iniziale, di cui è difficile oggi intuire la sorte, avrebbero dovuto confluire in futuro a Gerusalemme est in un Museo nazionale d’arte moderna e contemporanea della Palestina. 

Ma non è questa la cosa che colpisce di più, questo riprodurre – in condizioni diverse – l’idea di Museo ereditata da Napoleone. È il Museo Sahab (delle nuvole, in arabo) progetto del collettivo Hawaf (“margini”) che in questi giorni più che mai racconta di un’intuizione che sfida i limiti della realtà e l’idea tragica di confine: un museo smaterializzato che protegga meglio delle mura il patrimonio archeologico, storico e artistico di un pezzo di terra a cui è negato il riconoscimento e a cui è prescritto l’isolamento. Françoise Verger, richiamata dai curatori, parla di questo progetto come di post-museo, un’istituzione che supera il modello tradizionale. Un progetto utopico, a crescita illimitata, sospeso tra i cieli di Gaza e Parigi, animato dai progetti promossi dal collettivo che chiede agli artisti di misurarsi con la storia e con il presente della Palestina. L’atelier delle nuvole, tenutosi a Gaza agli inizi del 2023, nella Galleria Eltiqa è stato animato da un gruppo di giovani street-artists, che ha portato nello spazio virtuale oggetti comuni, ricordi, opere d’arte donate al museo che saranno visibile da ogni parte del mondo e che nelle sale dell’Ima è rappresentato dalla tela di ispirata alla nuvola disegnata dall’artista palestinese Salman Nawati. Così nella nuvola, che i visitatori possono intercettare con il proprio smartphone, è già visibile una piccola collezione che riflette storie intime e collettive, oggetti insoliti, belli o curiosi che ricordano le Wunderkammern da cui sono nati i primi musei in Occidente.

Ma se quella del Museo Sahab è una meravigliosa via di fuga su cui costruire una storia guardando verso l’alto, il cielo delle nuvole, le sale dell’Ima tengono i visitatori incollati alle serie fotografiche di artisti impegnati a raccontare il quotidiano di chi vive negli spazi paradossali di una terra occupata. 

Mohamed Abusal, immagina, nel progetto Un métro à Gaza (2011) una linea di collegamento tra il nord e il sud del paese e una Rer che unisce i territori frammentati della Palestina. Grandi "M" illuminate, insegne tipiche dei metro, fissate in mezzo nelle strade e nelle piazze, vicino alle case, richiamano la curiosità dei passanti, lasciando immaginare una rete di trasporti moderna ed elaborata nel caos della striscia di Gaza. 

Maen Hammad in Landing (2020-2023) fotografa giovani impegnati nella disciplina del parkour, mostrando l’abilità di compiere con lo skateboard percorsi che sfidano qualsiasi ostacolo. Se questo è vero in ogni città, dove il parkour si misura con i tetti e le geometrie urbane, a Gaza i giovani si muovono tra gli edifici distrutti dalla guerra, le rovine, i resti delle bombe. Lo sguardo ravvicinato del fotografo, documenta come il praticare lo skateboard rappresenti per i giovani palestinesi – tra cui l’autore stesso – una forma radicale di resistenza alla violenza e di libertà.

Tanja Habjouqa in Occupied Pleasures (2014) mostra fotografie sospese in paesaggi tanto spogli da apparire irreali, ma abitati dai movimenti di ragazze in posizione yoga, famiglie al tavolo di un pic-nic, donne che visitano uno zoo o fanno esercizi in palestra tenendo l’hijāb. Momenti di piacere che giocano con il doppio senso di “essere occupati”, qualcosa che rimanda non solo all’occupazione di Israele ma alla capacità di tenersi occupati in piaceri che appaiono improbabili e al tempo stesso eroici. 

Girando per le sale si è accompagnati da una voce che declama un testo, la poesia di Mahmoud Darwish, Elogio dell'alta ombra, declamata da lui stesso davanti al parlamento palestinese in esilio ad Algeri, nel febbraio 1983.

È evidente che nell’intenzione dei curatori la mostra non aveva nessun tono vittimista, ma davanti alle immagini, in questi giorni, è molto difficile non sentire, forte, un nodo alla gola. 

11/11/2023
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