Magistratura democratica
cinema e letteratura

Ricordo di Francesco Rosi

di Guglielmo Siniscalchi
professore filosofia del diritto Università di Bari
Con i suoi film, attraverso un'opera di indubbia coerenza stilistica e narrativa e di grande passione civile, ha avuto il merito di scuotere le coscienze italiane
Ricordo di Francesco Rosi

Politici corrotti, gangster spietati, coraggiosi uomini di giustizia e banditi d’altri tempi: si respira tutta l’aria dell’Italia segreta della seconda metà del Novecento nel cinema di Francesco Rosi. Un’opera di indubbia coerenza stilistica e narrativa, di grande “passione civile”, come giustamente è stato sempre sottolineato da critici e storici della settima arte, “srotolata” lungo il perimetro di celluloide di una manciata di film che hanno avuto il merito di scuotere le assopite coscienze italiane meglio di inchieste giornalistiche ed indagini d’archivio.

Nato a Napoli 92 anni fa, Francesco Rosi impara il mestiere alla “corte” di Luchino Visconti ed esordisce giovanissimo dietro la macchina da presa nel 1958 con La Sfida e, l’anno successivo, ottiene il primo successo di pubblico e critica con I Magliari, storia di mafia ed immigrazione interpretata da un sorprendente Alberto Sordi in uno dei suoi rari ruoli drammatici.

Tanti i successi di pubblico ed i premi ottenuti poi nel prosieguo della carriera: dall’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1962 fino al Leone d’oro alla carriera ricevuto alla Mostra del cinema di Venezia nel 1992, passando ovviamente per l’invenzione di quel “genere” molto particolare battezzato “cinema d’inchiesta”, il percorso di Rosi è segnato dall’infaticabile attenzione verso i movimenti, soprattutto quelli “sotterranei”, della società italiana, alla ricerca di verità da rivelare, di poteri più o meno occulti da snidare, e di piccoli/grandi eroi da celebrare attraverso l’occhio della cinepresa.

Due le direzioni di queste “lezioni di Storia”: da un lato la tensione verso il reale testimoniata da uno stile documentaristico, poco incline ad accomodare lo sguardo dello spettatore, debitore di quel che rimane, a ridosso degli anni ’60, della tradizione rosselliniana e zavattiniana del “neorealismo”; dall’altro, la fascinazione tutta viscontiana per la messa in scena, la cura maniacale dei particolari, la verisimiglianza del set e la costruzione di architetture narrative dal ritmo avvolgente.

Un cinema dalla confezione ruvida ma elegante che, soprattutto per le sue indagini “giudiziarie”, potremmo sintetizzare seguendo le linee di tre film: innanzitutto, Salvatore Giuliano, prima grande inchiesta visiva diretta da Rosi nel 1962, una pellicola ad “incastri” che ripercorre le vicende ancora oscure della strage di Portella della Ginestra e della presunta partecipazione del bandito Giuliano e della sua banda.

Un film che oggi, anche grazie alla scoperta di nuovi documenti allora segretati, ha subito parecchi processi di “revisione”: prima è toccato alla pellicola di Paolo Benvenuti Segreti di Stato confutare la ricostruzione di Rosi, poi, di recente, il volume di Anton Giulio Mancino Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano (Kaplan, 2008) ha definitivamente ribaltato l’interpretazione del film suggerendo ipotesi politicamente e storicamente ben più complesse. Resta indubbio, però, il valore del lavoro di Rosi: Salvatore Giuliano inaugura un filone del cinema italiano che, negli anni seguenti, anche grazie all’opera di registi come Elio Petri e Damiano Damiani, regalerà tanti piccoli capolavori di indagine poliziesca ad un pubblico italiano inaspettatamente, e spesso suo malgrado, coinvolto in una ricerca della verità, non solo cinematografica.

Poi l’anno successivo Rosi dirige un altro film destinato a destare scalpore: Le mani sulla città (1963), prima grande inchiesta di celluloide sulla corruzione e la speculazione edilizia nell’Italia del boom economico.

Se con Salvatore Giuliano Rosi indaga la storia, seppur recente, con la pellicola successiva il regista colpisce al cuore la società italiana dell’epoca svelando il “lato oscuro”  di un modello di governance, diremmo oggi, alimentato dal “triste” connubio fra criminalità e classe politica dirigente.

Non solo: Le mani sulla città è anche un film che restituisce credenza nella forza del cinema, nella capacità delle immagini, quando sono “giuste”, di costituire uno sguardo collettivo, una coscienza popolare che possa far da argine, almeno simbolico, ai giochi segreti del potere. Ecco, in questo senso potremmo definire il cinema di Rosi come un gesto di “passione civile”: non solo per i temi e le tesi argomentati ma, anche e soprattutto, per la capacità di costruire un comune sentire, di risvegliare nel pubblico un senso critico che è anche una forma di partecipazione alla vita istituzionale di un Paese.

Infine, l’ultima tappa è segnata da Cadaveri eccellenti (1976), film che probabilmente chiude la grande stagione del cinema italiano d’impegno civile tornando ancora sui temi del legame fra politica e poteri occulti.

I toni però, questa volta, sono molto diversi, qui si respira un’aria malinconica e disillusa - basti vedere i funerei e magnifici titoli di testa girati nella cripta del Convento dei Cappuccini a Palermo -, ed il rigore assoluto della messa in scena sembra nascondere solo la futura marginalità dello sguardo cinematografico nella costruzione della società a venire. Siamo sul finire degli anni ’70, l’Italia ha appena attraversato la stagione del terrorismo, e nuovi spettri politici e mediatici si affacciano sulle macerie sociali di un Paese impaurito ed impoverito.

Non è uno dei migliori film di Rosi Cadaveri eccellenti, ma, fra le sue “pieghe” apparentemente immobili, possiede una disarmante luce profetica anche sui futuri rapporti fra politica e magistratura, sul declino delle istituzioni, e sulla fine dell’idea che il cinema possa costituire una forma di partecipazione al destino di una comunità. Dopo gli anni ’80 Rosi non tornerà più al suo cinema d’impegno civile, se non con film disincantati ed incerti - Tre fratelli (1981) o Dimenticare Palermo (1990) -, lasciando in eredità l’assordante silenzio di chi ha compreso che l’arte come ricerca della verità si è trasformata in un assurdo gioco di specchi; mentre la partecipazione “civile” è divenuta consenso e lo sguardo cinematografico solo la somma irrilevante di tanti occhi individuali rassegnati e consegnati al loro ruolo di inermi spettatori dello spettacolo del reale.

12/01/2015
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