Magistratura democratica
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Una legge delega che amplia le criticità del nostro sistema fiscale

di Maria Cecilia Guerra
professoressa ordinaria di scienza delle finanze nell'Università di Modena e Reggio Emilia

1. La legge delega per la riforma fiscale: uno sguardo di insieme

La legge delega per la riforma fiscale, approvata dal Parlamento all’inizio di agosto, è formalmente molto ambiziosa, in quanto: coinvolge il disegno di quasi tutti i tributi oggi esistenti; interviene sui procedimenti che governano gli adempimenti, l’accertamento, le sanzioni e il contenzioso; prevede la realizzazione di codici e Testi unici. Il tutto nel rispetto di principi generali e di principi volti alla revisione, in vista del suo rafforzamento, dello Statuto dei diritti del contribuente.

La delega affianca a principi direttivi estremamente generici, che possono portare a soluzioni attuative molto differenziate, poiché lasciano al legislatore delegato margini di discrezionalità tali da rendere difficile una valutazione del disegno complessivo del sistema tributario che ne emergerà, principi estremamente dettagliati su aspetti molto specifici. Quest’ultima caratteristica è stata accentuata dal passaggio parlamentare, che ha privilegiato l’approvazione di emendamenti su aspetti particolari, molto spesso finalizzati alla tutela di specifici interessi.

Totalmente assente è una valutazione complessiva circa le compatibilità finanziarie della riforma prospettata. Essa ha quindi potuto essere approvata solo in quanto contiene una norma finanziaria che dispone, come è d’uso ormai comune nelle leggi delega, che dalla sua attuazione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. In ragione di tale previsione, la relazione tecnica al provvedimento ripete, articolo per articolo, lo stesso formato: i criteri elencati non consentono di effettuare una puntuale valutazione in termini di gettito; questa sarà possibile solo in sede attuativa quando verranno specificate le scelte su aliquote, regimi e discipline relative ai singoli istituti; in quella sede eventuali effetti negativi dovranno trovare la propria copertura all’interno del medesimo provvedimento di attuazione.

 Ne consegue, ad esempio, che la prospettata graduale riduzione della principale imposta del nostro ordinamento, l’Irpef, dovrebbe essere compensata da incrementi in altre forme di prelievo, che però non vengono in alcun modo individuate, neppure in termini indicativi, con l’unica eccezione relativa alla revisione delle agevolazioni fiscali sempre in campo Irpef. Ma anche questa revisione, complice la corsa, compiuta dal Parlamento, ad ampliare le agevolazioni meritevoli di salvaguardia (famiglia, disabilità, casa, salute, istruzione, previdenza complementare, efficientamento energetico e antisismico, rigenerazione urbana, beni culturali, inserimento nel mercato del lavoro di giovani sotto i trent’anni), non sembra in grado di produrre un significativo recupero di gettito. 

Per questa ragione, come dichiarato recentemente anche dal viceministro Leo, nell’attuazione della delega si darà priorità alle parti relative alla riforma delle procedure, che non determinano oneri di finanza pubblica. Ed è altamente probabile che alcuni interventi onerosi verranno assunti con altri provvedimenti, in particolare con la legge di bilancio, e finanziati in disavanzo. 

L’esito possibile, ma non auspicabile, è il proliferare di interventi parziali, quando non temporanei, formalmente ispirati dagli obiettivi di lungo periodo della delega - largamente indefiniti, quando non irraggiungibili per problemi di copertura - da cui risulterà poi molto difficile tornare indietro, perché avranno recato vantaggi a singoli gruppi di contribuenti. Con l’effetto di vedere aumentare le iniquità del sistema, le sue inefficienze e la sua complessità. 

Totalmente esclusa dall’orizzonte della delega è invece una qualsiasi finalità redistributiva, che porti ad una ricomposizione del prelievo, dai cespiti più tassati a quelli che non lo sono affatto o lo sono in misura estremamente ridotta, dal prelievo sui redditi dei fattori produttivi al prelievo sulle rendite, sui consumi o sui patrimoni, passando inevitabilmente, in questo caso, per una revisione del catasto che lo renda uno strumento meno iniquo. 

Al contrario, l’approccio al disegno complessivo del sistema tributario è fortemente conservativo. Siamo cioè di fronte a una riforma che, nel suo complesso, non intende e non sarà quindi in grado di affrontare le profonde criticità del sistema in essere. Criticità che riguardando prioritariamente la sua irrazionalità e conseguente inefficienza e iniquità, ne mettono in discussione la stessa legittimazione agli occhi dei contribuenti, i quali vengono al contrario rassicurati, dai ripetuti condoni e da un atteggiamento assolutorio nei confronti dell’evasione fiscale, circa un loro diritto a sottrarsi a un regime descritto e percepito come ingiusto e vessatorio.

Per suffragare queste sintetiche valutazioni, in quanto segue si analizzeranno in maggior dettaglio due fra i temi affrontati dalla delega, caratterizzati da un più articolato contenuto direttivo: la tassazione dei redditi delle persone fisiche diverse da impresa e alcuni aspetti dei procedimenti di accertamento e riscossione.

 

2. L’imposizione sui redditi delle persone fisiche diverse da impresa

2.1. Erosione della base imponibile dell’Irpef e violazione del principio di equità orizzontale

La caratteristica centrale del sistema di prelievo sui redditi delle persone fisiche nel nostro paese è data dalla progressiva erosione della base imponibile dell’Irpef, e cioè dell’imposta che, per le sue originarie caratteristiche di progressività e generalità, doveva garantire un adeguato livello di gettito e una distribuzione dell’onere di imposta fra i contribuenti secondo criteri di equità. La progressività dell’imposta è infatti a garanzia del rispetto del principio di equità verticale, secondo cui chi ha un reddito più elevato è chiamato a concorrere al bene comune in misura più incisiva, mentre la sua generalità (onnicomprensività) ha il compito di garantire l’equità orizzontale, e cioè che, a parità di reddito e indipendentemente dalla categoria di appartenenza dello stesso, i cittadini siano chiamati a pagare la stessa imposta.

Già al momento della sua istituzione (con la riforma del 1973), questi principi hanno subito una violazione importante con la sottrazione dalla base imponibile dell’Irpef dei redditi di attività finanziaria, sottoposti a regimi sostitutivi, articolati su aliquote proporzionali differenziate per tipologia di investimento con un intervallo che attualmente varia dallo 0 al 26%. Nel corso del tempo si è poi assistito a un moltiplicarsi di tali regimi che sono stati via via estesi, con aliquote che variano fra il 5% e il 21%, non solo ad altre categorie di redditi di capitale, quali i redditi da locazione dei fabbricati ad uso abitativo, ma anche - attraverso l’introduzione di un regime forfetario ad aliquota piatta, progressivamente esteso fino ad un ammontare di ricavi pari a 85.000 euro - ai redditi di lavoro autonomo e piccola impresa (cosiddetta flat tax per gli autonomi), nonché ai premi di produzione, alle mance, ai proventi di lezione private. 

Senza dimenticare la totale esenzione riconosciuta alla rendita della prima casa, a un insieme delle componenti delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti definite come welfare aziendale, o come fringe benefit, a una molteplicità di redditi diversi, e, per quanto in via temporanea, sia a larga parte dei redditi agrari e dominicali sia alla componente incrementale dei redditi di lavoratori autonomi e piccole imprese non ricompresi nel regime forfetario di cui sopra. Non mancano infine tassazioni in somma fissa applicate per motivi di semplificazione, come nel caso dei proventi della raccolta non professionale di tartufi, nonché regimi agevolativi per varie forme di rimpatrio (rientro dei cervelli, regime fiscale per gli impatriati, flat tax per i pensionati esteri che trasferiscono la propria residenza in Italia).

Questo graduale smantellamento dell’imposta personale progressiva onnicomprensiva, ha lasciato di fatto il nostro sistema fiscale senza alcun modello razionale di riferimento. L’attuale eterogeneità di regimi e aliquote opera una distinzione di trattamento, priva di logica, non solo fra le diverse categorie di redditi, ma anche all’interno della medesima categoria. 

A fronte di questa situazione, all’esito del lavoro istruttorio compiuto dalle Commissioni finanze di Camera e Senato nella legislatura precedente, era emersa, come proposta di possibile razionalizzazione, l’introduzione di un sistema di tassazione duale. Questa proposta, che già nella relazione delle commissioni era di fatto smentita dai mille caveat aggiunti nella parte propositiva, era stata inizialmente assunta a fondamento del disegno di legge delega per la riforma fiscale proposta dal governo Draghi, che è stato poi approvato, da un solo lato del Parlamento, in una forma che ne abbandonava alcuni elementi cardine. 

Secondo il modello di tassazione duale i redditi vengono divisi in due diverse categorie. Una prima categoria ricomprende i redditi di lavoro e di pensione, che vengono assoggettati ad un prelievo personale e progressivo. La seconda categoria è invece costituita da tutte le altre forme di reddito, e cioè dai redditi di capitale, sia finanziario che immobiliare, che sono invece sottoposte a una tassazione proporzionale. Seguendo l’applicazione che ne hanno dato i paesi del nord Europa, l’aliquota proporzionale riservata ai redditi di capitale dovrebbe non solo essere unica (garantendo quindi l’omogeneità di tutti i redditi appartenenti alla categoria in questione) ma anche pari a quella minima dell’imposta personale sul reddito. I redditi delle società di capitali vengono considerati redditi di capitale e sono quindi tassati con un’aliquota societaria pari a quella applicata all’insieme di tutti gli altri redditi di capitale. Regole particolari vengono poi individuate per i redditi misti, di capitale e lavoro, quali i redditi delle imprese individuali e dei lavoratori autonomi, per attribuirli in parte all’una in parte all’altra delle due categorie individuate.

La ragione principale che, trent’anni fa, aveva spinto i paesi del nord Europa all’adozione di questo modello impositivo era data dalla volontà di tassare in modo più contenuto i redditi dei fattori più mobili, in particolar modo il capitale finanziario, per impedire che le più basse aliquote applicate in altri Stati ne determinassero la fuoriuscita dal paese. Questa problematica è oggi in larga parte superata dalla possibilità di monitorare, e quindi tassare in patria, questi redditi, a seguito degli accordi internazionali sugli scambi di informazioni.  Ciononostante, il modello duale avrebbe indubbiamente il vantaggio di ridurre la dispersione e quindi la casualità dei regimi di imposizione riservati a questo e quel reddito, riconducendoli invece a criteri uniformi e comprensibili. 

La necessità di una operazione di questo genere è completamente ignorata, e quindi, evidentemente, disconosciuta, dalla legge delega, che, al contrario, aumenta la dispersione in atto. Essa prevede infatti, da un lato, l’introduzione di ulteriori regimi sostitutivi dell’Irpef, ad esempio per gli affitti relativi a immobili commerciali e alle plusvalenze su terreni edificabili, dall’altro, di portare a regime, previa valutazione della fase sperimentale in essere per il 2023, il regime di tassazione proporzionale degli incrementi di reddito conseguiti annualmente da lavoratori autonomi e imprenditori individuali, a cui viene affiancato, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, una tassazione agevolata degli straordinari che eccedono una certa soglia, dei premi di produttività, come già oggi, e della tredicesima mensilità (previsione che riguarda anche i redditi di pensione). 

Si prospetta quindi una specie di spezzatino, che agevola alcune parti dei redditi da lavoro dipendente che in un qualche modo eccedono la retribuzione ordinaria, per riprodurre in capo a questi ultimi una finta analogia con la flat tax incrementale riconosciuta a lavoratori autonomi e imprenditori individuali. La vera analogia, che comporterebbe di riportare a tassazione agevolata gli interi incrementi retributivi dei lavoratori dipendenti, e quindi, in primo luogo, quelli derivanti dai rinnovi contrattuali, è stata invece accantonata in quanto estremamente onerosa. Una scelta che amplifica la diversità di trattamento riservata alle due categorie di reddito da lavoro: dipendente e autonomo. E che, al tempo stesso, all’interno del lavoro dipendente, rischia di distribuire il beneficio in modo assolutamente iniquo. Se si andasse davvero alla tassazione proporzionale delle tredicesime, ad esempio, il beneficio fiscale sarebbe molto più ampio per i contribuenti con un reddito da lavoro dipendente elevato, sia perché hanno una tredicesima più alta, sia perché questa, in assenza del regime agevolato, sarebbe sottoposta ad aliquote marginali molto più elevate di quelle riservate alle tredicesime dei redditi più bassi. Per evitare un’ingente perdita di gettito si opterà, quasi inevitabilmente, per l’introduzione di limitazioni e articolazioni dell’agevolazione, con l’effetto di frammentare e complicare ancora di più il sistema fiscale. 

Se poi si introdurrà una detassazione degli straordinari e, con essi, nel caso dei contratti a tempo parziale, del lavoro supplementare, si assisterà all’assurdo di privilegiare fiscalmente la diffusione, eccessivamente elevata nel nostro paese, in comparazione anche con i paesi europei, del part time involontario. Una forma contrattuale che permette al datore di lavoro la massima flessibilità nell’ottenere dal lavoratore, per le proprie esigenze, un orario talvolta più lungo, ponendo però parte dell’onere a carico della fiscalità generale, e quindi dell’intera collettività. 

Si tratterebbe è bene notarlo, di provvedimenti che hanno un forte connotato di genere: sono gli uomini che svolgono prevalentemente il lavoro straordinario, essendo più liberi dal lavoro di cura, sono le donne che sono più pesantemente costrette al part time involontario e che hanno, anche in ragione di questo, tredicesime più basse.

Curiosamente, a fronte di una situazione così disastrosa in termini di equità orizzontale, la legge delega invoca tale principio con riferimento pressoché esclusivo al problema dell’applicazione della medesima area di esenzione e conseguentemente del medesimo onere impositivo legato all’Irpef per i redditi di specie - lavoro dipendente, pensione e lavoro autonomo - che beneficiano oggi di aree di esenzione (ottenute mediante appositi sistemi di detrazione dall’imposta) differenziate. Poiché la ragione di questa differenziazione è in parte imputabile al fatto che i redditi di lavoro autonomo, diversamente da quelli dei dipendenti, sono considerati al netto dei costi sostenuti per produrli, si introduce la possibilità di riconoscere anche ai lavoratori dipendenti una deduzione, eventualmente forfetizzata, per tali costi. Una deduzione analitica, per soggetti non tenuti ad alcuna forma di contabilità, comporterebbe infatti un rilevante aumento della complessità del sistema, e anche, come l’esperienza di altri paesi insegna, il rischio di frodi. Questo particolare aspetto dell’equità orizzontale, riferito all’area di esenzione, merita di essere considerato, ma ha una portata molto limitata, in quanto ben difficilmente i lavoratori autonomi che potrebbero beneficiarne scelgono di essere tassati in Irpef, abbandonando il loro regime naturale, la già citata flat tax per gli autonomi, che permette anche un regime molto semplificato per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto.

Totalmente ignorato è invece un altro aspetto, questo sì macroscopico, di iniquità orizzontale che riguarda il fatto che tutti i redditi assoggettati a regimi sostitutivi dell’Irpef sono anche sottratti all’applicazione delle addizionali comunali e regionali a questo tributo. Non sono quindi chiamati a concorrere in alcun modo alle spese per i servizi pubblici locali di cui pure beneficiano, né sono chiamati a sostenere l’onere di imposta aggiuntivo che viene imposto ai cittadini residenti in regioni assoggettate a piani di rientro per deficit sanitari. Una situazione priva di ogni ragionevolezza che ha anche la conseguenza di distorcere il significato dell’autonomia tributaria concessa agli enti decentrati, che trova il suo principale fondamento proprio nel collegamento fra le scelte di spesa e la correlata richiesta di uno sforzo tributario ai propri cittadini. Questa autonomia viene infatti esercitata solo nei confronti di alcune categorie di cittadini.

Una distorsione che si aggiunge a quella relativa all’Imu, l’imposta patrimoniale da cui sono esentati terreni agricoli e prima casa e che quindi ricade largamente sulle seconde case appartenenti a cittadini che non votano nel territorio comunale che li chiama a uno sforzo fiscale aggiuntivo. 

 

2.2. Indebolimento della progressività dell’imposta

Nonostante, come si è ricordato nel paragrafo precedente, l’Irpef sia ormai una imposta “speciale” cioè riferita largamente ai soli redditi di lavoro dipendente e pensione, che ne costituiscono l’83,2% della base imponibile, essa rappresenta comunque l’imposta di maggior peso del nostro ordinamento, l’unica a cui è affidato il compito di realizzare, in modo evidentemente parziale e sicuramente insufficiente, il principio costituzionale della progressività del prelievo. 

Ma anche questa sua caratteristica è messa in discussione dalla legge delega. Essa prospetta infatti un percorso, che potrà però concludersi solo al di fuori dei tempi, brevi - 24 mesi - previsti per la sua attuazione, verso un modello di tassazione flat tax. Una tassazione ad aliquota unica, che affida la realizzazione del precetto costituzionale della progressività ad apposite deduzioni o detrazioni di imposta. Il passaggio da una imposta a più aliquote a un’imposta ad aliquota unica, che può avvenire per tappe successive, viene presentato come forma di semplificazione del prelievo, oltre che come forma privilegiata per ridurre la pressione fiscale sulle persone fisiche.

Va sottolineato che, in un sistema come il nostro, caratterizzato da una progressività per scaglioni, la riduzione del numero delle aliquote, se non compensata da un allargamento degli scaglioni a più alta aliquota marginale e/o da un innalzamento di quest’ultima, ha come effetto ineludibile quello di favorire maggiormente, in termini assoluti, i redditi più alti. Poiché quelli più bassi sono già di fatto ampiamente al riparo dalla tassazione grazie al sistema delle detrazioni, l’onere del prelievo, per quanto complessivamente ridotto, viene caricato in misura relativamente maggiore sulle classi medie. 

Già la riduzione del numero di scaglioni da 5 a 4, introdotta dal governo Draghi, pur accompagnata dall’allargamento dello scaglione superiore, ha avuto effetti distributivi favorevoli alle classi di reddito più elevato, che sono stati compensati, in via solo temporanea, dalla contestuale parziale fiscalizzazione dei contributi dei lavoratori dipendenti con redditi più bassi. Il passaggio, annunciato come possibile per la prossima legge di bilancio dal governo Meloni, da 4 a 3 scaglioni con accorpamento dei primi 2, avrebbe l’effetto di garantire la fruizione del beneficio, nel suo valore massimo assoluto, a tutti i redditi superiori ai 28.000 euro, di non dare alcun guadagno a quelli sotto i 15.000 e di favorire in misura ridotta quelli fra 15.000 e 28.000.

Il passaggio, per tappe, a un sistema ad aliquota piatta, affiancato da un articolato sistema di deduzioni o detrazioni, non è certo una semplificazione del sistema fiscale. Ciò che rileva per il contribuente è l’incidenza del prelievo sul proprio reddito. Quello a cui si dovrebbe puntare è quindi la trasparenza dell’andamento di questo indicatore. La proposta, formulata da parte delle opposizioni, a favore di un prelievo caratterizzato da un’aliquota media che cresce in modo continuo al crescere dei redditi (cosiddetto sistema tedesco), ovviamente con un limite superiore, avrebbe il vantaggio di rendere immediatamente conoscibile l’onere di imposta a cui si è sottoposti e di dotare i policy maker di un sistema flessibile e quindi modulabile senza introdurre distorsioni.

Va poi sottolineato che limitarsi a ipotizzare a regime una tassazione con aliquota piatta non ha alcun contenuto direttivo, se non si indica il livello dell’aliquota unica prescelto e non si danno criteri per la modulazione delle deduzioni e detrazioni che dovrebbero accompagnarne l’introduzione. Qualora il riferimento fosse al 15% attualmente adottato per un insieme di regimi sottratti all’Irpef, fra cui, segnatamente e prioritariamente, quello riservato a lavoratori autonomi e imprenditori individuali con ricavi fino a 85.000 euro, e quello battezzato “flat tax incrementale” cui si è fatto più volte riferimento, la perdita di gettito potenziale sarebbe molto rilevante, nell’ordine di decine di miliardi di euro. Nel compiere una scelta di questo tipo non si può quindi prescindere dall’interrogarsi su quali potrebbero esserne gli esiti, in termini di compressione della spesa pubblica e in particolare della spesa per welfare, a cui sono ascrivibili i più importanti effetti di contrasto alle diseguaglianze.

Sotto questo profilo è inevitabile considerare come la polarizzazione dei redditi indotta dalle transizioni tecnologica ed ecologica in atto, da un lato, e l’invecchiamento della popolazione, dall’altro, richiedano rilevanti interventi pubblici: di protezione nei conforti dei rischi di povertà e disoccupazione, di sostegno alla formazione continua, per spese sanitarie, anche al fine di permettere a tutti l’accesso alle innovazioni del settore, e di assistenza per la non autosufficienza, nonché per la sostenibilità del sistema pensionistico. Un quadro che è difficilmente compatibile con una riduzione sostanziale della pressione fiscale, che è l’obiettivo primario della prospettata riforma, a meno di non rinunciare all’universalità di molte delle prestazioni citate, e consegnare il nostro paese a un welfare povero per soli poveri.

Il tema riguarda i destini dell’intero sistema tributario, ma, soffermandosi sulla sola Irpef, e sulla prospettata realizzazione di un sistema flat tax, è utile ricordare che nei paesi europei (tutti dell’Europa dell’est) che lo avevano adottato al 2016 (parte dei quali gli hanno successivamente preferito un sistema a più aliquote) la pressione fiscale era effettivamente più bassa di quasi dieci punti, rispetto alla media dei paesi europei con imposta progressiva. Al tempo stesso l’incidenza della spesa pubblica era di quasi dodici punti inferiore e la spesa sociale più bassa di nove punti. Se teniamo presente questa considerazione i termini della scelta, flat tax si flat tax no, appaiono più chiari.

 

3. Il contrasto all’evasione fiscale nei principi di delega su accertamento e riscossione

 

3.1 Accertamento: priorità all’adempimento spontaneo

Secondo il Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva pubblicato dal Ministero dell’Economia a fine 2022, nel 2019, ultimo anno per il quale si dispone di dati completi, la differenza tra il gettito effettivo delle principali imposte del sistema tributario (Iva, Irpef, Ires e Irap) e il loro gettito potenziale, il c.d. tax gap, è stimabile in 86,6 miliardi, il 4,8% del Pil. L’evasione attribuibile all’Irpef è pari a 36,6 miliardi – di cui 32,8 attribuibili al reddito di impresa e autonomo, corrispondente, per questo reddito, ad una propensione all’evasione (indice di tax non compliance) pari al 68,3% nel 2018 –, 8,7 miliardi all’Ires, 5,0 all’Irap e 27,7 miliardi all’Iva. Se si considerano anche i 12,7 miliardi di tax gap relativo ai contributi sociali, il tax gap complessivo raggiunge i 99,2 miliardi. In termini settoriali il tax gap è particolarmente elevato nel settore delle costruzioni, del commercio e dei servizi (ristorazione e servizi alla persona). In termini territoriali, l’ammontare assoluto di evasione stimata è più elevato nel Nord del paese, in ragione della maggiore quota di valore aggiunto ivi prodotta, ma la sua intensità (rapporto tra stima dell’evasione per unità di gettito regolarmente versato) è maggiore nel Mezzogiorno. 

L’indirizzo che la legge delega dà al contrasto all’evasione fiscale sembra ispirato a principi contradditori. Pure a fronte di una evasione così diffusa da farne un fenomeno endemico del nostro ordinamento, la preoccupazione principale sembra essere quella di dare al contribuente più serenità e più garanzie nei confronti di uno Stato percepito come vessatorio. Vanno in questa direzione le previsioni quali quelle secondo cui non si devono chiedere al contribuente più volte gli stessi documenti, in vero già presente, ma non rispettata, nel nostro ordinamento, e l’applicazione generalizzata del principio di contradditorio, cui si accompagna, in particolare, il diritto del contribuente a partecipare al procedimento tributario. 

È vero che viene rafforzato ed esteso, in linea con il percorso iniziato dai governi precedenti, l’utilizzo delle tecnologie digitali, e la piena interoperabilità delle banche dati, con il potenziamento dell’analisi del rischio, ora prevista solo per l’anagrafe dei conti correnti e dei rapporti finanziari. Ma al tempo stesso occorre considerare il mix di minori sanzioni, parziali depenalizzazioni, minori tassi di interesse applicati ai versamenti ritardati, differimenti incondizionati fino a dieci anni dei pagamenti dovuti, depotenziamento di alcuni strumenti di accertamento e sdoganamento strutturale delle definizioni agevolate (alias condoni) a tutti i livelli, compreso il prelievo locale e nel campo del contenzioso, che rischiano di determinare una convenienza a non pagare.

Attenzione particolare viene poi dedicata all’obiettivo dichiarato di volere prevenire l’evasione, piuttosto che combatterla, confermando lo sforzo, intrapreso orami da diversi anni, di favorire l’adempimento spontaneo. 

In questo ambito un ruolo particolare viene assegnato a due diversi istituti: l’adempimento collaborativo e il concordato preventivo. 

L’adempimento collaborativo mira al conseguimento di un elevato livello di certezza sulle questioni fiscali più importanti, tramite un’interlocuzione preventiva fra amministrazione e contribuente per valutare situazioni che potrebbero generare rischi fiscali. È attualmente riservato alle imprese con fatturato superiore al miliardo. Si tratta di imprese strutturate, che hanno la possibilità di dotarsi di un sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale (Tax Control Framework). 

L’innovazione consiste nell’ampliare progressivamente il numero di imprese ammesse, abbassando il limite citato della soglia di fatturato (il viceministro Leo parla di una soglia orientativa di 750 milioni, che andrebbe progressivamente diminuita fino a 100 milioni). Una scelta che aggrava sensibilmente i compiti dell’amministrazione, e che potrà quindi rivelarsi sostenibile solo se accompagnata da investimenti significativi verso la qualificazione del suo personale e la dotazione di mezzi a sua disposizione. Desta allora, simmetricamente, molte preoccupazioni non già la possibilità di affidare a professionisti qualificati la certificazione del Framework indicato, ma il fatto che tale certificazione dia poi diritto, senza necessità di controllo da parte dell’amministrazione, alla riduzione, fino all’eventuale esclusione, delle sanzioni amministrative tributarie per tutti i rischi fiscali comunicati preventivamente (esclusi ovviamente i più gravi casi di condotte simulatorie e fraudolente), nonché alla riduzione di almeno due anni dei termini posti all’attività di accertamento e si accompagni inoltre alla previsione di “istituti speciali di definizione, in un predeterminato lasso temporale, del rapporto tributario circoscritto”. Più in generale non sembra condivisibile che, anche in assenza di certificazione, l’adesione all’adempimento collaborativo comporti l’esclusione delle sanzioni penali tributarie e in particolare di quelle relative al reato di dichiarazione infedele, per i contribuenti “che hanno tenuto comportamenti collaborativi e comunicato esaurientemente l’esistenza dei relativi rischi fiscali”.

Il concordato preventivo biennale è invece riservato a lavoratori autonomi e piccole imprese con fatturato al di sotto di soglie da definire. L’ingente mole di banche dati a disposizione dell’amministrazione finanziaria verrebbe utilizzata, in questa ipotesi, non già per favorire la correttezza del comportamento dichiarativo del contribuente, ad esempio tramite la predisposizione di dichiarazioni precompilate, o per verificare l’effettiva sussistenza di una sua difficoltà a pagare, che potrebbe preludere all’accesso a pagamenti dilazionati altrimenti scarsamente giustificabili, ma a contrattare con lui le tasse dovute nei due anni successivi. Un concordato preventivo volontario, che ragionevolmente verrà apprezzato dal contribuente solo se gli permetterà di pagare meno o comunque non di più di quanto normalmente pagherebbe, rischiando quindi di cristallizzare la situazione attuale, caratterizzata, come si è detto, da un tasso di evasione dei redditi di questi contribuenti stimato pari a circa il 67%. Se questo sarà l’esito, l’evasione non sarà prevenuta, ma legalizzata. 

Al contribuente si chiede comunque di ottemperare agli obblighi contabili e dichiarativi ordinari, pur non attribuendo nessuna rilevanza ai fini fiscali e contributivi alla certificazione di eventuali redditi imponibili maggiori (o minori) rispetto a quanto concordato, ma si assume un atteggiamento particolarmente benevolo nei confronti dei contribuenti che nascondano al fisco ricavi o compensi, prevedendo la decadenza dal concordato preventivo solo se tali omissioni riguardano ricavi o compensi che eccedono in misura significativa quanto dichiarato, ovvero si siano commessi violazioni fiscali di non lieve entità. 

Allo stesso modo, non si decade dall’adempimento collaborativo, ma si viene solo sottoposti a un periodo transitorio di osservazione, in caso di violazioni fiscali non gravi. 

Analoga benevola tolleranza discende dal convincimento, molto diffuso, secondo cui se un contribuente dichiara tutto correttamente e poi non paga è perché è in difficoltà, non perché è un evasore. La si ritrova nei passaggi della delega in cui si arriva a considerare la “sopraggiunta oggettiva impossibilità di pagare” come fattore per la depenalizzazione di reati fiscali. E questo senza alcuna attenzione al fatto che questa oggettiva impossibilità sia sopraggiunta molto dopo rispetto al momento in cui l’obbligazione tributaria andava assolta. In realtà, anche con riferimento al convincimento ora enunciato, i numeri del Rapporto sull’evasione parlano chiaro: dei 27,7 miliardi di evasione relativi all’Iva, nel 2019 e quindi in epoca prepandemica, quelli che riguardano Iva dichiarata ma non versata sono ben 9,1. Un fenomeno molto grave secondo la Corte dei Conti “divenuto da tempo una impropria modalità di finanziamento e in non pochi casi una modalità di arricchimento illecito, attraverso condotte preordinate all’insolvenza”.

Non va inoltre dimenticato che sono stati ripetutamente bocciati nel corso del passaggio parlamentare, con parere negativo del governo e voto contrario della maggioranza, emendamenti dell’opposizione finalizzati a condizionare l’accesso a forme dilazionate di pagamento alla verifica dell’effettiva difficoltà a pagare da parte del contribuente, cosa possibile attualmente grazie al più vasto accesso alle banche dati, finanziarie e non, da parte dell’amministrazione. La dilazione, che potrà raggiungere a regime i dieci anni, costituirà inevitabilmente una ulteriore ghiotta occasione per accedere a una modalità di finanziamento automatica, che non richiede, diversamente dal credito bancario, alcuna valutazione sul merito di credito di chi ne beneficia.

 

3.2. Riscossione: un sistema troppo fragile

Alcune riflessioni devono infine essere dedicate alla riforma del sistema di riscossione. Un sistema di riscossione non credibile incentiva infatti, premiandola, l’evasione e acuisce le iniquità del prelievo. 

È indubbio che l’attuale sistema sia particolarmente inefficiente, come è dimostrato anche dal magazzino fiscale di cartelle arretrate non riscosse, per un ammontare che, a fine 2022, ha superato i 1100 miliardi di euro. È quindi condivisibile la necessità di prevedere, da un lato, misure che rendano più celere ed efficiente la riscossione, dall’altro meccanismi di discarico che evitino di mantenere vive cartelle relative a crediti oggettivamente non esigibili. La legge delega interviene in modo piuttosto drastico sul problema prevedendo due strumenti che, valutati nel loro insieme, destano non poche perplessità.

In primo luogo, si prevede l’introduzione di una pianificazione annuale, che deve essere concordata con il Ministero dell’economia e delle finanze, delle procedure di recupero che devono essere svolte dall’agente della riscossione. Ciò significa che si seguiranno criteri selettivi per stabilire verso quali crediti indirizzare l’attività di riscossione. Ora, se nel caso dell’accertamento è evidente che si debbano seguire logiche selettive e che, come indicato anche dalla delega, a questo proposito possa essere utile fare ricorso a strumenti moderni di analisi del rischio basati su un utilizzo più intenso e coordinato delle banche dati, perché non si è a conoscenza di chi siano gli evasori fiscali e di quali comportamenti illegali abbiano tenuto, è evidente che il discorso si pone in termini molto diversi nel caso della riscossione. In questo caso infatti l’obiettivo è riscuotere crediti certi. È corretto stabilire delle priorità, con riferimento a crediti di grosse dimensioni che rischiano di volatilizzarsi se non si agisce con celerità. Ma non c’è ragione perché si rinunci a parte degli altri, senza alcuna verifica sulla loro esigibilità. Si tratta di crediti il cui disvelamento è avvenuto non senza costi pubblici. Bisognerebbe quindi dotare l’Agenzia di mezzi e uomini in misura adeguata per poterli riscuotere in tempi brevi. Bisognerebbe anche rivedere le norme che limitano il ricorso a strumenti, quali la pignorabilità presso terzi, che potrebbero rendere più efficace la sua azione.

In secondo luogo, si prevede il discarico automatico delle quote non riscosse, alla fine del quinto anno successivo a quello dell’affidamento, con esclusione, in via temporanea, di quelle per le quali siano in corso procedure esecutive o concorsuali o rateizzazioni. Correttamente si prevede anche un discarico anticipato, quando sia stata verificata l’impossibilità, ad esempio per assenza di cespiti aggredibili, di ottenere risultati dall’azione di riscossione. Va però evidenziato che il discarico automatico dopo il quinto anno dall’assegnazione non è in alcun modo subordinato al fatto che il tempo trascorso sia stato sfruttato dall’agenzia per esperire qualche tentativo di riscossione. 

Ne consegue che il combinato disposto delle due previsioni ora ricordate fa si che possa succedere che a fronte di un carico affidato, che nei cinque anni successivi all’affidamento non rientri nei criteri selettivi previsti dalla pianificazione annuale, possa essere discaricato senza essere mai stato preso realmente in carico e senza alcuna responsabilità da parte dell’agente della riscossione. Esiste quindi la seria possibilità che la riscossione coattiva, che è la risposta estrema all’evasione fiscale, ma che ne rende credibile il contrasto, risulti estremamente depotenziata. 

E questo nonostante altri strumenti, pure previsti dalla delega, quali il progressivo superamento dello strumento del ruolo e della cartella di pagamento per velocizzare l’avvio delle azioni cautelari ed esecutive, così come l’estensione del termine di efficacia degli atti di riscossione, e l’ampliamento del ricorso alle tecnologie più evolute e all’interoperabilità dei sistemi e del patrimonio informativo, sarebbero invece in grado di garantire una maggior efficienza nel processo di riscossione.

 

4. Considerazioni finali

L’attuale sistema fiscale si trova in una crisi gravissima, che ne mette in dubbio sia il funzionamento sia la legittimità. Un sistema che garantisce un’alta pressione fiscale, necessaria a sostenere, in particolare, il sistema di welfare, ma che lo fa con una distribuzione dell’onere fiscale così sperequata da risultare intollerabile. 

Invece di affrontare alla radice questi problemi, la riforma prevede un insieme di interventi che, se realizzati, rischiano di peggiorare ulteriormente, e in modo significativo, sotto il profilo dell’equità, dell’efficienza e della stessa razionalità, l’attuale, già compromesso, sistema di regole.

Questo emerge con chiarezza, come si è cercato di dimostrare nei paragrafi precedenti, con riferimento sia alla tassazione dei redditi delle persone fisiche, e in particolare alla riforma dell’Irpef, imposta cardine del nostro ordinamento, sia al contrasto all’evasione fiscale, in ragione in particolare dell’estensione eccessiva dell’adempimento collaborativo, accompagnato da misure premiali di sapore condonizio e dell’introduzione di strumenti come il concordato preventivo biennale. Nella stessa direzione si muove, in larga parte, la riforma della riscossione, con l’operare congiunto dell’istituto del discarico automatico e della pianificazione dei crediti verso cui dirigere l’intervento di recupero. Nella stessa direzione va la codificazione di fatto dei condoni, attraverso la loro esplicita considerazione come elementi sistemici dell’ordinamento, per quanto riguarda in particolare i tributi locali e regionali e tutte le fasi del contenzioso tributario.

L’analisi compiuta, concentrata solo su alcuni, per quanto cruciali, degli articoli in cui si sviluppa la legge delega, è un’analisi parziale. Ma il giudizio che se ne trae è inequivocabile: le iniquità del sistema, e principalmente la distanza nel trattamento riservato a chi è assoggettato a regimi di tassazione alla fonte, operati da un sostituto di imposta e chi invece no, rischia di approfondirsi ulteriormente, indebolendo lo strumento democratico per eccellenza, la tassazione appunto, senza la quale non esiste il bene comune, non esiste la collettività.

13/11/2023
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