Magistratura democratica
Magistratura e società

La fine di Gomorra *

di Linda D'Ancona
giudice del Tribunale di Napoli

Nessun dorma. È arrivata la fine di una serie che ha fatto epoca e scalpore

La serie televisiva Gomorra ha trascinato uomini e donne, giovani e senescenti, nordisti e sudisti tenendoli incollati allo schermo fino a notte fonda. 

A imbiancare le mie notti è invece l’ansia per le giovani menti poco arate dalla cultura ma assorbenti quanto spugne di un mare ormai inquinato dal degrado sociale e dalla perdita di speranza. Eh sì, perché la serie televisiva, nel non prendere posizione tra bene e male e nel rimarcare in ogni fotogramma l’assenza dello Stato e di ogni alternativa lecita a vite criminali, può insinuarsi facilmente nei pensieri di chi non ha, o non ha ancora maturato, strumenti per resistere a modelli di vita sbagliati ma seduttivamente presentati come eroici e vincenti.

«Vienit a piglià o’ perdon» è una frase entrata nel linguaggio comune e utilizzata da giovani e anziani per dileggiare l’interlocutore e affermargli la propria superiorità, alludendo alla violenza che nella fiction segue a quel pronunciamento. Nessuno fa più caso al messaggio di sangue di cui la frase è carica, che sembra rimanere invisibile, sospeso in un’aria densa di diossina e di fumo di proiettili.

A destare preoccupazione non è la frase in vernacolo ma la fascinazione per l’azione violenta che l’espressione dialettale richiama.

Pochi anni fa un rapinatore usò il suo orologio d’acciaio per massacrare di botte la vittima: stessa scena compare in una puntata della serie televisiva. Sarà stato un caso? E cosa viene prima, la realtà che ispira la fiction o quest’ultima che involontariamente propone un modello criminale, subito imitato nel far west quotidiano? Comunque sia andata, è una brutta faccenda: anche se la fiction può aver tratto spunto dalla vita vissuta, non è un bene che abbia diffuso in mondovisione quel metodo violento e sprezzante, che segna un punto negativo nella valutazione della personalità del reo. 

Ma il colmo dell’ironia amara lo raggiungono alcune conversazioni intercettate durante un’indagine: nella sequenza delle frasi sincopate si coglie la sorpresa e anche l’eccitazione di giovani indagati che hanno saputo dell’esistenza del set di Gomorra impiantato a pochi metri da loro. Qui a Napoli non ci facciamo mancare proprio nulla. 

Gli autori della serie televisiva, stretti da domande insistenti e qualche volta anche bersagliati da recriminazioni, hanno detto di raccontare soltanto la realtà e di non aver determinato il destino criminale di nessuno: questo è ovvio, non siamo di fronte all’apologia di reato. Però c’è modo e modo di raccontare la vita vera, il regista de Il Padrino non ha scelto la strada dell’indifferenza ai valori di una società civile per narrare le storie dei personaggi di un mondo narrativo di cui delinea chiaramente i confini del bene e del male: Francis Ford Coppola mostra sugli schermi la fine di un Corleone malato che muore solo, abbandonato da tutti e con il peso della morte della figlia sulla coscienza. Non si può dire che Coppola non abbia preso posizione. Anche Paolo Sorrentino ne Il Divo ci stende ai piedi un tappeto di ironia per condurci dalla parte giusta; e persino Quentin Tarantino, re dello splatter, in una delle prime scene di Django Unchained chiarisce bene di essere contro il razzismo, inventando una sequenza talmente demenziale da far sbellicare il pubblico. 

È bene chiarire che il punto non è l’estetica, ma il metodo scelto per raccontare la storia e le vicende dei personaggi, da cui anziché la degradante fascinazione del male dovrebbero trapelare punti di vista eticamente condivisibili. 

L’arte del narrare inevitabilmente implica una presa di posizione: non esiste storytelling senza che da esso trapeli il punto di vista dell’autore. Ciò è tanto più vero quando lo strumento narrativo è l’immagine: dal quadro alla fotografia, dal cortometraggio al serial televisivo di duecento puntate, ogni scrittura di luce[1] impressiona l’occhio e ancor più la mente; se ben congegnata, l’immagine è destinata a rimanere scolpita per sempre nella memoria dello spettatore. Non potrò mai dimenticare che a soli nove anni, lasciata a casa con la baby sitter dai genitori invitati a cena da amici, inciampai per caso ne L’angelo sterminatore di Luis Bunuel: rimasi incollata allo schermo fino alla fine e ancora oggi ricordo perfettamente la trama e alcuni fotogrammi della pellicola. Per mia fortuna il film, a metà fra il thriller distopico e l’horror, conteneva un messaggio – positivo – di forte critica verso la società spagnola borghese, conservatrice e franchista.

Se si viene risucchiati nel vortice di una serie televisiva a dodici, a quindici come a vent’anni, in epoche della vita in cui non si è abbastanza forti da filtrare i contenuti con spirito critico e cultura ancorché basica, si rischia di rimanere ammaliati da stili di vita e metodi di un “anti-stato” che non riconosce lo Stato di diritto, anzi lo oblitera.

Sorprende che in Gomorra non vi sia traccia di rappresentazione dello Stato: non dico magistrati, ma quantomeno qualche poliziotto lo si poteva introdurre fra i personaggi, visto che i quartieri periferici di Napoli costituiscono terreni d’elezione per il costante e faticoso lavoro di prevenzione e repressione dei reati di criminalità organizzata, portato avanti ogni giorno dalle forze di Polizia. Più la serie va avanti nelle puntate e più sembra che quei territori siano completamente abbandonati e che lo Stato sia ormai sconfitto. Ed anche se non era questa l’intenzione degli autori, come hanno ribadito in ogni occasione, l’involontaria omissione di personaggi che fossero dalla parte dello Stato trasmette in modo neanche troppo subliminale l’idea che in quei luoghi si possano impunemente violare le regole della civile e rispettosa convivenza, che quelle zone siano sottratte allo Stato e che ormai la camorra vi regni indisturbata. 

Si è detto che invece di preoccuparci della serie televisiva ci dovremmo indignare per l’assenza di una pubblica amministrazione efficiente, di infrastrutture decenti e di concrete opportunità di lavoro lecito per i giovani di quei quartieri. Va bene, ma ciascuno deve fare la sua parte nel suo ambito di competenza, è inutile spostare l’attenzione su altri: «prima di pretendere qualcosa vedi quello che puoi dare tu» canta Irene Grandi, ed è grande quella canzone[2].

Non è necessario girare un polpettone tipo La Piovra per spiegare il confine tra giusto e ingiusto e non rischiare di cadere, sia pur involontariamente, nel baratro della fascinazione del male. Si possono confezionare prodotti artistici di altissimo livello rimanendo dalla “parte giusta” o quantomeno non occhieggiando alla “parte sbagliata” della società. Per tutti, basta citare i film realizzati da Clint Eastwood, il quale pur avendo accumulato premi e riconoscimenti per le sue regie non ha mai scelto la strada dell’indifferenza verso le questioni sociali che affrontava nei film.

Se si gira un documentario sulla vita delle formiche si può restare indifferenti alla scala gerarchica di insetti militarmente strutturati in una società tutta loro; ma se si affronta il tema della camorra, lo scopo di fidelizzare il pubblico creando personaggi mitologici, unito all’assenza dello Stato e alla scelta di non prendere posizione possono creare un mix esplosivo che seduce animi privi di senso critico a causa dello scarso livello culturale, producendo un effetto simile a quello del Pifferaio magico sui topolini. 

Ma vi è di più: secondo una teoria di psicologia della comunicazione, nell’era del dominio dei media i giovani sono attratti da ciò che viene loro presentato come “alla moda”, “trendy”, “cool”. L’insicurezza che fa da motore alla voglia di emulazione induce i ragazzi a imitare modelli considerati vincenti, nella società come nel rapporto interpersonale a due. Se si propone, anche involontariamente, un modello fondato sulla violenza e sulla sopraffazione, non vi è niente di più facile che venga elevato da adolescenti e giovani a stile di vita, da imitare persino nel modo di vestire e nella gestualità. Lo sanno bene gli stilisti di moda, che presentano le loro collezioni in veri e propri spettacoli e non più semplici sfilate, accompagnando le nuove proposte di look con musica, gestualità, immagini e top model – donne e uomini – ispirati al modello di bellezza in voga. L’insicurezza, l’ansia, e il desiderio di omologazione per sentirsi accettati inducono le giovani generazioni a cercare continuamente modelli da imitare, e il dovere morale di ciascuno di noi, qualunque sia il suo mestiere o professione, è di non proporre e non ammiccare – nemmeno involontariamente – a modelli negativi o addirittura criminali. 

«Non sottovalutare le conseguenze dell’amore» è la frase che Toni Servillo scrive su un foglietto in un vecchio film di Paolo Sorrentino. Ebbene, non sottovalutare le conseguenze delle proprie azioni è l’imperativo posto a fondamento del principio di responsabilità: bisogna capire il contesto in cui si interviene, per evitare di apportare ad esso involontari contributi di negatività. D’altronde, per chi vive e opera nel medesimo territorio non c’è la distanza che esiste fra un battito d’ali in Brasile e un tornado in Texas, ragion per cui gli effetti delle proprie azioni od omissioni risultano abbastanza prevedibili.  

È innegabile che la fiction sia ben scritta ed altrettanto ben girata, ma chi scrive programmi televisivi su temi attuali e scottanti non può limitarsi alle pure regole dell’intrattenimento. Se dovessi scegliere tra Gomorra e Squidgame preferirei il secondo tutta la vita: pur nella sua innegabile violenza, Squidgame offre un ventaglio di scene potentemente dimostrative di forti valori morali, e nel gioco dei contrari afferma il primato della vita umana e dell’amore sul dio denaro e sul mito del potere. La serie televisiva coreana è stata divorata da adolescenti e meno giovani pur essendo trasmessa in lingua originale con sottotitoli in italiano. Certo, la violenza e la morte sono sempre in primo piano, ma ciò che trionfa non è il modello dell’homo homini lupus bensì quello della generosità d’animo, spinta fino al punto di donare la vita al prossimo. Mi ha colpito che persino una preadolescente, di lucida intelligenza e fervido intuito, abbia difeso Squidgame con argomentazioni efficaci, dimostrando di aver recepito un messaggio di generosità d’animo e di amore per il prossimo invece di essere fuorviata dalla violenza che indubbiamente caratterizza ogni sequenza della fiction. Senza scomodare paragoni con Olocausti, che potrebbero sembrare un po’ sacrileghi, in Squidgame i giocatori sono i nuovi schiavi che invece del Colosseo sono costretti a esibirsi in scenari distopici creati appositamente per destare inquietudine, amplificare gli effetti della violenza e indurre nel pubblico empatia per le povere vittime. Non si rinviene traccia di qualunquismo né tantomeno di populismo.

Al contrario, un’altra serie televisiva che ha raccolto uno share molto elevato, La casa di carta, sembra ammiccare a ideologie anarchiche poiché in essa i protagonisti pretendono di conquistare il mondo assaltando con le armi il cuore di uno Stato, ossia il suo forziere fulcro del potere economico, senza offrire un’alternativa di modello sociale fondato sul rispetto di principi e diritti fondamentali della persona riconosciuti in tutte le comunità civili. Sul tema del terrorismo vi è un’amplissima e approfondita elaborazione di Magistratura democratica, che ha studiato il fenomeno sin dal suo nascere e ne ha ben evidenziato i connotati, riuscendo a condannare il fenomeno anche dal punto di vista politico, oltre che nelle aule di giustizia.

Forse si dirà che il mio è lo sfogo di un magistrato bacchettone: certo, può essere. Ma non è certo piacevole lavorare tutto il giorno ad “amministrare giustizia” insieme a tanti altri colleghi bravi e solerti, per poi vedere che la nostra tela di Penelope di notte viene disfatta da altri, senza che vi sia l’ombra del nobile intento attribuito da Omero alla moglie di Ulisse.

Nell’Odissea - una delle prime fiction dell’umanità, alla fine i Proci soccombono e muoiono per mano dell’eroe.  Così è nato l’epos, carico di simbolismi e di significati utili a rafforzare l’impianto etico di quella struttura sociale, su cui poggiano le fondamenta della nostra cultura. Al contrario, oggi si usa il paradigma dell’eroe per affermare sia pur involontariamente modelli negativi, senza pensare che si potrebbero raccogliere incassi poderosi anche diffondendo figure mitiche di personaggi eticamente corretti; e non per questo rinunciare a raccontare realtà criminali degradate, desolanti e tragiche come le periferie partenopee. Non ci vorrebbe un grande sforzo, soprattutto per chi possiede indubitabili capacità artistiche.  

 
[1] L’etimo della parola fotografia è, per l’appunto, scrittura con la luce, da φῶς - luce e γραφή – scrittura.

[2] Gaetano Curreri, Roberto Drovandi, Vasco Rossi, Prima di partire per un lungo viaggio cantata da Irene Grandi.

[*]

L’articolo costituisce un ampliamento e rivisitazione di quello apparso su La Repubblica, edizione di Napoli, il 19 novembre 2021, della medesima autrice. 

04/12/2021
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