Magistratura democratica
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Esercizio obbligatorio dell’azione penale nell’era della “pan-penalizzazione”

di Paolo Borgna
procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Torino
Il principio costituzionale per cui “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” va difeso con intelligenza: va inteso realisticamente che il pubblico ministero non possa decidere di esercitare l’azione penale in modo arbitrario o influenzato da altri poteri

L’azione penale è pubblica e il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere o ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza”. Così recitava l’articolo 8 della relazione redatta da Piero Calamandrei per la II sottocommissione (sul potere giudiziario) della Commissione per la Costituzione.

Una definizione molto meno rigida di quella che verrà consacrata nell’art. 112: “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.

Negli ultimi trent’anni il 112 è diventato un totem della difesa dell’indipendenza della magistratura. Secondo un ragionamento ben noto:

  • la rigida obbligatorietà dell’azione penale è un presidio di tutela del principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge;
  • se l’azione penale non fosse obbligatoria le scelte discrezionali sul suo esercizio dovrebbero essere responsabilizzate.
  • Ma questa responsabilità collegherebbe necessariamente il pubblico ministero al potere politico (l’unico legittimato dal suffragio popolare); e dunque, il pubblico ministero cesserebbe di essere indipendente.

 

Altrettanto noto è il ragionamento (o sarebbe meglio dire l’accusa) che larga parte del mondo politico ha rivolto alle Procure:

  • l’obbligatorietà dell’azione penale è un feticcio;
  • per rendersene conto, basta entrare in qualunque ufficio di procura ed aprir gli armadi in cui migliaia di fascicoli vengono abbandonati;
  • i pubblici ministeri non vogliono ammettere questa loro discrezionalità di fatto perché vogliono esercitarla in modo del tutto irresponsabile e, dunque, arbitrario. Questo loro atteggiamento è profondamente antidemocratico: perché in democrazia non è concepibile alcuna attività che comporti scelte politiche, disgiunta da qualche forma di responsabilità politica. L’indipendenza dei magistrati è un’eccezione al principio di sovranità popolare; un prezzo che la comunità è disposta a pagare per poter avere magistrati indipendenti. Ma se i pubblici ministeri compiono, nell’esercizio dell’azione penale, scelte discrezionali di politica giudiziaria, questi magistrati non meritano di essere indipendenti.

Come ricordava Vladimiro Zagrebelsky in uno scritto del 1994, è dalla Magna Charta Libertatum di re Giovanni Senza Terra del 1215 (A nessuno sarà negato o ritardato il diritto alla giustizia) che il diritto ad ottenere una decisione giudiziaria è proclamato senza alcun accenno ai limiti derivanti dalla possibilità concreta dello Stato di provvedervi.

Nella nostra Costituzione troviamo questa promessa due volte: non solo nell’articolo 112 ma anche nell’art. 24 (tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi). Ugualmente la troviamo, in forme ancor più perentorie e impegnative, nell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole). 

Purtroppo però, l’entità delle risorse pubbliche destinate all’amministrazione della giustizia delimita in ogni sistema quantità e qualità del servizio reso.

Orbene: il 112 Costituzione è l’esempio più evidente dello scarto esistente tra promessa e realtà.

L’obbligatorietà dell’azione penale non è, di fatto, mai esistita. Certo, esiste come fine cui tendere. Come principio cui ispirarsi. Come “usbergo per il pubblico ministero”, come dicevano i nostri maestri.  

Saremmo però intellettualmente disonesti se facessimo finta di ignorare che, nella quotidianità, la pretesa di mettere in moto ogni denuncia che riceviamo, istruirla adeguatamente e poi, se ci sono le prove di un reato, portarlo a giudizio, è una pura illusione.

Questa consapevolezza è stata a volte affermata polemicamente contro noi magistrati, come se questa situazione fosse colpa nostra. L’argomento veniva roteato sulle nostre teste come una clava. Proprio per questo timore, noi abbiamo a lungo commesso l’errore speculare: negando questa verità che era sotto gli occhi di tutti; per il timore che l’ammetterla potesse incrinare l’indipendenza della magistratura.

Dobbiamo invece assumere questa verità come dato di partenza dei nostri ragionamenti. Partire da questa verità per difendere davvero, con intelligenza, il nucleo forte del 112 Costituzione.  

Una discussione onesta su questo punto deve partire da un dato di fatto: un sistema che veda, insieme, obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio normalmente percorsi senza filtri; impraticabilità politica di ogni amnistia, blocco del turn over per il personale amministrativo (per quasi vent’anni – dal 1998 al 2017 – non abbiamo avuto alcun concorso per assistente giudiziario!), è un sistema che non regge.

Potevamo far finta di coltivare questa illusione fino al 1992, grazie alle amnistie che, ogni tre o quattro anni, ripulivano gli armadi dei magistrati (in particolare delle Preture) da pile di fascicoli per reati minori. Un giorno ho voluto contarle: dalla Liberazione al 1990 abbiamo avuto 28 amnistie (tra generali e speciali). Più di una ogni due anni. Di questo è stata intessuta, per quarantacinque anni, l’obbligatorietà dell’azione penale.     

Nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere un’amnistia, sia necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. E così, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, non vi son più state amnistie.

Ma non è certo migliorata la capacità del sistema giudiziario di far fronte alla valanga di fascicoli che – a causa di una litigiosità sempre crescente e di una “pan-penalizzazione” che per decenni ha caratterizzato il nostro sistema – ogni giorno si abbatte sulle Procure. L’ultimo esempio è il nuovo reato di cui all’art. 387 bis (introdotto con la Legge del cd “codice rosso”): la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Norma manifesto che – come tante altre introdotte in questi ultimi anni – non ha nessuna utilità. Perché sappiamo benissimo che, nei casi di violazione degli obblighi, è molto più efficace e di immediata e facile applicazione l’aggravamento della misura in corso.   

Dunque: non vi sono state più amnistie ma la situazione non solo non è migliorata. Al contrario: è peggiorata, per il cronico mancato rinnovo del personale amministrativo.

La conseguenza di questa nuova situazione è l’ingolfamento del sistema, con l’allungamento impressionante dei tempi del processo e l’estinzione per prescrizione di decine di migliaia di reati; che spesso avviene già nella fase delle indagini preliminari, quando il fascicolo è fermo in Procura. Del resto, se ciò non accadesse e se tutte le notizie di reato portate al pm sfociassero in un processo, i Tribunali si ingolferebbero ancor di più.

Per attenuare questo disastro, da quando le amnistie sono scomparse, i Procuratori della Repubblica sono stati costretti a esercitare, nella trattazione dei fascicoli, una sorta di “triage” giudiziario: delle “scelte di priorità” che – per evitare il rischio d’essere arbitrarie e di riflettere semplicemente i gusti dei singoli pubblici ministeri - tentavano di ancorarsi a parametri di gravità del fatto, rintracciabili nei codici: in particolare, avendo come punto di riferimento l’articolo 132 bis att cpp che detta, per il giudice, criteri di priorità nella fissazione dei processi. E ciò, in molte Procure, si badi bene, accadeva ben prima della delibera 11 maggio 2016 del Csm (che, in sostanza, ha detto: i Procuratori, possono, a monte, prima del processo, applicare i criteri del 132 bis).

Rimane il fatto che quelle scelte di priorità (anche se ora legittimate dal Csm) lasciano molti scontenti ed espongono i pubblici ministeri all’accusa di esercitare una “discrezionalità di fatto” non prevista dalla Legge.

Negli ultimi due anni, questa situazione è in parte cambiata, grazie a due riforme:

  • la depenalizzazione del gennaio 2016;
  • l’articolo 131 bis cp Questa possibilità di chiedere l’archiviazione per particolare tenuità (in considerazione della lievità del danno, delle modalità della condotta e della non abitualità) segue un meccanismo che ritengo particolarmente apprezzabile: il P.M. non può, semplicemente, cestinare un fascicolo (come avviene in altri ordinamenti) ma può chiederne l’archiviazione ad un Giudice con un iter garantito (in cui sono chiamati in causa anche indagato e persona offesa).

L’aver affidato al Gip la decisione sulla richiesta del pm (diversamente, ad esempio, da ciò che accade in Francia) evita il rischio di archiviazioni arbitrarie e incontrollate e mette al riparo la nuova normativa dalla critica di aver intaccato il principio costituzionale dell’art. 112[1].

Valorizzare lo strumento dell’archiviazione per “particolare tenuità del fatto” vuol dire forse rinunciare al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale proclamato dall’articolo 112 della Costituzione?

No. Al contrario, l’obbligatorietà dell’azione penale deve rimanere perché è il baluardo dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ci dicono: ma è solo un “mito”! Ebbene, sì: è un “mito”. Ma i “miti” non vanno gettati nei ferrivecchi solo perché non riusciamo a realizzarli pienamente.

Dobbiamo però guardare avanti. E chiederci: bastano queste due riforme? No. Non bastano.

È necessaria, piuttosto, nella testa degli operatori di giustizia, una piccola rivoluzione culturale che interpreti il 112 non come principio secondo cui l’azione penale deve essere tempestivamente esercitata per tutti i reati (e che ogni procedimento debba andare avanti allo stesso modo), ma come affermazione secondo cui il pubblico ministero non può decidere di non esercitare o ritardare l’azione penale per ragioni di convenienza, in modo arbitrario. Soprattutto: la sua decisione non deve essere influenzata da altri poteri.

È, questa, un’interpretazione del 112 che, a ben vedere, riprende lo spirito originario del testo redatto da Calamandrei.

Il che significa che quando il mancato tempestivo esercizio dell’azione penale è dovuto al limite oggettivo della capacità di smaltimento non solo delle Procure ma dell’organismo giudiziario nel suo complesso, l’articolo 112 è rispettato.

Non dico nulla di nuovo o di originale, se è vero che già nel 1979 Giovanni Conso scriveva: “di un’obbligatorietà nel senso pieno del termine non è possibile parlare in concreto […]. Ad essere obbligato, anche a causa della carenza dei mezzi, non è tanto l’esercizio dell’azione penale, quanto il compimento di scelte prioritarie, il cui prezzo è non di rado l’accantonamento di casi ritenuti non prioritari sul binario scontato della prescrizione”[2].

Ribadisco, però, che un utilizzo ampio del 131 bis cp è preferibile all’accantonamento.

Perché, quando i pubblici ministeri lasciano migliaia di fascicoli negli armadi senza che vi siano criteri di scelta dichiarati, trasparenti, discutibili e discussi, allora il rischio di arbitrio è latente.

Attenzione: non intendo affatto dire che in questi casi via sia sempre un arbitrio. Ma che, in questo sistema, si annida il rischio di arbitrio.

E, allora, come evitare questo rischio?

A mio parere, ampliando il 131 bis cp. Ampliando la possibilità di decidere di non procedere, caso per caso, valutando l’offensività in concreto del fatto. Oggi questa decisione, affidata al giudice su richiesta del p.m., può essere fatta soltanto per reati per cui la pena massima prevista dalla legge non superi i cinque anni. Questo significa che se un settantenne incensurato ruba al supermercato una busta di affettati, rompendo la confezione, io p.m. ho l’obbligo di procedere (furto aggravato dalla violenza sulle cose, punito da uno a sei anni; dunque, fuori dal perimetro del 131 bis).

Questo esempio ci dice che non sarebbe giusta la scelta (a chiunque affidata) di non procedere per certe categorie di reati. Nessuno immagina che si possa dire: a Torino, nel 2020, non procederemo per il reato di furto aggravato! Ma risponde al buon senso – oltre che a criteri di convenienza economica – stabilire che per quel fatto, assolutamente isolato, di quel signore che ha rubato la busta di prosciutto, non sia il caso di mettere in moto un processo penale lungo, costoso e con tre gradi di giudizio.

Parrebbe peraltro pericoloso perseguire la possibilità di archiviare fatti di questo tipo semplicemente elevando il massimo edittale, previsto dall’art. 131 bis I co. cp, da cinque a sei anni.

Infatti, un tale innalzamento renderebbe, in ipotesi, applicabile lo strumento dell’archiviazione per particolare tenuità anche a casi di furto con strappo o di furto in abitazione (624 bis cp). E tale eventualità sarebbe in palese contraddizione con la volontà espressa dal Legislatore che, recentemente, pur non innalzando la pena edittale massima per il reato di art. 624 bis cp, ne ha sensibilmente elevato il minimo.

Sembrerebbe pertanto preferibile l’inserimento, nel corpo dell’attuale 131 bis cp, di un comma I bis che – seguendo la stessa tecnica legislativa adottata per l’art. 550 cpp (casi di citazione diretta a giudizio) – preveda, per alcune specifiche fattispecie di reato, la possibilità di ritenere l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.

Un comma che potrebbe così essere congegnato:

La disposizione del comma I è applicabile anche per i seguenti reati:

elenco dei reati per cui si vuole estendere l’istituto.[3]

L’esempio del signore anziano che ruba una busta di prosciutto ci dice un’altra cosa: che i criteri di scelta con cui si decide se avviare o non avviare un procedimento possono essere facilmente spiegati e, normalmente, sarebbero largamente condivisibili.

Infatti: è vero che nell’applicazione dell’archiviazione per “particolare tenuità” del fatto, è essenziale la valutazione “caso per caso” della irrilevanza del danno sociale; e dunque non sono formulabili linee guida troppo cogenti. Ciò però non impedisce di individuare criteri orientativi di massima entro cui esercitare, di volta in volta – tenendo sempre presenti i parametri dettati dalla legge – la discrezionalità affidata al magistrato per la valutazione della “particolare tenuità”.

Ebbene, io sarei favorevole al fatto che questi criteri orientativi siano, anno per anno, annunciati dalle Procure e discussi: non solo all’interno degli uffici ma anche con l’Avvocatura, nei consigli giudiziari e con le altre Istituzioni, soprattutto quelle che sono espressione del principio di sovranità popolare (penso ai Consigli regionali o a quelli della città metropolitana).

So che questo argomento fa arricciare il naso a molti magistrati; perché il confronto con una Istituzione politica può essere vista come il primo passo verso una diminuzione della nostra indipendenza.

Consentitemi, allora, di concludere con una piccola citazione storica cui sono molto affezionato.

In un libro scritto a quattro mani con Margherita Cassano oltre vent’anni fa, raccontavamo un fatto accaduto in Francia nel 1970. Era successo che da mesi tutti i numeri di un giornale di estrema sinistra – la cause du peuple, si chiamava – erano stati sequestrati e i suoi direttori responsabili arrestati per reati d’opinione. I redattori avevano allora chiesto a Sartre di assumere lui la direzione. E lo scrittore non solo aveva accettato ma aveva lanciato apertamente la provocazione: improvvisandosi strillone, insieme a Simone de Beauvoir, era andato a diffondere il primo numero da lui firmato nelle strade di Parigi. Di fronte a quel gesto di sfida, il governo era arretrato: il giornale non venne più sequestrato e Sartre non fu incriminato. Il Presidente della Repubblica e il Ministro della giustizia si assunsero personalmente la responsabilità di quella scelta. La leggenda racconta che il generale De Gaulle – da qualche mese ormai ritirato a vita privata – approvando questa decisione del governo avesse esclamato: “non si può incarcerare Voltaire”.

Nessun episodio, più di questo, è in grado di svelarci contemporaneamente i possibili risvolti insiti in un sistema che preveda un collegamento organico fra ufficio del pubblico ministero ed esecutivo. Perché è vero che, nel caso che ho ricordato, la decisione del governo francese di non permettere l’incriminazione di Sartre fu un segnale di libertà: una scelta politica di tolleranza, che sottolineava la preminenza della cultura, il ruolo irrinunciabile per tutti, anche per le maggioranze al potere, dell’importanza e della necessità di tutelare le opposizioni, sia pure irriducibili ed estreme.

Ma questo lontano episodio degli epigoni del ‘68 francese ci spiega bene anche un’altra cosa: che discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale e subordinazione del pubblico ministero al potere politico sono indissolubilmente legate fra loro. Perché il Ministro – ordinando di non processare Sartre e così smentendo radicalmente l’indirizzo che la procura generale aveva seguito sino a quel momento – compiva una scelta squisitamente politica. E poteva compierla in quanto sollevava completamente, dalla responsabilità della decisione, l’ufficio del parquet, da lui dipendente. Di quella scelta avrebbero risposto soltanto il governo e il Presidente della Repubblica: di fronte all’elettorato.

E però: quel medesimo meccanismo, che permetteva al Ministro di non fare incarcerare Voltaire e di non togliere la parola all’opposizione, poteva anche consentire di bloccare, con la stessa facilità ma con minore pubblicità, un’inchiesta sgradita al Governo. Come la storia della quinta Repubblica in seguito dimostrerà.

Ebbene. Io non voglio che un giorno ci sia un generale De Gaulle o chiunque altro che possa dire a qualunque pubblico ministero: questa indagine non la fai. Ma se davvero vogliamo evitare questo esito, se vogliamo, anche in futuro, difendere l’indipendenza non solo del giudice ma anche del pubblico ministero, possiamo farlo soltanto dichiarando, rendendo trasparenti e discutibili le nostre ineliminabili scelte di politica giudiziaria. Negarle, quando invece a tutti sono clamorosamente evidenti, significa preparare un’autostrada alla dipendenza del pubblico ministero al potere politico.

La soluzione che ho appena accennato è soltanto una delle tante possibili. Forse inadeguata. Certamente altre se ne possono immaginare. Ma a questo dobbiamo pensare. Di questo dobbiamo parlare. Perché il nuovo ruolo che i magistrati (e soprattutto i pubblici ministeri) hanno assunto a partire dalla fine degli anni ’60 rende necessaria quella che il mio amico Pierluigi Zanchetta amava chiamare un “supplemento di legittimazione”. Su quali siano le forme con cui realizzare questo supplemento di legittimazione – senza che esso intacchi l’indipendenza – la discussione è aperta. è una discussione che certo non riguarda solo i magistrati. Ma di cui i magistrati non possono non farsi carico.     

 

 

 

[1] In proposito, va ricordato che, chiamata a pronunciarsi sul pressoché identico meccanismo deflattivo previsto per il processo minorile (art. 27 del dPR 22/09/1988, n. 448), la Corte costituzionale, con la sentenza n. 149 del 9 maggio 2003, ha esteso anche al giudice del giudizio ordinario la possibilità di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (che l’originario testo dell’art. 27 prevedeva soltanto per la fase delle indagini preliminari, per il giudizio direttissimo e l’immediato); in tale modo dando per acquisita e fuori discussione la “costituzionalità” della norma.

[2] Cfr. G. Conso, Introduzione a AA.VV. Pubblico Ministero e Accusa Penale. Problemi e prospettive di riforma. Bologna, 1979, XVI.

[3] A mero titolo di esempio, i reati che, a mio avviso, potrebbero essere inseriti in tale elenco sono i seguenti:

  1. Art. 5 co. 8 bis d.lgs. 286/98 (contraffazione o alterazione di visto o permesso di soggiorno o dei documenti per ottenerli).
  1. Art. 368 co. 1 e 2 cp (calunnia, se non deriva condanna ad una pena superiore a 5 anni di reclusione per il soggetto ingiustamente incolpato).
  2. Art. 372 cp (falsa testimonianza).
  3. Art. 495 cp (false attestazioni a p.u.).
  4. Art. 624-625 (purché mono-aggravato).
  5. Art. 648 cp (ricettazione di particolare tenuità).
  6. Art. 3 legge 75/58 (nel solo caso di favoreggiamento della prostituzione).
  7. Art. 73 co. 4 D.P.R. 309/90 [detenzione spaccio di sostanze stupefacenti di non lieve entità di cui alle tabelle II e IV (hashish e marijuana)]

 

31/10/2019
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