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Domicilio dichiarato o eletto e processo in absentia

di Lucia Vignale
Giudice Tribunale di Genova
L'autrice offre interessanti spunti per una lettura “convenzionalmente orientata” dell’art. 420 bis comma 2 c.p.p. così come recentemente novellato
Domicilio dichiarato o eletto e processo in absentia

1 - Con la legge 28/4/2014 n. 67, che ha disciplinato ex novo il procedimento in absentia abolendo l’istituto della contumacia, si è cercato di compiere un passo per facilitare la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri dell’Unione Europea e favorire il reciproco riconoscimento delle decisioni penali.

Muovendosi nella linea tracciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con le sentenze Somogy c. Italia  del 18.5.2004 e Sejdovic c. Italia del 10.11.2004 (quest’ultima confermata dalla Grande Camera con sentenza del 1.3.2006), il  legislatore italiano ha preso atto che, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo - e sulla base della interpretazione che la Corte Europea ne ha fornito - il diritto ad un processo equo include il diritto dell’interessato a comparire personalmente in giudizio, diritto al quale egli può rinunciare anche tacitamente, ma solo se è  stato informato della fissazione del processo.

Già nel 2009, dopo l’introduzione del Mandato di Arresto Europeo, il Consiglio dell’Unione Europea adottò una decisione quadro (2009/299/GAI del 26.2.2009) volta a rafforzare “i diritti processuali delle persone” e a promuovere “l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato”.

In quella decisione fu stabilito che “il riconoscimento e l’esecuzione” di decisioni pronunciate al termine di processi cui l’interessato non è comparso personalmente, “non dovrebbero essere rifiutati” dalle competenti Autorità degli Stati dell’Unione:

- se l’interessato “è stato citato personalmente e quindi informato della data e del luogo fissati per il processo terminato con la decisione[1];

- se l’interessato “è stato  di fatto informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo”, purché “sia stabilito inequivocabilmente che è al corrente del processo fissato[2];

- se l’interessato, “essendo al corrente del processo fissato, è stato patrocinato in giudizio da un difensore cui ha conferito il relativo mandato assicurando un’assistenza legale concreta ed efficace[3].

A tali requisiti minimi il nostro legislatore si è attenuto quando ha previsto che il processo penale possa essere celebrato in assenza:

- se l’imputato, libero o detenuto, anche se impedito, ha espressamente rinunciato ad assistere all’udienza;

- se l’imputato ha ricevuto personalmente la notificazione  dell’avviso dell’udienza.

In questi casi è positivamente accertata l’effettiva conoscenza della celebrazione del processo. E’ evidente quindi che, se l’imputato non è presente in giudizio è perché vi ha rinunciato, espressamente o tacitamente.

Sulla base dei medesimi principi il legislatore ha escluso che possa procedersi in assenza dell’imputato quando egli non abbia ricevuto personalmente la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, non abbia espressamente o tacitamente rinunciato ad assistervi, e nessuno degli indici di conoscenza del procedimento previsti dall’art. 420 bis comma 2 c.p.p. sia sussistente. In questi casi, ai sensi dell’art. 420 quater c.p.p, il giudizio deve rimanere sospeso fino a quando una notifica ricevuta personalmente dall’imputato consentirà di affermare con certezza che egli è informato del processo.

Con l’art. 420 bis comma 2 c.p.p. il legislatore ha disciplinato una ipotesi intermedia rispetto a quelle sin qui esaminate. Ha consentito infatti che si proceda in assenza dell’imputato quando  vi è stata conoscenza del procedimento, ancorché non vi sia certezza della conoscenza della celebrazione del processo.

Ciò si verifica, oltre che nel caso  in cui vi sia stata dichiarazione o elezione di domicilio (sul quale ci si soffermerà più avanti):

- se nel corso del procedimento l’imputato è stato arrestato o fermato o sottoposto a misura cautelare;

- se nel corso del procedimento l’imputato ha nominato un difensore di fiducia;

- se vi è comunque certezza che l’imputato è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo.

Come è evidente, la conoscenza del procedimento non postula affatto la conoscenza della celebrazione del processo.

Il legislatore tuttavia sembra ritenere che la prima sia sufficiente: essendo informato del procedimento, l’interessato può acquisire notizie sulla celebrazione del processo interpellando il difensore di fiducia o l’autorità procedente, sicché l’eventuale ignoranza della celebrazione del processo potrebbe dipendere da sua colpa.

Le garanzie previste dalle sentenze della CEDU e dal Consiglio dell’Unione Europea parrebbero rispettate. Il legislatore, infatti, garantisce un rimedio di tipo riparatorio all’imputato assente  in giudizio: se egli compare e prova che l’assenza è stata determinata da incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo è rimesso in termini per esercitare i propri diritti (art. 420 bis comma 4 c.p.p.e art. 489 c.p.p.).

In questo modo si procede non solo nel corso del giudizio di primo grado, ma anche in grado d’appello (ex art. 604 comma 5 bis c.p.p. ), nel giudizio di legittimità (art. 623 lett. b c.p.p.) e perfino dopo il passaggio in giudicato della sentenza (art. 625 ter c.p.p.). In tutti questi casi, le sentenze vengono annullate e gli atti restituiti al giudice di primo grado. La tutela riconosciuta all’imputato incolpevolmente assente quindi è completa: non si tratta di una mera remissione nei termini per proporre impugnazione; il processo deve ricominciare daccapo ed è fatta salva anche la possibilità per l’imputato di chiedere riti alternativi.

La scelta legislativa, non è immune da rilievi critici.

In caso di nomina di un difensore di fiducia l’imputato può conoscere lo stato del procedimento tenendosi in contatto col proprio legale e tuttavia questi potrebbe aver dismesso il mandato.

L’esecuzione di un arresto, di un fermo o di una misura cautelare non garantiscono affatto la possibilità di conoscere l’evoluzione del procedimento. E’ possibile infatti che tra l’arresto, il fermo e il giudizio passi molto tempo; l’arresto e il fermo potrebbero non essere stati convalidati; la misura cautelare potrebbe avere avuto breve durata e non aver comportato la nomina di un difensore di fiducia; il procedimento potrebbe essere stato trasmesso per competenza ad altro ufficio.

Non sarà infrequente quindi che giudizi regolarmente svoltisi in assenza, debbano essere ripetuti per incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo da parte dell’imputato.

Se, ad esempio, la dismissione di mandato da parte del difensore di fiducia fosse intervenuta prima del rinvio a giudizio, la successiva mancata conoscenza della celebrazione potrebbe essere incolpevole.

Allo stesso modo, potrebbe essere incolpevole la mancata conoscenza della celebrazione di un processo che si svolga dopo un arresto non convalidato dal P.M.; oppure presso una autorità diversa da quella del luogo in cui l’arresto o il fermo erano stati eseguiti; ovvero per un reato diverso da quelli in relazione ai quali l’imputato era stato sottoposto a misura cautelare.

2 - La più importante tra le situazioni che, ai sensi dell’art.420 bis comma 2 c.p.p., consente di procedere in assenza benché non vi sia prova della effettiva conoscenza della celebrazione del processo, è quella che si verifica quando,“nel corso del procedimento”, l’imputato ha “dichiarato o eletto domicilio”. Su questa ipotesi è necessario soffermarsi perché si tratta del caso di più frequente applicazione pratica.

Come è noto, il sistema delle notificazioni delineato dal nostro codice di rito ruota intorno alla disposizione dell’art. 161 c.p.p.

L’indagato (o imputato) è chiamato a collaborare lealmente alla notificazione indicando il luogo in cui vuole ricevere gli atti con una dichiarazione o elezione di domicilio che ha effetti tendenzialmente estesi all’intero procedimento ivi compresa la fase del giudizio.

L’art. 161 c.p.p. stabilisce che, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini, il P.M. o la P.G. devono invitare l’indagato ad eleggere domicilio per le notificazioni avvertendolo che ha l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che, in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore. Prevede poi che analogo invito debba essere formulato dall’autorità giudiziaria quando per la prima volta notifica un atto all’imputato o indagato. In tal caso egli deve essere avvisato che, se la dichiarazione o elezione di domicilio risulterà mancante, insufficiente o inidonea le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui l’atto è stato notificato.

Con l’invito a dichiarare o eleggere domicilio l’indagato è messo a conoscenza della pendenza del procedimento ed è invitato a indicare dove vuole ricevere tutti gli atti successivi. Avendo fornito questa indicazione egli ha l’onere di comunicare eventuali mutamenti del domicilio dichiarato o eletto e viene informato (a pena di nullità ex art.171 comma 1 lett e) che se non lo farà gli atti potranno essere validamente notificati presso il difensore ovvero nel luogo in cui è avvenuta la prima notifica.

Da quanto esposto emerge che, se vi è stata dichiarazione o elezione di domicilio, la eventuale mancata conoscenza della celebrazione del processo è tendenzialmente imputabile ad una negligenza dell’interessato che infatti si può lamentare solo se l’omessa comunicazione del mutamento del domicilio dichiarato o eletto è dipesa da caso fortuito o forza maggiore (art. 161 comma 4 ultima parte).

In coerenza con tale impostazione la novella legislativa ha previsto che si possa procedere in assenza dell’imputato che “nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio”.

Il ragionamento sotteso è lineare: l’imputato ha avuto conoscenza del procedimento quando ha dichiarato o eletto domicilio; ciò gli avrebbe consentito – se si fosse comportato secondo diligenza e lealtà - di venire a conoscenza della celebrazione del processo e, se lo avesse voluto, anche della data d’udienza. Se non è presente, quindi, è perché ha rinunciato ad esserlo o perché non si è adoperato, come avrebbe potuto fare, per ricevere le informazioni a lui destinate.

3 - I rimedi di tipo restitutorio previsti dagli artt. 420 bis comma 4 c.p.p., 489, 604 comma 5 bis, 623 lett. b) e 625 ter c.p.p., sono più completi di quelli assicurati dall’abrogato art.175 comma 2 c.p.p. e tuttavia, a ben guardare, i casi in cui il condannato in absentia può usufruirne sono più limitati.

L’articolo 175 comma 2 c.p.p.. prevedeva che la restituzione nel termine per proporre impugnazione dovesse essere sempre disposta a meno che non fosse provato che l’imputato aveva avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e aveva volontariamente rinunciato a comparire o a proporre impugnazione o opposizione.

L’art.420 bis comma 4 c.p.p., invece, pone a carico dell’interessato l’onere di provare che la mancata conoscenza della celebrazione del processo è stata incolpevole.

Tale previsione, collegata a quella dell’art. 161 c.p.p., sembra precludere a chi abbia dichiarato o eletto domicilio la possibilità di avvalersi delle garanzie restitutorie previste dalla novella legislativa.  L’imputato assente dovrebbe provare infatti che, pur avendo dichiarato o eletto domicilio ex art. 161 c.p.p., non ha avuto conoscenza del procedimento ovvero che, avendo avuto conoscenza del procedimento, è rimasto incolpevolmente ignaro della celebrazione del processo anche se gli atti gli sono stati notificati nel luogo che egli stesso ha indicato.

Come noto, nell’applicare l’art. 175 comma 2 c.p.p. la giurisprudenza ha ritenuto che l’elezione di domicilio non fosse da se sola idonea a fondare una valida presunzione di conoscenza del procedimento o del provvedimento da parte dell’imputato.

Si è sostenuto infatti:

- che l’elezione di domicilio presso il  difensore di fiducia consente di presumere la conoscenza del provvedimento solo fino a che permane il legame professionale, sicché nel caso in cui il difensore di fiducia ha dismesso il mandato e l’estratto contumaciale della sentenza è stato notificato presso di lui non può presumersi la conoscenza del provvedimento da parte dell’imputato (Cass. Sez.5 sent. 16330 del 20.3.2013);

- che la notificazione della sentenza contumaciale al difensore d’ufficio presso cui l’imputato abbia eletto domicilio in fase preprocessuale, non può ritenersi idonea a dimostrare l’effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento da parte dell’imputato (Cass.sez. 6 sent. 19781 del 5.4.2013);

- che l’omessa comunicazione del trasferimento del domicilio dichiarato o eletto non può interpretarsi di per se sola quale volontaria scelta dell’imputato di sottrarsi alla conoscenza legale del processo e delle sentenze (Cass. Sez. 1 sent. 30320 del 14.6.2013);

- che la notifica di un provvedimento presso il difensore d’ufficio domiciliatario non è idonea a dimostrare l’effettiva conoscenza del provvedimento in capo all’imputato salvo che la stessa non emerga “aliunde”, ovvero si dimostri che il difensore d’ufficio è riuscito a rintracciare il proprio assistito e ad instaurare un effettivo rapporto professionale con lui (Cass. Sez. 4 sent. n. 991 del 18.7.2013).

In presenza di un assetto normativo come quello precedente alla riforma tali conclusioni erano agevoli. L’art.175 comma 2 c.p.p., infatti, aveva introdotto nel sistema processuale una presunzione di non conoscenza che faceva gravare sul giudice l’onere di rintracciare negli atti la prova contraria. La restituzione nei termini per proporre impugnazione, quindi, era sempre possibile salvo che non fosse positivamente provato che il condannato aveva avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento.

Le nuove norme non si accontentano della conoscenza del procedimento o del provvedimento, ma richiedono la conoscenza della celebrazione del processo e prevedono che le sentenze pronunciate in assenza possano essere dichiarate nulle se tale conoscenza non vi è stata (per questa parte dunque prevedono una tutela più estesa rispetto a quella previgente). Quelle norme, però, sono  restrittive nel riconoscere la nullità delle sentenze pronunciate in assenza, nullità che non deriva (come era prima per la restituzione in termini) dalla semplice non conoscenza, ma richiede una mancata conoscenza incolpevole della celebrazione del processo. Soprattutto, con le nuove norme, cade la presunzione di non conoscenza: è l’imputato che deve provare di non aver saputo del processo e che tale mancata conoscenza non è attribuibile a sua colpa.

Le conclusioni fin qui raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità potrebbero quindi non essere confermate nel nuovo sistema.

Esemplificando: l’imputato che nel corso delle indagini aveva eletto domicilio presso un difensore di fiducia che in seguito ha dismesso il mandato potrebbe ottenere l’annullamento della sentenza pronunciata in assenza solo provando che, per fatto non imputabile a sua colpa, non ha potuto mantenere contatti col domiciliatario e gli ampi rimedi restitutori previsti dalla legge non opererebbero se tale prova non fosse fornita.

A conclusioni analoghe si potrebbe giungere in altri casi in cui l’applicazione dell’abrogato art. 175 comma 2 c.p.p. aveva avuto esito favorevole al condannato. Non si vede infatti in che modo potrebbe essere considerato incolpevole della mancata conoscenza della celebrazione del processo chi, dopo aver eletto domicilio presso il difensore d’ufficio, non si sia mai messo in contatto con lui; oppure chi, dopo aver dichiarato un domicilio, abbia omesso di comunicare all’autorità procedente di essersi trasferito.

4 - Se all’esito della riforma le garanzie che l’ordinamento riconosce a chi sia stato  condannato in assenza risultassero inferiori rispetto a quelle che una giurisprudenza di legittimità ormai consolidata riconosceva al condannato in contumacia, l’obiettivo di  armonizzare il sistema processuale ai principi sanciti dalla CEDU sarebbe stato mancato.

L’ipotesi che sotto questo profilo  presenta i maggiori profili di criticità è quella che si verifica quando l’imputato assente ha dichiarato o eletto domicilio nel corso del procedimento. Come illustrato, infatti, la dichiarazione o elezione di domicilio produce effetti che non si limitano al procedimento, ma si estendono al giudizio e sono idonei a rendere “non incolpevole” la mancata conoscenza della celebrazione del processo da parte dell’imputato.

Si impone pertanto una interpretazione “convenzionalmente conforme” in forza della quale la dichiarazione e l’elezione di domicilio consentono di procedere in assenza dell’imputato solo se sono realmente  idonee a garantire l’effettiva conoscenza del procedimento.

Fa propendere in tal senso la constatazione che in tutti i casi contemplati dall’art. 420 bis comma 2 c.p.p. diversi dalla elezione di domicilio la effettiva conoscenza del procedimento è positivamente provata.

Che sia così è ovvio quando la possibilità di procedere in assenza deriva dalla certezza che l’imputato ha conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto ad essa, ma la situazione non è dissimile negli altri casi. L’imputato che ha nominato un difensore di fiducia in relazione ad un procedimento sa che il procedimento è pendente o comunque può esserne informato dal suo avvocato. L’arresto, il fermo e la sottoposizione a misura cautelare presuppongono una accusa “strutturata” e determinano un contatto tra l’indagato e l’autorità procedente, sono quindi indici assai persuasivi della effettiva conoscenza del procedimento.

La dichiarazione e l’elezione di domicilio, invece, non garantiscono una analoga sicurezza perché potrebbero essere state fatte quando il procedimento era ancora in uno stato “embrionale” e le indagini, appena iniziate, non consentivano neppure di delineare con chiarezza una notizia di reato.

Muovendo da queste considerazioni, si è sostenuto che la dichiarazione e l’elezione di domicilio potrebbero considerarsi compiute “nel corso del procedimento” solo se sono successive all’iscrizione della notizia di reato perché solo con l’iscrizione il procedimento ha inizio.

La tesi non convince: il procedimento non comincia con l’iscrizione della notizia di reato, ma con il compimento del primo atto di indagine: è da quel momento, infatti, che si devono osservare le norme del codice di procedura e rispettare i diritti della difesa.

Se una persona viene fermata alla guida di un’auto e viene eseguito un alcoltest per accertare se è in stato di ebbrezza, il procedimento a carico di quella persona è iniziato anche se è sabato notte e l’iscrizione della notizia di reato potrà avvenire solo nella settimana seguente. Non vedo quindi come si possa sostenere che l’elezione di domicilio richiesta al conducente dell’auto sul luogo e nell’immediatezza del fatto è un atto “preprocedimentale”.

Senza dubbio le dichiarazioni ed elezioni di domicilio eseguite nel corso del procedimento possono avere caratteristiche diverse. Tali caratteristiche però non dipendono dal momento in cui l’atto viene compiuto, ma piuttosto dal contenuto che a quell’atto viene dato  dall’ Autorità che lo compie.

E’ allora ragionevole ritenere che non tutte le dichiarazioni o elezioni di domicilio compiute nel corso del procedimento consentano di procedere in assenza e che ciò sia possibile solo quando la forma e le modalità dell’atto sono tali da rendere l’interessato realmente consapevole dell’esistenza del procedimento.

In questa prospettiva, si potrebbe concludere che sia idonea a giustificare un processo in assenza soltanto un’elezione di domicilio compiuta in relazione ad un procedimento ben individuato e quindi completa della indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto (alla stregua della informazione di garanzia di cui all’art. 369 c.p.p.). Una elezione di domicilio con simili caratteristiche, infatti, può fondare una presunzione di conoscenza del procedimento che non sarebbe giustificata da un atto mancante di tali indicazioni.

L’interpretazione qui proposta non mira a sovvertire la consolidata giurisprudenza che considera valida ai fini delle notificazioni ogni elezione di domicilio compiuta nel procedimento. L’art. 420 bis , infatti, prevede molti casi in cui, pur in presenza di notifiche regolari non si può procedere in assenza (si pensi al caso della notifica per compiuta giacenza o a quella eseguita nel luogo di residenza a mani di un familiare convivente).

In queste situazioni il giudizio non può svolgersi in assenza perché non vi è certezza che l’imputato abbia avuto conoscenza della celebrazione del processo e tale incertezza non è compensata dalla constatazione che egli era informato della esistenza del procedimento.

Un ragionamento analogo può essere compiuto se nel corso del procedimento l’imputato aveva dichiarato o eletto domicilio. Le notifiche eseguite al domicilio eletto, infatti, possono essere considerate regolari senza per questo impedire al Giudice, che deve decidere se procedere in assenza, di valutare il contenuto dell’elezione di domicilio e decidere se da quell’atto si può desumere che l’imputato era informato dell’esistenza del procedimento (e quindi se si possa fare a meno di garantirgli la effettiva conoscenza della celebrazione del processo).

5 – Un problema diverso si pone quando la persona invitata ad eleggere domicilio (e destinataria degli avvertimenti di cui all’art. 161 c.p.p.) è un cittadino straniero.

In tal caso deve essere applicata la Direttiva Europea n.2010/64UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione degli atti nei procedimenti penali, recepita in Italia dal D.Lg 4.3.2014 n. 32.

E’ utile sottolineare che questa direttiva è ispirata dalla medesima finalità che ha indotto il legislatore a disciplinare ex novo il processo in assenza. E’ volta infatti ad avvicinare le legislazioni nazionali al fine di facilitare la cooperazione tra gli Stati membri dell’Unione e il reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale.

Come è scritto esplicitamente nei “considerando” della Direttiva, ciò presuppone “uno spirito di affidamento” non solo nella “adeguatezza delle normative” di cui ciascuno Stato membro è tenuto a dotarsi, “bensì anche nella corretta applicazione di tali normative[4]. Pertanto è  compito della Magistratura applicare e interpretare le norme in modo da renderle quanto più possibile coerenti con i diritti e con le garanzie stabilite dall’art. 6 della Convenzione.

Nella sentenza 317/09 (che riguardava proprio l’art. 175 comma 2 c.p.p.) la Corte Costituzionale ha ricordato che la tutela dei diritti fondamentali “deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loro”, ed è evidente che il coordinamento e l’armonizzazione tra le norme è affidata anche a coloro che devono interpretarle ed applicarle.

Il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva n.2010/64UE stabilendo che l’imputato che non conosce la lingua italiana abbia diritto ad un interprete per conferire col difensore, per comprendere l’accusa formulata contro di lui, per seguire il compimento degli atti  e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha stabilito inoltre che egli abbia diritto alla traduzione scritta (“entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa”) di alcuni provvedimenti (misure cautelari personali, avviso di conclusione delle indagini preliminari, decreti che dispongono l’udienza preliminare e la citazione a giudizio, sentenze, decreti penali di condanna). Di singoli atti non tipizzati può essere disposta la traduzione gratuita se il giudice li ritiene essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico.

L’ambito operativo del “diritto all’interprete e alla traduzione degli atti fondamentali” disciplinato dall’art.143 c.p.p. è delineato dal comma 4 in base al quale “l’accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dall’autorità giudiziaria”. La stessa disposizione prevede che la conoscenza della lingua italianasia “presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano”.

Il legislatore ha imposto all’autorità giudiziaria di accertare “la conoscenza” della lingua italiana, non la “mancata conoscenza” della stessa. Ha stabilito inoltre che la conoscenza dell’italiano sia presunta fino a prova contraria solo per chi è cittadino italiano. Ne consegue che, fino a quando la conoscenza della lingua italiana non è positivamente accertata, lo straniero ha diritto ad essere assistito da un interprete.

Questo diritto, che l’art. 143 comma 1 attribuisce al solo imputato, è certamente esteso anche all’indagato in virtù della clausola generale prevista dall’art.61 c.p.p.. L’indagato ha dunque diritto ad essere assistito da un interprete al fine di “seguire il compimento degli atti” cui partecipa.

La dichiarazione o elezione di domicilio non è un atto cui l’indagato partecipa, ma un atto che egli compie. Tuttavia questo atto è idoneo a produrre le conseguenze previste dall’art. 161 comma 4 c.p.p. (e consente di procedere in assenza dell’imputato ex art. 420 bis c.p.p.) solo se è preceduto da un invito ad indicare un luogo ove gli atti del procedimento dovranno essere notificati (e quindi da una informazione in ordine alla esistenza del procedimento) ed è seguito dagli avvertimenti previsti dall’art.161 commi 1, 2 e 3 c.p.p.. Tale “invito” e tali “avvertimenti” sono atti del procedimento rilevanti ai fini della regolare prosecuzione dello stesso ed essenziali perché l’indagato possa esercitare i propri diritti nell’eventuale successivo giudizio.

Alla  luce di tali considerazioni si deve concludere che, all’esito dell’entrata in vigore della direttiva 2010/64/UE e della legge 67/2014, le elezioni di domicilio eseguite ex art.161 da cittadini stranieri che non siano comparsi in giudizio sono valide solo se emerge dagli atti (e quindi può essere positivamente accertata dalla A.G.) la conoscenza della lingua italiana o, in mancanza, se l’invito ad eleggere domicilio e gli avvertimenti previsti dall’art. 161 commi 1, 2 e 3 sono stati rivolti o tradotti allo straniero nella sua lingua madre o in altra lingua veicolare.

Che cosa succede se ciò non è avvenuto.

Ad avviso della scrivente se l’invito ad eleggere domicilio e gli avvertimenti previsti dall’art. 161 commi 1, 2 e 3 c.p.p. sono rivolti al cittadino straniero in una lingua che egli non conosce l’elezione di domicilio è del tutto inidonea a raggiungere il proprio scopo. La circostanza che l’interpellato abbia indicato un indirizzo o individuato un domiciliatario, infatti, non consente di affermare che egli abbia compreso il motivo della richiesta e lo scopo cui la stessa era preordinata.

In questi casi, la mancanza della traduzione o interpretazione pregiudica la possibilità per l’imputato di intervenire in giudizio e comporta una nullità di ordine generale ex art. 178 lett.c) c.p.p., nullità che travolge tutte le notifiche successive, salvo quelle eseguite a mani dell’interessato che riguardino un atto tradotto ex art. 143 c.p.p.

Ove non si volesse seguire una tale impostazione si dovrebbe fare riferimento all’art.171 lett. e) c.p.p. in base al quale “la notificazione eseguita mediante consegna al difensore” è nulla “se non è stato dato l’avvertimento nei casi previsti dall’art. 161 commi 1, 2 e 3”.

Quando gli avvertimenti previsti dall’art.161 non sono stati rivolti o tradotti allo straniero nella sua lingua madre o in altra lingua veicolare e non vi è prova che egli conosce la lingua italiana, quegli avvertimenti devono considerarsi come “non dati”. Ciò comporta la nullità di tutte le notificazioni eseguite ex art. 161 comma 4 c.p.p. mediante consegna al difensore.

L’art. 171 lett. e) non incide sulla validità delle notificazioni eseguite presso il domiciliatario anche se si tratta di un difensore d’ufficio e l’imputato è, di fatto, irreperibile. In questi casi, tuttavia, il domiciliatario potrebbe non accettare la notifica, imponendone la ripetizione ex art. 161 comma 4 c.p.p. per sopravvenuta inidoneità del domicilio eletto. Tale ultima notifica sarebbe nulla ex art. 171 lett. e) c.p.p. sicché  il procedimento dovrebbe regredire alla fase delle indagini preliminari e, per poter eseguire notifiche valide, si dovrebbero disporre ricerche.

L’imputato “irreperibile di fatto” potrebbe così diventare realmente e concretamente reperibile, ovvero “irreperibile di diritto” e in quest’ultimo caso il processo sarebbe sospeso ex art. 420 quater c.p.p. come è giusto che sia.

Per una volta, la tutela delle garanzie potrebbe coniugarsi con le esigenze della “spending review”: risorse ed energie fin qui destinate a processare persone che in concreto nulla sanno del giudizio potrebbero essere più utilmente investite.*

 
 
*L’articolo è stato redatto prima del regime transitorio previsto dal 11 agosto 2014, n. 118  e dunque non ne tiene conto


[1] Considerando n.7 prima parte

[2] Considerando n.7 seconda parte

[3] Considerando n.10

[4] Direttiva Europea n.2010/64UE - Considerando n. 4 

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Di seguito alcuni modelli di ordinanze predisposte dall'autrice:

INIDONEITA' DOMICILIO ELETTO

STRANIERO ALLOGLOTTA - NULLITA' 161

 

Leggi anche: R.Magi, Quale regime transitorio per le modifiche in tema di contumacia e irreperibilità

26/06/2014
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