Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Violenza privata ed effetto dei mezzi coercitivi. Nota a Corte d’appello di Milano, n. 2635 del 28 marzo–10 maggio 2023

di Giuseppe Battarino
Presidente del Comitato comasco per il centenario di Giacomo Matteotti, già magistrato

La Corte d’appello di Milano ha assolto, perché il fatto non sussiste, tredici militanti del “Veneto Fronte Skinheads”, condannati in primo grado dal Tribunale di Como per violenza privata, per avere interrotto una riunione della rete di associazioni “Como senza frontiere” e occupato la stanza dove alcuni volontari si trovavano, obbligandoli ad assistere alla lettura di un proclama politico contro l’attività svolta dalle associazioni a favore dei migranti.

1. La vicenda del Chiostrino di Sant’Eufemia

Il 28 novembre 2017 era in corso una riunione di volontari della rete di associazioni “Como senza frontiere”, impegnata nell’assistenza ai migranti, nel luogo sito nel centro di Como denominato Chiostrino di Sant’Eufemia, in cui l’amministrazione comunale aveva messo a disposizione uno spazio per lo svolgimento di incontri associativi.

Per passare subito alla declinazione processuale dell’accaduto, il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale a carico di tredici militanti dell’organizzazione di estrema destra “Veneto Fronte Skinheads” con la seguente imputazione:

«per il reato di cui agli artt. 110, 112 comma 1 n. 1 e 2 e 610 c.p., perché, in concorso tra loro, quali militanti del "Veneto Fronte Skinheads", con violenza e minaccia consistita:
nell'irrompere senza alcun preavviso (pur avendola pianificata ed organizzata) nei locali del Chiostro Sant'Eufemia siti a Como in Piazzale G. Terragni n. 4, con fare intimidatorio ed arrogante; 
nel sistemarsi alle spalle di volontari dell'associazione "Como Senza Frontiere" nel corso di una riunione; 
nel pretendere silenzio assoluto;
li costringevano ad ascoltare l’integrale lettura di un comunicato teso a stigmatizzare l'attività dell'Associazione stessa rispetto alla gestione dei migranti giunti a Como e provincia».

Ritornando alla vividezza del fatto, spogliato della sua sussunzione giuridica, un compatto gruppo di tredici skinheads, vestiti in maniera uniforme di nero (come da disposizioni del capo della squadra che aveva ordinato «bomber e anfibi») entra in una saletta dove si trova un analogo numero di volontari dell’associazione di assistenza ai migranti; si schiera intorno ai volontari fissandoli con ostilità; impone il silenzio; e mantiene questa situazione fino a che il capo del gruppo non ha terminato di leggere un proclama politico di impronta razzista e contro l’attività svolta dall’associazione a favore dei migranti; mentre un altro militante del gruppo di estrema destra documenta con un video l’esemplare azione.

Una volta esaurita la lettura del proclama, il capo della squadra degli skinheads, “autorizza” i volontari a tenere la loro riunione, con queste parole: «ora potete riprendere a discutere di come rovinare la nostra patria»; seguono espressioni rivolte ai volontari del tipo «nessun rispetto per voi» e almeno un saluto romano[1].

 

2. La sentenza del Tribunale di Como 

Con sentenza del 2 febbraio 2022, resa ad esito di giudizio abbreviato condizionato, il Tribunale di Como, in composizione monocratica (giudice: Emanuele Quadraccia) ha condannato i tredici imputati; pronunciato condanna generica al risarcimento del danno a favore di dodici persone offese, costituitesi parte civile (aderenti a “Como senza frontiere” presenti alla riunione); ha respinto le domande risarcitorie di ANPI Como e ARCI Como.

L’integrazione probatoria richiesta ai sensi dell’art. 438, quinto comma, c.p.p. è consistita nell’esame di un consulente della difesa.

Osserva il giudice, sulla base degli atti di indagine, che i tredici imputati erano entrati nella piccola sala, dove si trovavano i volontari «con fare platealmente intimidatorio, all’interno dei locali ove era in corso la riunione, piazzandosi, in piedi, alle spalle dei predetti volontari e occupando, di fatto, tutto il perimetro della sala, costringendo conseguentemente costoro ad interrompere il dibattito e a permanere seduti».

Va del resto evidenziato come l’intera azione risulti documentata con un video, come detto, prodotto dagli stessi imputati per documentare la loro “azione esemplare” contro chi si occupava dell’accoglienza di migranti.

Nella sentenza si fa riferimento al fatto, risultante dagli atti di indagine, che la condotta degli imputati era stata attentamente pianificata mediante uno scambio di messaggi di carattere organizzativo e logistico e aveva l’obiettivo di replicare analoghe azioni poste in essere in altre città dalla stessa organizzazione di skinheads, tra cui una realizzata in provincia di Mantova solo quattro giorni prima dei fatti di Como.

Il giudice richiama in maniera ampia la giurisprudenza di legittimità (Cass., V, n. 2480 del 2000; Cass., V, n. 35237 del 2008; Cass., V, n. 20895 del 2011; Cass., V, n. 10133 del 2018) che ha delineato i termini per riconoscere la sussistenza del delitto di violenza privata con riferimento, tra l’altro, all’intervento della condotta dell’agente per ridurre la capacità di autodeterminazione del soggetto passivo del reato.

E’ centrale nella motivazione l’efficace descrizione del rapporto di soggezione che la squadra degli skinheads ha prodotto nei confronti dei pacifici convenuti alla riunione nella saletta: «dopo aver fatto irruzione nella sala del Chiostro di Sant’Eufemia, hanno intimidito gli astanti, interrompendone la riunione e costringendo questi a subire, per un apprezzabile lasso temporale, la paralisi dell’attività […] i prevenuti, tutti con identiche uniformi nere, si sono schierati, in piedi, alle spalle dei partecipanti alla riunione, distribuendo alcuni volantini e attuando un “marcaggio a uomo” di uno ad uno (tredici skinheads per tredici volontari delle associazioni), obbligando questi ultimi ad ascoltare, in silenzio e seduti, la lettura del comunicato in precedenza preparato. All’imbarazzo iniziale, è subentrato, come si osserva dall’attenta visione dei filmati in atti, il terrore per ciò che stava accadendo e per quanto poteva scaturirne. Sui visi dei volontari si apprezza, difatti, la tensione e la sofferenza provocate dall’irruzione squadrista, retaggio di una cultura dell’odio e della violenza che, nella stessa retorica dei prevenuti, si contrappone alla logica dell’accoglienza propugnata “da questa pletora di associazioni, che muovendosi nelle zone oscure del fenomeno migratorio, sono anni che ne favoriscono più o meno evidentemente la diffusione e lo sfruttamento” (00:00:22-00:00:33 del filmato integrale). Scorrendo i fermo-immagine del video girato dagli stessi skinheads, che inquadra la sala nella sua interezza, si colgono i volti preoccupati dei volontari, la maggior parte dei quali ha assunto, nel frangente, posture di profondo ed eloquente sgomento (capo chinato, occhi bassi, ecc.). A ciò fa da contraltare l’espressività compiaciuta degli imputati, i quali, a petto in fuori e braccia conserte, hanno cinto le persone offese, in un gelido, compiaciuto “abbraccio”».

Non è inutile sottolineare come il rapporto di coartazione – e il dolo che lo sostiene - si possa qualificare proprio attraverso quel gelido compiacimento per la ricercata, pianificata e avvenuta “occupazione di uno spazio nemico”, di cui le espressioni degli skinheads sono l’immediata rappresentazione.

La tesi difensiva, veicolata dal consulente, che, come si vedrà più oltre costituisce il nucleo della motivazione assolutoria della Corte di appello, viene affrontata dal giudice di primo grado in termini chiari e netti: «La ricostruzione delle emozioni vissute dalle pp.oo. attraverso l’estrapolazione, ad libitum, di singoli frame del girato, raffiguranti la mimica facciale di costoro, e la sottoposizione di questi a “sondaggio” da parte di “spettatori” non altrimenti identificati, si appalesa come frutto di mere supposizioni, prive di una seria base scientifica».

L’efficacia coercitiva dell’occupazione può essere peraltro letta anche attraverso la consapevolezza che il piccolo gruppo di volontari, associativamente e politicamente impegnati, certamente aveva della soggettività degli incursori: come nota il giudice di primo grado “Veneto Fronte Skinheads” è un’organizzazione di per se stessa idonea a incutere timore: aderisce alla guardia d’onore Benito Mussolini, organizza convegni sul pensiero fascista, partecipa ad annuali commemorazioni di Rudolf Hess, produce materiali e compie azioni coerenti con una inequivoca adesione ideologica. 

D’altro canto il materiale probatorio utilizzato dal giudice comprendeva anche le univoche sommarie informazioni rese dai volontari, che danno conto di un «senso di costernazione e di impotenza […] per l’intimidatorio accerchiamento»; a fronte del quale il comportamento consapevolmente passivo delle persone offese ha evitato che la vicenda degenerasse in aperta violenza (la mancata reazione, lo si vedrà, viene invece interpretata dai giudici milanesi come acquiescenza che esclude il reato).

E’ bene precisare che la situazione verificatasi, di cui la sentenza di primo grado efficacemente dà conto, è cosa ben diversa da una generica contestazione proveniente da dissidenti rispetto a una pubblica manifestazione culturale o politica: non vi è stata una dialettica, quantunque aspra, rumorosa o financo offensiva: bensì una «autonoma costrizione coercitiva» nell’ambito della quale il contesto palesemente (ed efficacemente) minatorio ha costretto i presenti a subire un proclama contro i «non popoli» (così si esprime un passaggio).

E’ palese come l’intento dell’azione esemplare non fosse quello di istituire una dialettica con i portatori di un pensiero alternativo, bensì quello di dimostrare che il “Veneto Fronte Skinheads” era in grado di occupare militarmente un territorio di nemici della patria. 

 

3. La sentenza di appello: la consulenza sulla paura

Sull’appello degli imputati condannati in primo grado la Corte d’appello di Milano, sezione II penale, si è pronunciata con sentenza del 28 marzo 2023, le cui motivazioni sono state depositate il 10 maggio 2023. 

La Procura generale aveva chiesto la conferma delle condanne; la Corte d’appello ha assolto tutti gli imputati perché il fatto non sussiste.

Le argomentazioni della Corte rappresentano in alcuni passaggi dei corollari in cui sostanzialmente vengono recepiti i motivi di appello dei difensori; in altri, che pure aderiscono alle argomentazioni degli appellanti, si atteggiano come nucleo argomentativo centrale che porta i giudici milanesi a ritenere l’insussistenza del fatto contestato agli imputati.

Partendo dai corollari, osserva la Corte d’appello che «i tredici imputati […] entrano uno alla volta, camminando, senza impeto violento o con la forza, in silenzio e senza rumoreggiare, senza rivolgersi a nessuno, se non per consegnare volantini, senza gesti particolari, e soprattutto senza costringere nessuno a spostarsi ovvero a rimanere nel posto in cui si trovava; neppure è stato spostato alcun mobile o suppellettile della stanza».

La visione del luogo, che pure la Corte aveva a disposizione nel video, rende invero singolari queste affermazioni.

Siamo in una stanza di meno di quaranta metri quadrati, in cui già si trovano una decina di persone sedute a un tavolo e un paio in piedi, contornata da scaffalature, con un’unica piccola porta d’ingresso.

Sembra difficile immaginare come altre tredici persone – gli imputati – avrebbero potuto entrare se non «uno alla volta», salvo volersi ridicolmente accatastare.

In questa situazione del luogo poco comprensibile è poi il rilievo, a favore degli imputati, che essi non abbiano spostato alcun mobile o suppellettile: non era necessario, per occupare la stanza, spostare un armadio o un attaccapanni.

E la visione dei giudici milanesi sembra davvero lontana dalla comune esperienza quando, pure a favore degli imputati, li mostra come occupanti la sala «in silenzio e senza rumoreggiare, senza rivolgersi a nessuno»: è invece proprio questa la deliberata dimostrazione della forza di un occupante, che mostra gelido disprezzo per i nemici occupati, che compie la sua azione guardando dall’alto in basso – letteralmente è ciò che accade, gli skinheads sono in piedi e circondano i volontari seduti  – i miserabili traditori della patria che osano aiutare i migranti.

Senza particolare argomentazione la Corte dichiara poi non attendibili le testimonianze delle persone offese che avevano spiegato come gli skinheads avessero interrotto la riunione e imposto l’ascolto del loro proclama: e in effetti a chiusura delle motivazioni, con formula perentoria, la Corte afferma che «l’attendibilità delle persone offese, costituitesi parti civili, e quindi anche portatrici di un interesse personale a un certo esito dell’odierno procedimento, deve essere vagliata con la massima attenzione» per concludere che le loro dichiarazioni non possono essere poste a fondamento di un giudizio di responsabilità penale.

Vi è però da considerare che non ci si può limitare a una rituale affermazione di scarsa attendibilità delle parti civili: ciò che la giurisprudenza di legittimità richiede è un vaglio delle dichiarazioni del testimone «portatore di un astratto interesse a rilasciare dichiarazioni eteroaccusatorie», non l’apodittica negazione dell’autonomo valore probatorio delle stesse (sul punto: Cass., V, sent. n. 21135 del 26 marzo 2019; ivi richiamata Cass. SS.UU. n. 41461 del 19 luglio 2012).

Va poi sottolineato che la scelta del giudizio abbreviato ha fatto sì che le dichiarazioni testimoniali utilizzabili per il giudizio fossero quelle rese nell’immediatezza del fatto, in corso di indagine: dunque quando la costituzione di parte civile era processualmente ben lungi dall’essere ipotizzabile.

Né si può omettere di considerare che l’insieme delle costituzioni di parte civile ha avuto un significato assai lontano dalla mera rivendicazione di utilità economica: sia i singoli esponenti di “Como senza frontiere”, che le organizzazioni ammesse (ANPI, ARCI), che quelle non ammesse come parte civile, avevano agito sulla base della volontà di essere presenti attivamente in un processo penale per un fatto che aveva inciso in maniera forte su una significativa realtà cittadina[2].

Ma la Corte si incammina verso l’argomentazione giuridica principale proprio richiamando – con possibile contraddizione – il valore probatorio di una sola delle testimonianze, quella di una delle volontarie presenti nella saletta la quale dice che erano «tutti attoniti, inquietati ma non spaventati per quanto stava accadendo».

L’assenza di timore palesato – nei termini probatori di cui tra breve si dirà – diviene ad avviso della Corte, come si legge nell’affermazione conclusiva delle motivazioni, «assenza di violenza e di minaccia nella condotta in concreto tenuta dagli imputati», il che «esclude che si possa ritenere integrata la fattispecie della violenza provata [rectius: privata] non essendo sufficiente la costrizione a fare o a tollerare qualcosa».

La ricostruzione della Corte d’appello può essere ricondotta a sequenze logiche estranee, ad avviso di chi scrive, al dettato normativo.

Nell’articolo 610 del Codice penale elemento di fattispecie è la violenza o minaccia costrittiva che produca l’effetto, anch’esso disegnato nella norma incriminatrice, di «fare, tollerare od omettere qualche cosa».

Non si può ritenere che sia qualificabile come violenza o minaccia solo quella che produca l’espressione di timore nella persona offesa: la fattispecie penale si incentra sulla condotta e sull’evento da essa causato consistente nella lesione del diritto di autodeterminarsi della persona offesa, non su un effetto intermedio necessario da prodursi nell’animo dell’offeso.

Con un’imprevista integrazione dei reali elementi della fattispecie incriminatrice, la Corte d’appello di Milano sembra costruirla come “costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, provocando visibile timore” (elemento che nella prospettazione dei giudici milanesi avrebbe dovuto essere provato e di cui, sulla base della consulenza difensiva, non vi sarebbe prova).

La condotta deve essere «effetto dei mezzi coercitivi», secondo la successione impiego di mezzi aventi capacità costrittiva – stato di costrizione della volontà[3]: la determinazione del soggetto passivo di «fare, omettere o tollerare» può derivare da una valutazione dell’impraticabilità di un’opposizione alla condotta prevaricatrice.

I volontari di “Como senza frontiere” posti di fronte alla presenza, in pari numero e con attitudine fisicamente preponderante, dei militanti di “Veneto Fronte Skinheads” intenzionati a occupare la saletta, interrompere la riunione e leggere il loro proclama, hanno subito la prevaricazione, dimostratasi efficace.

Condotta alternativa sarebbe stata quella di un’opposizione fisica, che – si deve razionalmente ritenere – avrebbe prodotto la soccombenza dei volontari di “Como senza frontiere”.

Sicché risulta singolare anche su questo punto la motivazione della Corte d’appello che scrive, a favore della tesi dell’insussistenza del reato, che «nessuno dei presenti ha chiesto di interrompere la lettura del comunicato, o di uscire dalla stanza, o ha manifestato, con gesti o con parole, alcunché in contrario».

Evitare di opporsi, da parte di alcune donne e uomini pacifici e di tutte le età, a un gruppo organizzato e numeroso, che li circonda, di giovani skinheads, non sembra essere un criterio utile ad attestarne l’adesione all’azione di costoro.

Come si è accennato, la Corte d’appello ricava l’assenza di violenza e di minaccia e dunque l’insussistenza del reato dal contenuto di una consulenza difensiva, ammessa nel giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438, quinto comma, c.p.p. .

Afferma la Corte d’appello che il giudice di primo grado «non ha tenuto nel debito conto le risultanze della consulenza tecnica della difesa, circa la relazione fra emozione soggettiva e suo riflesso nel volto del soggetto passivo, nonché circa la verifica sui volti delle persone offese, ritratti nel corso del fatto in contestazione».

Secondo il consulente della difesa, a cui la Corte devolve tale specifica valutazione della prova, la capacità dei testimoni «di riportare in modo accurato quanto accaduto, è molto bassa»[4]; mentre «l’esito della ricerca scientifica è stato nel senso che nessuna delle facce esaminate dai partecipanti, è stata identificata come quella di una persona che prova paura».

Questo risultato – decisivo per affermare da parte della Corte d’appello l’insussistenza del fatto - è ricavato da una ricerca svolta come segue (così si legge nelle motivazioni della sentenza di appello): «il c.t. della difesa ha estrapolato dai video girati sulla scena del fatto, una serie elevata di frame (n. 73), che rappresentano la mappatura completa di tutte le espressioni dei volti delle persone offese, ripresi in più occasioni, e li ha sottoposti a due gruppi di partecipanti alla ricerca. Al primo gruppo, composto da n. 101 partecipanti, è stato chiesto di identificare, tra una serie di emozioni, quella che la faccia vista rappresentava; mentre al secondo gruppo è stato chiesto di identificare la faccia, in relazione all'emozione, ma con la specificazione del contesto politico in cui si è svolto il fatto».

Secondo questa “giuria” organizzata dal consulente della difesa, i volontari circondati dagli skinheads non avevano sul volto un’espressione impaurita: dunque non vi è stata violenza o minaccia costituiva del reato.

L’introduzione di conoscenze scientifiche nel processo penale è tema di crescente sensibilità[5].

Un governo non corretto di apporti scientifici - o dichiarati come tali -nel processo penale rischia di aprire la strada a derive di difficile controllo nel contesto delle regole processuali.

Si consideri, con solo apparente paradosso, come, accedendo alla ricostruzione che i giudici milanesi hanno operato, la prova di ogni delitto a presupposto violento o minatorio potrebbe essere condizionata dalla dimostrazione “scientifica” o deduttiva della percepibilità/valutabilità della paura ingenerata: sicché una persona offesa estorta, rapinata o violentata, che, ad esempio nel filmato acquisito da una videocamera di sorveglianza, non mostrasse (ad avviso di un panel di spettatori o di un consulente) visibile timore, si dovrebbe ritenere non aver subito una violenza o minaccia penalmente rilevante.

 

4. Il reato di violenza privata: tassatività della fattispecie e modernità del bene protetto

La vicenda processuale qui esaminata consente alcune ulteriori osservazioni.

La fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 610 del Codice penale è tradizionalmente ritenuta in dottrina e giurisprudenza avente natura residuale, affermandone il «carattere sussidiario e generico perché diretto a reprimere fatti di coercizione non espressamente considerati da altre disposizioni di legge, né come elemento costitutivo, né come circostanza aggravante di diverso reato»[6].

Questa caratteristica, insieme alla debole tassatività di un elemento di fattispecie, cioè il “qualche cosa” che l’azione illecita costringe a «fare, tollerare od omettere»[7] è suscettibile di produrre da un lato l’uso della violenza privata come reato-omnibus; dall’altro la richiesta di uno standard probatorio impervio: con simmetrici potenziali effetti di eccessiva estensione o eccessiva contrazione della area del penalmente rilevante in concreto.

Esiste per contro la possibilità di dare una veste “moderna” al delitto del 1930, con l’ausilio di una giurisprudenza - di merito e di legittimità - che valorizzi una lettura orientata ad alcune “cuspidi” costituzionali rilevanti.

Per brevi cenni in questa sede: il rispetto dell’inviolabile libertà personale, considerando il precetto dell’art. 13, primo comma, della Costituzione, che nasce come limite ai poteri pubblici, altresì come criterio determinante i limiti dell’agire privato; il rispetto del manifestarsi libero del pensiero, sia nella declinazione dell’articolo 21 della Costituzione, sia, a monte, nella lettura dell’articolo 2 della Costituzione, come espressione di una realizzazione della personalità in formazioni sociali e come tutela dell’esercizio del dovere di solidarietà; in una logica complessiva di promozione e non negazione della libertà e dignità altrui e di tutela della sicurezza dei cittadini «intesa in senso completo e costituzionalmente fondato e non riduttivamente sicuritario»[8].

Con questi presupposti la fattispecie incriminatrice può coprire ambiti di protezione della libertà individuale – in sé considerata e in quanto si esprime in formazioni sociali - senza che ogni “atto interruttivo” istitutivo di una dialettica venga comunque ricondotto al paradigma della violenza privata, senza che in esso venga fatta rientrare qualsiasi azione indesiderata o “disobbediente”[9], e invece riservando lo strumento penale agli ambiti che già la giurisprudenza di legittimità ha definito[10] e che nella giurisprudenza di merito vengono individuati in nuove forme di aggressione determinate dall’asimmetria di posizioni[11]. Con il positivo risultato di rivisitare la risalente giurisprudenza, modellatasi nel corso del tempo con riferimento a una pluralità di fatti concreti, che attribuisce al delitto di violenza privata il compito di tutelare la libertà psichica e morale[12] ovvero l’autodeterminazione[13] del soggetto passivo. 

In ogni caso, e particolarmente a fronte della necessità di conciliare le esigenze sopra sinteticamente richiamate, la capacità di immedesimarsi nel “fatto della vita” che reclama “sussunzione” nelle norme è elemento fondante del lavoro del magistrato, che si sostanzia anche in una reale conoscenza del territorio e delle dinamiche sociali.

Anche da questo punto di vista le Corti d’appello (le più grandi delle quali hanno bacini di utenza di molti milioni di cittadini e sono gravate da numeri impressionanti) rappresentano uno snodo critico della giurisdizione, poiché accanto a un’attitudine personale o maturata attraverso una formazione continua, esistono anche condizioni organizzative e ordinamentali perché quell’elemento fondante sia condiviso e si sviluppi.


 
[1] Cronaca e documentazione in https://ecoinformazioni.com/2017/11/28/provocazione-contro-como-senza-frontiere/ da cui è tratta l’immagine pubblicata.

[2]  Il 9 dicembre 2017 si era svolta a Como, quale risposta politica all’azione degli estremisti di destra, una manifestazione con la presenza di molte migliaia di persone: https://ecoinformazioni.com/2017/12/09/video-lintervento-di-como-senza-frontiere-a-e-questo-e-il-fiore/

[3]  E. Mezzetti, Violenza e minaccia, in  Digesto – Discipline penalistiche, XV, 1999, p. 276.

[4]  La Corte d’appello introduce, in un’unica riga di motivazione, un ulteriore tema, quando afferma «vi è stato il cosiddetto contagio dichiarativo, in quanto le persone presenti hanno commentato tra loro il fatto accaduto»; si tratta di questione di elevato spessore nella valutazione della prova dichiarativa, sulla quale scienza e diritto si confrontano da tempo, con esiti articolati che non paiono rinvenirsi nella sentenza in commento. Si veda, sotto il profilo scientifico, in questa Rivista, M.G. Calzolari, G. Lopez, Dichiarazioni a reticolo nelle violenze sessuali e nei maltrattamenti collettivi di bambini, 3 giugno 2020, https://www.questionegiustizia.it/articolo/dichiarazioni-a-reticolo-nelle-violenze-sessuali-e-nei-maltrattamenti-collettivi-di-bambini_03-06-2020.php; e, per quanto riguarda le delicate questioni sulla valutazione della prova dichiarativa in casi particolari e sul complesso rapporto tra ambito giudiziario e ambito consulenziale: Silvia Recchione, La prova dichiarativa del minore nei processi per abuso sessuale: l'intreccio (non districabile) con la prova scientifica e l'utilizzo come prova decisiva delle dichiarazioni. Riflessioni a margine di Cass., Sez. III, 4 dicembre 2012, n. 3258 e di Cass., Sez. IV, 12 marzo 2013, n. 16981, in Diritto Penale Contemporaneo, 8 novembre 2013, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/2625-la-prova-dichiarativa-del-minore-nei-processi-per-abuso-sessuale-l-intreccio-non-districabile-con-l

[5] Per un approccio multidisciplinare di base v. M. Cucci, G. Gennari, A. Gentilomo, L’uso della prova scientifica nel processo penale, Maggioli, 2012.

[6] Cass., V, n. 5700 del 24 febbraio 1986.

[7]  Sul punto si veda la recentissima, Cass., V, n. 1066 6 del 13 marzo 2023: «la questione di diritto proposta all'esame di questa Corte si traduce nella valutazione del se, nel caso di specie, sia ravvisabile la costrizione a tollerare "qualcosa" di diverso ed ulteriore rispetto alla mera irruzione nell'ufficio della persona offesa e ai fatti di minaccia contestati. Come premesso, dalla stessa sentenza impugnata, emerge che la condotta dell'agente - oltre a imporre alla persona offesa, attraverso l'irruzione nel suo ufficio, di tollerarne la sua presenza - si è tradotta nella interruzione dell'attività alla quale il […] stava attendendo e nel sottrarsi mediante la fuga, prima, riparandosi dietro la stazza fisica di una persona presente nel corridoio, e poi rifugiandosi nell'ufficio di una collega, chiudendosi a chiave e uscendovene solo dopo avere ricevuto rassicurazioni circa l'allontanamento dell'imputato. Nei termini indicati, la fattispecie concreta rientra pienamente nel perimetro descrittivo della norma. Infatti […] nel caso al vaglio è dato ravvisare un evidente rapporto di alterità tra l'irruzione dell'imputato nell'ufficio della persona offesa - determinante un mero pati - e la successiva ed autonoma costrizione coercitiva, effettivamente realizzatasi già con la interruzione dell'attività fino a quel momento dispiegata dalla persona offesa e poi proseguita con l'allontanamento dal posto di lavoro, in tal guisa sottoponendola ad un evento diverso ed ulteriore rispetto alla mera tolleranza della presenza del ricorrente e delle minacce comunque rivolte al […]».

[8] In questa Rivista: G. Battarino, Coartazione a comunicare e violenza privata (nota a Tribunale Milano, Sez. VII pen, sentenza 30 gennaio 2021), 30 marzo 2021, https://www.questionegiustizia.it/articolo/coartazione-a-comunicare-e-violenza-privata 

[9] In questa Rivista, A. Natale, Open Arms: l’avviso di conclusione indagini. Se la disobbedienza diventa violenza, 18 dicembre 2018, https://www.questionegiustizia.it/articolo/open-arms-l-avviso-di-conclusione-indagini-se-la-disobbedienza-diventa-violenza_18-12-2018.php

[10] Cass., V, n. 6208 del 14 dicembre 2020 , così massimata: «L'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, diversa dal fatto in cui si esprime la violenza, sicché il delitto di cui all'art. 610 cod. pen. non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l'evento naturalistico del reato, ossia il "pati" cui la persona offesa sia costretta. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il reato di violenza privata nella condotta di un gruppo di manifestanti che, dopo aver fatto irruzione nella sala di un convegno, avevano minacciato il relatore, così da costringere questi ed i partecipanti a subire, per un apprezzabile lasso temporale, l'interruzione dell'attività scientifica in atto)».

[11]  G. Battarino, Coartazione, cit.

[12]  Cass., V, n. 10133 del 6 ottobre 1983.

[13] Cass., V, n. 3792 del 26 gennaio 1979; fino alle più recenti, tra cui Cass., V, n. 40485 del 1° luglio 2019. 

15/06/2023
Altri articoli di Giuseppe Battarino
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.
Violenza privata ed effetto dei mezzi coercitivi. Nota a Corte d’appello di Milano, n. 2635 del 28 marzo–10 maggio 2023

La Corte d’appello di Milano ha assolto, perché il fatto non sussiste, tredici militanti del “Veneto Fronte Skinheads”, condannati in primo grado dal Tribunale di Como per violenza privata, per avere interrotto una riunione della rete di associazioni “Como senza frontiere” e occupato la stanza dove alcuni volontari si trovavano, obbligandoli ad assistere alla lettura di un proclama politico contro l’attività svolta dalle associazioni a favore dei migranti.

15/06/2023