Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di ottobre 2022

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di ottobre 2022

Per il mese di ottobre, sono state selezionate pronunce riguardanti i seguenti temi: privilegio contro l’autoincriminazione con riguardo all’impiego di documenti relativi a conti bancari esteri nel procedimento tributario, ottenuti mediante ordine di esibizione dell’autorità giudiziaria; applicazione della pena detentiva rispetto a condotte che esprimono la libertà di manifestazione del pensiero; infine, diritto di accesso al tribunale per le vittime di reato.

Con la sentenza De Legé c. Paesi Bassi, la Corte torna a pronunciarsi sul privilegio contro l’autoincriminazione: non può essere invocato quando l’esibizione di prove documentali sia ottenuta sotto minaccia di una sanzione tributaria (di natura sostanzialmente penale, nel senso autonomo stabilito dalla Convenzione), laddove le autorità siano in grado di dimostrare che la coercizione è finalizzata all’ottenimento di specifici documenti preesistenti, della cui esistenza le autorità medesime erano a conoscenza.

Nella sentenza Bouton c. Francia, relativa alla performance di un’attivista femminista all’interno di un luogo di culto, la Corte, nel solco del proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ritenuto che l’applicazione della pena detentiva per il reato di esibizione sessuale fosse sproporzionata, in quanto l’azione dimostrativa in questione era espressione della libertà di manifestazione del pensiero della ricorrente.

Nel caso Fabbri e Altri c. San Marino, la Corte affronta il tema della pretesa civile esperibile dalla vittima nel procedimento penale e accerta la violazione del diritto di accesso a un tribunale qualora il suddetto procedimento si chiuda per prescrizione del reato, pur mancando la costituzione di parte civile e residuando l’esperibilità dell’azione risarcitoria dinanzi ai giudici civili. Il principio elaborato in sede sovranazionale, oltre ad aver determinato due condanne a carico dello Stato italiano, nei casi Arnoldi e Petrella, risulta incompatibile con la giurisprudenza della Corte costituzionale sulla rilevanza e l’ingresso dell’interesse civile nel procedimento penale italiano. Di particolare interesse, le opinioni dissenzienti in calce alla sentenza, che richiamano e rafforzano argomenti già formulati da giudici dissenzienti nei casi italiani.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 4 ottobre 2022, De Legé c. Paesi Bassi, ric. n. 58342/15

Oggetto: Articolo 6 § 1 della Convenzione – privilegio contro l’autoincriminazione – ordine di esibizione di prove documentali concernenti conti bancari esteri a pena di sanzione – ambito e applicazione del privilegio in materia di coercizione nella esibizione di documenti nel contesto del diritto tributario.

Nell’ambito dei rapporti di mutua assistenza in materia fiscale, l’Amministrazione tributaria olandese riceveva dalla corrispondente belga informazioni relative a conti bancari detenuti da persone residenti nei Paesi Bassi in Lussemburgo tra il 1994 e il 1996. Tra questi figurava il ricorrente, al quale, pertanto, l’Ispettorato fiscale chiedeva di dichiarare qualsiasi conto bancario da lui detenuto o che aveva detenuto all’estero dopo il 31 dicembre 1994 e di produrre copie di tutti gli estratti conto pertinenti per il periodo compreso tra il 1° gennaio 1995 e il 31 dicembre 2000. Invocando il privilegio contro l’autoincriminazione, il ricorrente informava l’Autorità che non avrebbe comunicato le informazioni richiestegli. L’Ispettorato adottava, quindi, sulla base dell’evasione stimata, provvedimenti di rettifica per gli anni d’imposta 1995 e 1996 e comminava sanzioni tributarie che il ricorrente procedeva ad impugnare.

Nel mentre, su richiesta dell’Amministrazione, il giudice civile, nell’ambito di un procedimento di ingiunzione che sospendeva la predetta opposizione, ordinava al ricorrente, che ottemperava, di fornire, a pena di sanzione, tutte le informazioni relative ai conti correnti bancari che deteneva o aveva detenuto all’estero, e di esibire i documenti relativi a tali conti che gli erano stati richiesti in relazione al periodo compreso tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2000. Riassunti i procedimenti di opposizione, le impugnative del ricorrente venivano dichiarate irricevibili per motivi formali, ma venivano convertite ex officio dall’Amministrazione tributaria e trattate come richieste di revisione dell’imposta per gli anni corrispondenti, sulla base degli importi effettivi ricavabili dalla nuova documentazione prodotta. All’esito della procedura, veniva, da un lato, ridotto l’ammontare del conguaglio e, dall’altro, confermata la sanzione nella misura del 100% dell’importo del conguaglio medesimo. 

Il ricorrente impugnava senza risultato le decisioni e si rivolgeva, infine, alla Corte di Strasburgo. Segnatamente, in tale sede il ricorrente adduceva la violazione dell’art. 6 della Convenzione, atteso che le informazioni e i documenti relativi alla titolarità del conto corrente estero, utilizzati in procedimenti all’esito dei quali gli erano state inflitte sanzioni tributarie, sarebbero stati a suo avviso ottenuti mediante coercizione e, pertanto, in violazione del privilegio contro l’autoincriminazione.

In via preliminare, la Corte EDU considera il ricorso manifestamente infondato, nella parte in cui si riferisce alla sanzione tributaria inflitta al ricorrente per l’anno fiscale 1995. Infatti, posto che il provvedimento del Tribunale aveva ingiunto al predetto di fornire le informazioni e di esibire i documenti concernenti i conti bancari esteri dopo il 31 dicembre 1995, quelle concernenti il periodo precedente erano state fornite dal ricorrente volontariamente e non potevano, pertanto, ricadere nella sfera operativa del privilegio invocato.  Per la restante parte, la Corte dichiara il ricorso ricevibile, rilevando, in linea con i propri precedenti (cfr. Grande Camera, Jussila c. Finlandia), l’applicabilità dell’art. 6 CEDU, sotto il suo profilo penale, al procedimento teso all’applicazione di sanzioni tributarie. 

Nel merito, sulla scorta dei principi elaborati dalla giurisprudenza pregressa (§§ 60-73), la Corte puntualizza, anzitutto, che, affinché una questione possa rilevare nell’ambito della tutela del privilegio contro l’autoincriminazione, devono ricorrere due presupposti: in primo luogo, il ricorrente deve essere stato soggetto a qualche forma di coercizione o costrizione da parte delle autorità. In secondo luogo, tale coercizione deve essere stata applicata allo scopo di ottenere informazioni che potrebbero essere impiegate a carico dell’interessato nell’ambito di un’accusa in materia penale, intesa nel senso autonomo della Convezione (tra cui deve essere ricompreso, per l’appunto, il procedimento sanzionatorio tributario). Sottolinea, poi, che il suddetto privilegio – che si configura, primariamente, con il diritto a rimanere in silenzio – non si estende all’impiego, nel procedimento penale, di materiale che può essere ottenuto dall’imputato sì mediante poteri coercitivi, ma che ha un’esistenza indipendente dalla volontà dell’indagato quali, inter alia, documenti acquisiti in base a un mandato, campioni biologici ai fini del test del DNA; a meno che siffatte prove siano state ottenute con un provvedimento che viola l’articolo 3 della Convenzione. 

Con riguardo alla specifica ipotesi in considerazione, la Corte chiarisce, poi, che il privilegio in parola non può essere invocato rispetto all’impiego, in questo caso nell’ambito di questioni di diritto tributario, di prove documentali ottenute sotto minaccia di sanzione, laddove le autorità siano in grado di dimostrare che la coercizione è finalizzata all’acquisizione di specifici documenti preesistenti, della cui esistenza le autorità erano a conoscenza. Siffatta situazione, ad avviso della Corte, deve essere distinta da quelle – sussistenti, ad esempio, nei precedenti casi J.B. e Chambaz c. Svizzera – in cui la coercizione esplicata dalle autorità è tesa a ottenere dall’individuo prove documentali prodromiche all’accusa, della cui esistenza, però, esse non siano certe (c.d. “fishing expeditions”).

Facendo applicazione di siffatto criterio alla vicenda de qua, la Corte osserva come non sia in discussione che i documenti relativi ai conti correnti esteri del ricorrente fossero preesistenti e che le autorità ne fossero a conoscenza; come si ricava, del resto, dalla circostanza che l’ordinanza emessa dal giudice indicava specificamente quali documenti egli doveva fornire. Infine, l’imposizione della sanzione, prevista per il caso di inottemperanza all’ordine di esibizione del giudice, non può essere considerata alla stregua di un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

La Corte, quindi, conclude che non vi è stata violazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione) 13 ottobre 2022, Bouton c. Francia, ric. n. 22636/19

Oggetto: articolo 10 § 1 della Convenzione (libertà di espressione) – performance dimostrativa – necessità della limitazione in una società democratica – applicazione di una pena detentiva nell’ambito di espressioni della libertà di manifestazione del pensiero.

Nel 2013, a Parigi, nell’ambito del movimento femminista Femen, la ricorrente aveva compiuto un’azione di protesta per denunciare la posizione della Chiesa Cattolica sul tema dell’aborto. In particolare, dentro la Chiesa della Madeleine, E.B. aveva simulato un aborto con fegato di manzo, mostrandosi con il petto nudo coperto di scritte dinanzi all’altare durante le prove del coro. A seguito dei fatti, la ricorrente era stata condannata alla pena sospesa di sei mesi di reclusione per il reato di “esposizione sessuale”. I giudici pronunciatisi sulla vicenda avevano concluso che la condanna alla reclusione non costituisse un’ingerenza sproporzionata nella libertà di espressione della donna, che doveva necessariamente conciliarsi con il diritto, riconosciuto dall’articolo 9 della Convenzione EDU, a non essere turbati nell’esercizio del proprio culto.

E.B. si è dunque rivolta alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 10.

In via preliminare, la Corte ribadisce che entro il perimetro protettivo di tale norma devono certamente essere ricomprese performance dimostrative, come quella avvenuta nel caso in esame. La sentenza di condanna a una pena detentiva, sia pure sospesa, deve pertanto essere considerata come un’ingerenza nel diritto ivi riconosciuto e, come tale, essere esaminata secondo i canoni del par. 2 della disposizione in commento.

Per quanto concerne il primo requisito del test di legittimità, vale a dire la «previsione in base alla legge» della limitazione asseritamente lesiva della libertà di espressione, i giudici europei rilevano come la nozione di “esibizione sessuale” non viene definita dall’art. 222-32 del codice penale e potrebbe dar luogo a qualche incertezza interpretativa, soprattutto in considerazione dell’evoluzione della società e dei costumi. Sul punto, peraltro, viene sottolineato, da un lato, il fatto che il Conseil constitutionnel non abbia ancora avuto modo di pronunciarsi in ordine alla sufficiente determinatezza della fattispecie. Dall’altro, che la Commissione consultiva nazionale per i diritti umani ha raccomandato di specificarne i presupposti applicativi. Tuttavia, ad avviso della Corte, siffatte perplessità non risultano (ancora) tali mettere in discussione la sufficiente prevedibilità della legge (penale), atteso che, in base alla giurisprudenza interna rilevante all’epoca dei fatti contestati, la nudità del seno della donna era tale da caratterizzare l’elemento materiale del reato. Tale conclusione viene rafforzata dal rilievo che la ricorrente, pur agendo da sola, ha posto in essere la manifestazione nel contesto di un gruppo organizzato, potendo dunque eventualmente avvalersi di supporto giuridico, per cui si deve presumere che la stessa abbia ragionevolmente potuto prefigurarsi le possibili conseguenze della sua azione.

Superato, poi, l’esame in ordine alla legittimità dello scopo della limitazione, la Corte si concentra sul c.d. “test di necessità”.

Nel solco della giurisprudenza convenzionale sviluppatasi a partire dal noto e risalente caso Handyside c. Regno Unito, la Corte sottolinea, in primis, che, sebbene la condanna riguardasse la fattispecie di reato di “esibizione sessuale”; nondimeno non si poteva trascurare come l’azione della ricorrente fosse diretta a veicolare, attraverso un luogo fortemente simbolico, un contenuto di stampo politico e sociale. Per tale motivo, per quanto confliggente con le intime convinzioni morali e religiose dei potenziali avventori della Chiesa, la libertà di espressione della ricorrente doveva beneficiare di un livello di protezione sufficiente, «accompagnato da un margine di discrezionalità delle autorità nazionali attenuato in quanto il contenuto del suo messaggio riguardava un argomento di interesse generale».

In questo senso, la Corte osserva, per un verso, che un’esibizione di questo tipo può essere considerata lesiva delle regole di condotta richieste in un luogo di culto e, quindi, che l’irrogazione di determinate sanzioni potrebbe in linea di principio essere giustificata dalla necessità di tutelare i diritti dei terzi (cfr. Mariya Alekhina e altri c. Russia). Per l’altro, ribadisce come, nell’ambito delle cause relative all’articolo 10 della Convenzione, la pronuncia di una condanna penale costituisca una delle forme più gravi di ingerenza nel diritto alla libertà di espressione e soggiunge che la comminazione di una pena detentiva inflitta nel contesto di un dibattito politico o di pubblico interesse sia compatibile con il disposto convenzionale «solo in circostanze eccezionali», ovverosia quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente violati, come nel caso, ad esempio, della diffusione di incitamento all’odio o alla violenza. A questo riguardo, la Corte rileva altresì come la manifestazione della ricorrente – alla quale non è stato addebitato alcun comportamento abusivo o odioso – per quanto possa essere risultata scioccante per i fedeli, in considerazione della nudità che ha imposto in un luogo di culto, abbia avuto il solo obiettivo «di contribuire, attraverso uno spettacolo volutamente provocatorio, al dibattito pubblico sui diritti delle donne, in particolare sul diritto all’aborto». Per di più, nel bilanciamento sia pure operato dalle autorità giudiziarie francesi tra i diversi interessi in gioco, non erano stati considerati alcuni elementi: ovvero, non era stato valutato se la ricorrente avesse o meno agito in modo gratuitamente offensivo verso il credo religioso; non era stato tenuto di conto che l’azione dimostrativa non si era svolta durante una liturgia ma durante le prove del coro e, inoltre, che aveva avuto una durata temporale molto limitata e che la ricorrente aveva abbondonato il luogo di culto non appena le era stato richiesto dal cappellano.

La Corte conclude, quindi, che i tribunali nazionali non hanno effettuato un’adeguata ponderazione tra gli interessi concorrenti, in conformità con i criteri stabiliti dalla sua giurisprudenza e che, alla luce delle particolari circostanze del caso, le ragioni addotte non sono sufficienti per considerare la condanna inflitta alla ricorrente, tenuto conto della gravità dei suoi effetti, proporzionata alle finalità legittime perseguite.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 18 ottobre 2022, ric. n. 6319/21, 345/21, 6321/21, 9227/21, Fabbri e Altri c. San Marino

Oggetto: Articolo 6 § 1 della Convenzione (diritto a un equo processo) – aspetto civile – diritto di accesso ai tribunali delle vittime di reati – chiusura dei procedimenti penali per prescrizione, a causa dell’inerzia dell’autorità giudiziaria.

I ricorrenti sono persone offese in distinti procedimenti penali interrotti per decorso della prescrizione.

Il primo ricorrente denunciava la condotta di un cittadino bulgaro, astrattamente sussumibile nei delitti di frode e appropriazione indebita, alla polizia italiana che, dopo circa un anno, rilevava l’assenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, nonché l’assenza della giurisdizione italiana in base al locus commissi delicti. Il fascicolo veniva trasferito alle autorità sammarinesi a luglio 2015 e, dopo quasi quattro anni, senza che fosse stata espletata indagine alcuna, i giudici coinvolgevano le parti e pronunciavano archiviazione per prescrizione dei reati.

Il secondo e la terza ricorrente presentavano denuncia per lesioni personali da parte di un cittadino della Bosnia-Erzegovina all’autorità sammarinese, manifestando l’intenzione di costituirsi parti civili, di essere informati in caso d’interruzione del procedimento; altresì, nominavano avvocati ed eleggevano domicilio. Nell’arco di tre anni, la Procura non procedeva ad alcun atto d’indagine e il giudice istruttore pronunciava archiviazione per prescrizione.

Il quarto ricorrente, minore e rappresentato dai genitori, sporgeva denuncia per violenza privata in relazione a un viaggio all’estero scolastico e depositava istanza di costituzione di parte civile. Dopo due anni e mezzo, in assenza di provvedimenti del primo giudice istruttore, nonché di atti di indagine della Procura, il nuovo giudice istruttore chiudeva il procedimento per decorso della prescrizione.

Dinanzi alla Corte di Strasburgo i ricorrenti lamentano quindi la violazione del diritto a un equo processo ex art. 6 § 1 della Convenzione, in particolare del diritto di accesso a un tribunale, leso dalla chiusura per prescrizione dei procedimenti penali in cui rivestivano il ruolo di vittime, invero a causa dell’inerzia dell’autorità giudiziaria.

Sotto il profilo dell’ammissibilità, il governo convenuto eccepisce l’inapplicabilità ratione materiae dell’art. 6 § 1 nel suo aspetto civile, dunque nei confronti di soggetti portatori di interessi civili, facendo leva sulle differenze tra il proprio ordinamento e quello italiano: nello specifico, evidenzia che, nel primo, la persona offesa può costituirsi parte civile anche in sede di indagini e che quindi, se in concreto non lo fa, non può dirsi che abbia esercitato il diritto civile (come nei casi di specie). Tuttavia, secondo la Corte, è sufficiente aver posto in essere attività o istanze che denotino l’intenzione di esercitare il diritto civile, quali la richiesta di essere avvisati della fine delle indagini o la sollecitazione di misure cautelari (solo il primo ricorso è inammissibile, non essendo sufficiente presentare la denuncia e nominare un avvocato).

La Corte rigetta altresì l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, posto che il rimedio sollevato dal Governo e in concreto non esperito dai ricorrenti, ossia l’impugnazione dei provvedimenti di archiviazione, non avrebbe avuto alcuna prospettiva di successivo, stante il pacifico decorso della prescrizione.

Nel merito, la Corte osserva che il giudice penale, anche quando non possa liquidare il danno ma debba rinviare ai giudici civili tale operazione, è tenuto a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato e sulla sua responsabilità civile nei confronti della vittima. La disponibilità dell’azione civile non esclude la violazione del diritto di accesso qualora il mancato esame dell’istanza civile sia dovuto alla totale inattività dei giudici istruttori, come nei casi di specie, considerato che una separata azione civile determinerebbe l’onere dei ricorrenti di raccogliere le prove nonostante l’inutile e ampio decorso di tempo in attesa delle determinazioni penali.

Le conclusioni cui perviene la Corte non sono condivise dall’intero collegio. Nel primo parere parzialmente dissenziente, il giudice Koskelo rileva l’assenza del requisito di esistenza di una “controversia su un diritto civile” ai fini dell’applicabilità dell’aspetto civile dell’art. 6 della Convenzione: da una parte, l’accertamento della pretesa civile non verrà mai accertata in sede investigativa, entrando nel procedimento penale solo in fase processuale; dall’altra, quando l’indagine non abbia prodotto risultati, non si vede come possa risultare determinate per la pretesa civile. Nella seconda opinione dissenziente, i giudici Kjølbro, Ranzoni e Koskelo sottolineano la contraddittorietà tra l’orientamento in tema di libertà d’espressione ex art. 10, secondo cui lo strumento penale dovrebbe essere ridimensionato, e l’orientamento sull’applicabilità dell’art. 6 fatto proprio dalla maggioranza, nella misura in cui induce le persone offese a preferire lo strumento penale (non essendo tenute a esperire il rimedio civile, dunque a sostenere l’onere probatorio ivi richiesto).

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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