Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di gennaio 2022

Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di gennaio 2022

Le sentenze di gennaio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, qui selezionate, concernono la responsabilità statale per due episodi di suicidio e tentato suicidio, nonché la discrezionalità concessa agli Stati nello stabilire le categorie di destinatari di premi e sussidi finanziari. 

Le responsabilità s’intensificano, i margini discrezionalità s’affinano.

Nel caso Edzgveradze c. Georgia, la ricorrente si rivolge alla Corte di Strasburgo in relazione al suicidio del marito, avvenuto in seguito a un interrogatorio di polizia. Ai fini della tutela del diritto alla vita di cui all’art. 2 della Convenzione, gli Stati rispondono dell’effettività delle indagini penali, non solo nei confronti della vittima di reato, ma ogni qualvolta l’evento letale si verifichi sotto la supervisione o il controllo dell’autorità pubblica. Nella pertinente giurisprudenza della Corte, i casi più frequenti sono quelli di suicidio in carcere; di recente, si è aggiunta l’ipotesi di omicidio di un bambino, da parte del padre, durante un incontro organizzato dai servizi sociali. Oggi, la Corte aggancia la responsabilità dello Stato all’asserita causalità tra interrogatorio di polizia e successivo suicidio. Si segnala, altresì, un passaggio della sentenza relativo all’indipendenza degli organi d’indagine, quale spunto di riflessione nel dibattito nazionale su possibili riforme dell’apparato inquirente.

Vanta di certo portata sistematica la condanna del (mancato) funzionamento delle REMS (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) italiane. In generale, gli Stati devono predisporre trattamenti terapeutici adeguati nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche, diversamente violando il divieto di trattamenti inumani o degradanti ovvero le condizioni per la privazione della libertà personale, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 3 e 5 della Convenzione. Nel caso Sy c. Italia, il ricorrente è stato detenuto in carcere, in regime ordinario, nonostante soffrisse di accertati disturbi della personalità e l’autorità giudiziaria ne avesse ordinato il collocamento in REMS. A riguardo, la mancata esecuzione non può dirsi giustificata dall’assenza di posti disponibili. 

In situazioni simili, in attesa di scorrimento della lista di disponibilità in REMS, i giudici hanno solo due possibilità nei confronti degli interessati, entrambe inaccettabili: rilasciarli, mettendo però in pericolo la società, o sottoporli a custodia, incorrendo in violazioni quali quelle accertate nel caso di specie. La presa di posizione europea trova conforto nella sentenza, di appena tre giorni dopo, della Corte costituzionale n. 22/2022 pronunciatasi sulla legittimità degli artt. 206 e 222 c.p. e dell’art. 3-ter d.l. 211/2011. Benché il dispositivo sia d’inammissibilità (in considerazione dei possibili vuoti di tutela derivanti dall’eventuale accoglimento), la motivazione contiene un forte monito per il legislatore, perché rafforzi la riserva di legge (posto che la regolamentazione delle REMS è in gran parte rimessa ad atti normativi), incrementi e potenzi le pertinenti strutture sul territorio, infine coinvolga il Ministro della Giustizia nelle attività di coordinamento e monitoraggio.

Da ultimo, nel caso Negovanović e Altri c. Serbia, la Corte definisce la differenza tra il divieto di discriminazione di cui all’articolo 14 della Convenzione, strettamente legato alla tutela degli altri diritti contemplati nella Convenzione, ad essi strumentale, e il divieto di discriminazione di cui all’articolo 1 del Protocollo 12, indipendente dalla tutela di altri diritti. Nell’ambito della seconda disposizione, qualora la discriminazione concerna lo status della disabilità, la discrezionalità degli Stati è condizionata al principio di “inclusività”.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 20 gennaio 2022, ric. n. 59333/16, Edzgveradze c. Georgia

Oggetto: Articolo 2 della Convenzione (Diritto alla vita) – aspetto procedurale – suicidio del marito della ricorrente in seguito a un interrogatorio di polizia su crimini contestati a un amico del primo – obbligo delle autorità nazionali di condurre indagini penali effettive (indipendenza degli organi di indagine ma incompletezza degli approfondimenti).

Nel 2013, G.M. veniva arrestato per sospetto possesso di cannabis a fronte del rinvenimento di un “pacchetto” vicino alla sua auto, presso l’officina dove lavorava il marito della ricorrente, M.M. Quest’ultimo, trovandosi con G.M. al momento dell’arresto, si recava alla stazione di polizia per rilasciare una dichiarazione. Veniva interrogato come testimone per un’ora e ventuno minuti, confermando che il pacchetto ritrovato dalla polizia conteneva cannabis e che G.M. glielo aveva mostrato, prima di gettarlo via alla vista dei poliziotti.

Dopo l’interrogatorio, la polizia sottoponeva M.M. a un test antidroga, rilasciandolo a fronte dell’esito negativo.

Il giorno successivo, M.M. usciva di casa presto; in diversi momenti della mattinata contattava sia la ricorrente che altre tre persone e rivelava a un amico l’intenzione di suicidarsi presso il “mare” di Tbilisi (un lago artificiale), ove la ricorrente e gli amici si recavano per cercarlo.

Verso mezzogiorno la ricorrente chiamava i servizi di emergenza, dichiarando la scomparsa del marito e chiedendo l’aiuto della polizia per localizzarlo. Solo una volta che gli agenti di pattuglia ebbero raggiunto la ricorrente, veniva loro comunicata l’intenzione di M.M. di suicidarsi, sicché accompagnavano la prima alla stazione di polizia perché registrasse la sua dichiarazione, contestualmente allertando taluni colleghi perché intanto procedessero alla ricerca dell’uomo.

Alle 13.55 un passante trovava il corpo di M.M. appeso a un albero vicino alla riva del mare e contattava la polizia. 

Lo stesso giorno l’ufficio del procuratore apriva un’indagine penale per sospetta istigazione al suicidio e interrogava G.M., il quale dichiarava che nessuna violenza fisica era stata esercitata su di lui o su M.M., e che per la maggior parte del tempo l’amico era rimasto nel suo campo visivo, in quanto convocato in un ufficio open-space. Tuttavia, G.M., per circa venti minuti, era stato isolato in un ufficio privato perché confessasse il crimine. Anche M.M. veniva portato in un’altra stanza per circa quaranta minuti, ma al suo ritorno non mostrava alcun segno di maltrattamento fisico. Dopo che gli agenti gli lessero la dichiarazione dell’amico, G.M. ricorda di aver pensato che M.M. non avrebbe mai potuto scriverla di sua volontà.

La ricorrente dichiarava che suo marito le aveva detto di essere stato sottoposto a maltrattamenti verbali e fisici presso la stazione di polizia per costringerlo a rilasciare una dichiarazione che incriminasse G.M. Negava inoltre che il medesimo avesse mai avuto problemi psicologici, materiali o preoccupazioni tali da indurlo al suicidio.

Il perito notava, oltre alle lesioni al collo, una piccola emorragia sulla narice sinistra, inflitta a M.M. diverse ore prima del suicidio o nel momento del suicidio; d’altronde, il suo corpo non mostrava alcun segno di essere stato picchiato. 

Il caso veniva rimesso all’Ispettorato generale del Ministero dell’Interno, ossia all’unità incaricata di vigilare sulla legalità delle attività di coloro che lavorano per il Ministero, polizia compresa. Nella rimessione non si faceva riferimento però alla circostanza che M.M. fosse stato interrogato dalla polizia il giorno prima del suicidio.

Oltre a rinnovare l’interrogatorio di G.M. e la perizia sul corpo di M.M., l’Ispettorato interrogava i sei agenti di polizia che avevano partecipato all’arresto di G.M. e all’interrogatorio di M.M.: G.M. era stato avvicinato sulla base di informazioni anonime secondo cui stava trasportando cannabis, e M.M. era stato un testimone degli eventi in questione; quest’ultimo appariva calmo durante gli eventi, tant’è vero che si era recato volontariamente alla stazione di polizia per rilasciare una dichiarazione, non era stato sottoposto ad alcun tipo di pressione (fisica o psicologica) ed era rimasto nell’ufficio open-space per tutto il periodo della sua presenza nell’edificio; infine, era stato condotto in una struttura per il controllo della droga, da cui era uscito senza aver mostrato traccia di consumo di droga. I filmati ripresi dalle telecamere all’ingresso dell’edificio mostravano che M.M. era entrato e uscito senza alcun segno di sofferenza. Anche gli esperti che avevano prelevato il campione di urina di M.M. per il test antidroga non avevano notato alcun segno di ferita o di ansia.

La vicina di casa della ricorrente riferiva quanto dichiarato da M.M. la sera dell’interrogatorio, ossia di essersi recato volontariamente dalla polizia in quanto i fatti erano incontrovertibili.

Le autorità interrogavano anche i colleghi di M.M., secondo cui questi era tornato all’officina in uno stato piuttosto ansioso e aveva detto di essere stato picchiato dai poliziotti perché rilasciasse una dichiarazione che incriminasse G.M., benché non riportasse segni di ferite visibili. 

Secondo uno di loro, M.M. lo aveva chiamato per dirgli che non poteva vivere con un nome “disonorato”.

Infine, venivano sentiti gli agenti di pattuglia che avevano risposto alla chiamata della ricorrente: erano stati informati dei pensieri suicidi di M.M. non appena arrivati al “mare” di Tbilisi e avevano chiamato taluni colleghi perché li aiutassero a cercare il marito della ricorrente nella zona; dopo aver portato la ricorrente alla stazione di polizia, erano tornati per continuare le ricerche; il corpo era stato trovato circa un’ora dopo, da un passante che aveva avvisato la polizia.

Nessuna attività investigativa sembra aver avuto luogo tra il novembre 2014 e il marzo 2016, data in cui il pubblico ministero (nuovamente tornato sull’indagine penale) constatava che non era stato commesso alcun reato. 

La ricorrente contestava tale decisione lamentando l’inefficacia dell’indagine, concentratasi esclusivamente sull’assenza di segni di abuso fisico, sminuendo la rilevanza della pressione psicologica. La contestazione era però inammissibile in quanto, in base al codice di rito nazionale, l’ordinanza di chiusura di un’indagine poteva essere impugnata solo da un soggetto in possesso dello status processuale di vittima, mentre la ricorrente aveva lo status di testimone.

La ricorrente lamenta dunque la violazione dell’aspetto procedurale dell’articolo 2 della Convenzione: da una parte, la conduzione dell’indagine penale da parte dell’Ispettorato generale del Ministero dell’Interno ne aveva compromesso l’indipendenza; dall’altra, le autorità non avevano affrontato la questione dell’eventuale pressione psicologica esercitata sul marito durante l’interrogatorio.

Benché il marito della ricorrente si sia suicidato in circostanze al di fuori della supervisione e/o del controllo delle autorità competenti, la Corte attribuisce rilevanza all’asserito nesso causale tra l’interrogatorio come testimone presso la stazione di polizia e il suicidio avvenuto il giorno successivo, ai fini dell’obbligo procedurale di indagini di cui all’articolo 2 della Convenzione.

Nel caso di specie, le autorità hanno aperto l’indagine tempestivamente e d’ufficio, intraprendendo misure investigative plurime e pertinenti.

Sotto il profilo dell’indipendenza, l’articolo 2 non richiede che le persone e gli organi responsabili delle indagini godano di indipendenza assoluta, piuttosto che siano sufficientemente indipendenti dalle persone e dalle strutture della cui responsabilità si controverta. L’adeguatezza del grado di indipendenza viene valutata alla luce di tutte le circostanze pertinenti, necessariamente specifiche a ciascun caso. 

In concreto, nonostante il presunto legame tra il suicidio del marito della ricorrente e il suo interrogatorio da parte della polizia, il pubblico ministero rimetteva le indagini all’Ispettorato generale del Ministero dell’Interno, ossia a un’istituzione da cui la polizia è dipendente.

Tuttavia, il Governo ha sufficientemente dimostrato l’indipendenza dell’Ispettorato, posto che le indagini da esso condotte avevano portato a procedimenti giudiziari nei confronti di funzionari del Ministero dell’Interno. 

Dunque, la Corte si concentra sull’adeguatezza del secondo frammento di indagini condotte dal pubblico ministero. Queste venivano chiuse perché gli elementi disponibili nel fascicolo non avevano dimostrato l’esistenza di pressioni sul marito della ricorrente durante l’interrogatorio, conclusione fondata sulle dichiarazioni di G.M., degli agenti di polizia, della vicina del ricorrente.

A ben guardare, l’indagine ha lasciato senza risposta talune domande potenzialmente decisive: se M.M. sia stato effettivamente portato in una stanza separata e, in caso affermativo, cosa vi sia accaduto; perché un individuo senza precedenti intenzioni suicide o problemi psicologici avrebbe commesso il suicidio a seguito di un incontro con la polizia.

Infine, la Corte biasima che la ricorrente non abbia potuto, a causa del mancato riconoscimento dello status procedurale di vittima, fare ricorso contro la decisione dell’ufficio del procuratore, sicché l’indagine non ne ha sufficientemente garantito gli interessi lettimi in qualità di parente prossimo della vittima. Vi è stata pertanto una violazione dell’aspetto procedurale dell’articolo 2 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 24 gennaio 2022, ric. n. 11791/20, SY c. Italia

Oggetto: Articolo 3 della Convenzione (Divieto di trattamenti inumani e degradanti) – detenzione di persona bipolare in regime carcerario ordinario e senza adeguata terapia. 

Articolo 5 della Convenzione (Diritto alla libertà e alla sicurezza) – detenzione disposta “legalmente” nei confronti di persona in grado di comprendere il significato della pena – mantenimento dell’interessato in regime di detenzione ordinaria nonostante l’ordine dei giudici di provvedere al collocamento in istituto adeguato – applicazione delle condizioni individuate nella giurisprudenza Winterwerp e inidoneità dell’eccezione relativa alla mancanza di posti disponibili negli istituti di riabilitazione – mancanza di rimedi per un’effettiva riparazione.

Articolo 6 della Convenzione (Equo processo penale) – mancata esecuzione del provvedimento di liberazione dell’interessato per collocamento presso istituto adeguato alle sue patologie. 

Articolo 34 della Convenzione (Ricorsi individuali) – ritardo nell’esecuzione del suddetto provvedimento.

Nel 2017, il ricorrente veniva arrestato e accusato di molestie nei confronti dell’ex compagna, di resistenza a pubblico ufficiale, aggressione e percosse. A fronte di ripetute trasgressioni degli arresti domiciliari, il Gip disponeva la custodia in carcere, previa valutazione della salute mentale dell’interessato, sia attuale che al momento della commissione dei reati.

Il perito diagnosticava, in sede di incidente probatorio, disturbo della personalità e disturbo bipolare, stato mentale aggravato dall’abuso di sostanze psicoattive e tale da escludere una responsabilità penale dell’indagato al momento della commissione dei fatti. Riconosciuta la pericolosità sociale del medesimo, nonostante la capacità di partecipare consapevolmente al processo, il perito raccomandava un trattamento adeguato alla riabilitazione terapeutica.

Il Gip, dunque, sostituiva la custodia cautelare con la misura provvisoria di sicurezza personale del collocamento in una “residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (REMS) per la durata di anno.

Alla luce della perizia e a seguito di giudizio immediato, il ricorrente veniva prosciolto e sottoposto a misura di sicurezza detentiva presso una REMS per un periodo di sei mesi, misura che tuttavia non veniva eseguita per mancanza di posti nelle strutture interessate.

Rilasciato per mancanza di spazio nella REMS, nel maggio 2018, il magistrato di sorveglianza sostituiva la detenzione nella REMS con l’affidamento in prova presso comunità specializzata, in base a una nuova relazione psichiatrica secondo cui il collocamento nella REMS non era più la soluzione adeguata.

Due mesi dopo, il ricorrente veniva arrestato in flagrante per furto aggravato e resistenza a pubblico ufficiale, sicché veniva sottoposto a custodia cautelare presso la casa circondariale romana di Rebibbia NC, ove lo psichiatra raccomandava di metterlo in isolamento, sotto alto livello di sorveglianza, prescrivendo un trattamento medico adeguato. Dopo il primo mese di detenzione, lo psichiatra autorizzava il trasferimento in cella ordinaria, a fronte di un leggero miglioramento dello stato di salute. A settembre 2018, il tribunale ordinava una perizia per valutare i seguenti elementi: l’idoneità a partecipare al procedimento, lo stato mentale al momento dei presunti reati, la pericolosità sociale. In base agli accertamenti medici, il tribunale constatava che, all’epoca dei fatti, il ricorrente soffriva di uno stato di infermità suscettibile di escludere solo parzialmente la sua responsabilità, sicché lo dichiarava penalmente responsabile dei reati di cui era accusato, condannandolo a un anno e due mesi di reclusione. In via cautelare, la custodia in carcere veniva sostituita con gli arresti domiciliari, nuovamente sostituiti col carcere a fronte di nuove trasgressioni del ricorrente. Dopo un tentativo di suicidio, lo psichiatra del carcere dichiarava lo stato mentale del ricorrente non compatibile con la detenzione ordinaria, raccomandando il trasferimento in reparto psichiatrico del carcere o in uno stabilimento psichiatrico esterno.

Il tribunale, preso atto del deterioramento dello stato di salute mentale del ricorrente, ma in mancanza di richiesta del pubblico ministero di applicazione di misure provvisorie di sicurezza, ne ordinava il collocamento in reparto carcerario per pazienti psichiatrici.

Intanto la Corte d’appello di Roma riduceva la pena a undici mesi di reclusione e, revocando la custodia cautelare, disponeva la liberazione del ricorrente.

In relazione al primo procedimento, entro cui era stato ordinato l’affidamento in prova presso una comunità terapeutica, in un primo momento, il giudice di sorveglianza la sostituiva con la libertà vigilata, in seguito, con la detenzione nella REMS. Il DPA (dipartimento amministrazione penitenziaria) chiedeva quindi a diverse REMS (nel Lazio e fuori Regione) disponibilità, puntualmente negata.

Nel 2020 il ricorrente adiva la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo perché, ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento, indicasse al Governo misure che ponessero fine alla sua detenzione in carcere. 

Dopo diversi accertamenti, il Governo informava il ricorrente e la Corte della disponibilità di un posto presso la comunità terapeutica Santa Maria del Centro Italiano di Solidarietà. Il giorno dopo l’ingresso in comunità, il ricorrente fuggiva, divenendo irreperibile. Quando nuovamente arrestato, il ricorrente veniva condotto presso una REMS di Subiaco (Roma).

Dopo essere intervenuta in via cautelare, la Corte viene chiamata a pronunciarsi in via principale su diverse violazioni della Convenzione, ciascuna correlata alla permanenza del ricorrente in carcere, in regime di detenzione ordinaria, nonostante i giudici domestici avessero ordinato il collocamento in REMS.

Sotto il profilo dell’ammissibilità, in particolare dell’eccezione governativa relativa al mancato esperimento del rimedio dell’incidente di esecuzione, la Corte ricorda il principio generale per cui, intervenuta una decisione giudiziaria contro lo Stato, l’interessato non è tenuto, ai fini della Convenzione, a intentare una seconda azione per far rispettare la prima decisione. 

Nell’ottica dell’articolo 5, è inconcepibile che, in uno Stato di diritto, un individuo rimanga privato della sua libertà nonostante l’esistenza di una decisione giudiziaria che ne ordini il rilascio.

Infondata è altresì l’eccezione di mancato rispetto del termine semestrale, in quanto, in costanza di detenzione, sussiste una situazione continua di violazione (benché l’eventuale sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari determini il venir meno della suddetta continuità).

Passando al merito del ricorso, la prima doglianza concerne la violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Siffatta disposizione impone agli Stati di assicurare condizioni di detenzione compatibili col rispetto della dignità umana e della salute. Ne discende che anche la detenzione di una persona malata possa interferire con l’articolo 3 della Convenzione. Sul punto, la Corte è tenuta a valutare la salute dell’interessato e l’effetto che su di essa abbiano le modalità di detenzione, dunque l’adeguatezza delle cure prestate. A tal fine, non è sufficiente fornire visite mediche e prescrivere determinate terapie, bensì garantire refertazioni tempestive e complete, diagnosi accurate, trattamenti appropriati, monitoraggi regolari e sistematici. L’assenza di una strategia terapeutica globale per la cura di un detenuto malato di mente può rappresentare una forma di abbandono terapeutico contrario all’articolo 3.

Nel caso di specie, occorre stabilire se lo stato di salute del ricorrente era compatibile con la sua detenzione in carcere, in particolare in regime ordinario, ed esaminare se le cure mediche che gli sono state fornite erano adeguate.

Tra le parti, sono pacifici sia i problemi di salute del ricorrente che il mancato trasferimento del medesimo in reparto psichiatrico, nonostante l’ordine emesso dal Tribunale e la decisione di trasferimento emessa dal DAP. 

Poiché il ricorrente non ha beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per la gestione della sua patologia, sussiste una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

Inoltre, poiché l’esecuzione di una sentenza o di un’ordinanza deve essere considerata parte integrante del processo garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, la mancata esecuzione dell’ordine di liberazione e del collocamento in REMS ha determinato una violazione del diritto all’equo processo (doglianza pure sollevata dal ricorrente).

Il ricorrente lamenta altresì la violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione. 

Siffatta disposizione contiene un elenco esaustivo dei motivi per cui una persona può essere privata della sua libertà. 

Rispetto ad essa, la giurisprudenza convenzionale ha formulato tre principi operativi: le eccezioni contenute nel suddetto elenco devono essere interpretate restrittivamente; ogni privazione della libertà non solo deve rientrare in una delle eccezioni di cui all’articolo 5 § 1, lettere da a) a f), ma deve essere legittima, ossia essere applicata tramite le “vie legali”, rispettando determinati standard sostanziali e procedurali; infine, le autorità giurisdizionali devono a riguardo intervenire con prontezza e celerità.

Dal secondo principio discende, nello specifico, che ogni arresto o detenzione deve avere una base legale nel diritto interno, idonea a soddisfare il principio generale di certezza del diritto, in termini di prevedibilità, precisione e ragionevolezza.

Con riguardo alla privazione della libertà di “persone alienate” (persons of unsound mind), ai sensi dell’articolo 5 § 1, lettera e), avente funzione sia di protezione che terapeutica, perché essa possa dirsi “régulière” è subordinata alla ricorrenza tre condizioni (c.d. condizioni Winterwerp): l’infermità mentale deve essere stata definitivamente stabilita; il disturbo deve rivestire carattere o gravità tale da legittimare l’internamento; l’internamento non può validamente continuare senza la persistenza di tale disturbo. Rientrano nelle condizioni di legittimità della privazione della libertà anche condizioni quali il parere di un esperto medico e la fornitura di una terapia adeguata.

Nel caso di specie, la Corte deve valutare la legittimità della privazione della libertà personale in relazione a diversi intervalli temporali.

In ordine alla detenzione intercorrente tra il 2 dicembre 2018 e il 20 maggio 2019, è pacifico sia il motivo della privazione della libertà che il presupposto procedurale, ossia l’irrogazione di una sentenza di condanna. Per quanto riguarda le cure mediche fornite in carcere, la Corte osserva che l’adeguatezza del luogo di detenzione (quanto ad adeguatezza delle cure mediche ivi assicurabili) è normalmente analizzata ai sensi degli articoli 3 e 5 § 1 (e) della Convenzione, e non ai sensi dell’articolo 5 § 1 (a). Dal punto di vista dell’articolo 5 § 1 (a), il ricorrente non ha lamentato, né risulta aliunde dimostrata, l’incompatibilità della detenzione col suo stato mentale a causa dell’incapacità di cogliere la finalità di riabilitazione sociale della pena detentiva, tanto più che i periti hanno ben due volte accertato la capacità del ricorrente, al momento del processo, di parteciparvi consapevolmente.

Complessivamente, in relazione al primo periodo di detenzione, non sussiste violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione.

In ordine alla detenzione intercorrente tra il 21 maggio 2019 e il 12 maggio 2020, il ricorrente sostiene che dal 20 maggio 2019, data in cui la Corte d’appello di Roma ha ordinato la sua liberazione, la privazione della libertà non aveva una base giuridica; d’altronde, il Governo ha sostenuto che il ricorrente era rimasto in prigione a causa della sua pericolosità e della mancanza di spazio nella REMS e che, ad ogni modo, l’ordine di collocamento in REMS configurava una misura detentiva al pari della custodia carceraria.

Sul punto, la Corte osserva che la detenzione in carcere e il collocamento in REMS sono misure diverse per condizioni, modalità di esecuzione e scopo perseguito. 

Vero è che le tre condizioni della giurisprudenza Winterwerp risultano soddisfatte:  l’infermità mentale del ricorrente era stata dimostrata davanti all’autorità competente per mezzo di perizie mediche oggettive; il disturbo mentale del ricorrente era tale da giustificare l’internamento, posto che, pur essendo in libertà vigilata, egli ne aveva violato le condizioni; infine, quanto alla persistenza del disturbo mentale nessuna indicazione nel dossier del ricorrente denotava la cessazione della sua pericolosità sociale.

Tuttavia, la valutazione congiunta del motivo della privazione della libertà, del luogo e delle condizioni di detenzione conduce a ritenere che il periodo di detenzione in esame non ha soddisfatto i requisiti di “regolarità” dell’articolo 5 § 1 (e).

Lo Stato è obbligato, nonostante i problemi logistici e finanziari, a organizzare il proprio sistema carcerario in modo da garantire il rispetto della dignità dei detenuti. Nel caso di specie, il DAP ha inviato numerose richieste di accoglienza alle REMS del Lazio e a quelle presenti sul territorio nazionale al fine di trovare un posto al ricorrente, senza successo, per mancanza di posti disponibili. 

La Corte osserva che, di fronte a questi rifiuti, le autorità nazionali non hanno creato nuovi posti nel REMS né trovato un’altra soluzione. Stava a loro assicurare al richiedente che un posto in un REMS sarebbe stato disponibile o trovare una soluzione adeguata. La Corte non può quindi considerare la mancanza di posti come una valida giustificazione per mantenere il ricorrente in prigione.

Il ricorrente lamenta altresì la violazione dell’articolo 5 § 5 in relazione alla mancanza di un rimedio effettivo per ottenere il risarcimento del danno subito a causa della violazione dell’articolo 5 § 1. 

Nella giurisprudenza convenzionale, tale disposizione è soddisfatta se il risarcimento può essere richiesto per una privazione della libertà in violazione dei paragrafi 1, 2, 3 o 4; in altri termini, il diritto al rimedio di cui al § 5 presuppone che l’autorità nazionale o gli organi della Convenzione abbiano già rilevato la violazione di uno dei precedenti paragrafi. Ciò posto, i rimedi compensativi per le condizioni di detenzione non devono caricare il ricorrente di un onere della prova eccessivo, posto che la constatazione della violazione dell’articolo 3 fa sorgere una presunzione di danno.

Nel caso di specie, l’azione civile per il risarcimento dei danni prevista dall’articolo 2043 del codice civile - che il governo considera come un rimedio efficace - esige che il richiedente provi l’esistenza dell’atto illecito, il dolo o la colpa dell’amministrazione e il danno subito. Poiché il governo non ha prodotto alcun esempio che dimostri che una tale azione sia stata portata avanti con successo in circostanze simili a quelle del presente caso la Corte ritiene che il ricorrente non aveva alcun mezzo per ottenere, con un sufficiente grado di certezza, una riparazione per le violazioni dell'articolo 5 § 1 della Convenzione.

Infine, la Corte deve esaminare se le autorità nazionali hanno rispettato la misura provvisoria indicata ai sensi dell’articolo 39, consistente nell’assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura (REMS o altro) che fornisse cure terapeutiche adeguate. A questo proposito, risulta che le autorità nazionali abbiano trasferito il ricorrente in una comunità terapeutica il 12 maggio 2020. Tuttavia, il trasferimento è avvenuto trentacinque giorni dopo il provvedimento provvisorio, un ritardo che il Governo ha giustificato alla luce della generica (e insufficiente) mancanza di posti in REMS. 

In conclusione, le autorità italiane sono venute meno anche agli obblighi derivanti dall’articolo 34.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 25 gennaio 2022, ric. n. 29907/16 e altri, Negovanović e Altri c. Serbia

Oggetto: Articolo 1 Protocollo 12 (Divieto di discriminazione) – differenza rispetto alla tutela apprestata dall’articolo 14 della Convenzione – riconoscimento di premi finanziari in favore dei vincitori di competizioni internazionali di alto livello – inclusione dei giocatori vedenti ed esclusione dei giocatori ciechi – discrezionalità degli Stati condizionata agli standard previsti da plurime convezioni internazionali sull’inclusività – “prestigiosità” di una competizione non compromessa dalla partecipazione di persone con disabilità.

Tra il 1961 e il 1992 i ricorrenti, cittadini serbi, vincevano una serie di medaglie alle Olimpiadi degli scacchi per i ciechi.

Nel 2006 lo Stato convenuto emanava un decreto sul riconoscimento dei risultati sportivi e dei premi; prevedendo, a determinate condizioni, ricompense quali un diploma onorario, un sussidio mensile a vita, un pagamento una tantum.

Nel 2007 la Federazione scacchistica serba indicava un certo numero di giocatori di scacchi vincitori in competizioni internazionali, perché fossero formalmente proposti dal Ministero dell’Istruzione e dello Sport al governo, quali aventi diritto al suddetto riconoscimento sportivo. 

I ricorrenti, a differenza dei giocatori vedenti con riconoscimenti simili, non venivano formalmente proposti, sicché la Federazione serba dei ciechi inviava una lettera al Ministero sollecitandolo a trattare i giocatori ciechi di scacchi su un piano di parità rispetto a tutti gli altri atleti e giocatori di scacchi, con o senza disabilità.

Il Ministero li informava dell’assenza dei requisiti di legge.

I ricorrenti presentavano dunque ricorso civile contro la Repubblica di Serbia, sostenendo di essere stati discriminati rispetto ad altri atleti o giocatori con risultati sportivi simili e chiedendo la riparazione del danno pecuniario e non pecuniario subito.

Il Tribunale di primo grado si pronunciava a favore dei ricorrenti: (a) accertava la discriminazione; (b) quantificava il danno non patrimoniale; (c) riconosceva il diploma onorario, un beneficio mensile in denaro, una somma una tantum. 

La Corte di appello annullava la sentenza, disponendo un nuovo processo in ordine ai punti (a) e (b), nonché dichiarando irricevibili le domande dei ricorrenti in ordine al punto (c), trattandosi di questioni di carattere amministrativo non spettanti al giudice civile.

Il Tribunale di primo grado si pronunciava solo parzialmente a favore dei ricorrenti, accertando la discriminazione e riconoscendo a ciascuno un risarcimento del danno a causa dell’angoscia mentale subita e del danno arrecato alla loro reputazione.

La Corte d’Appello annullava integralmente la sentenza, rilevando come le Olimpiadi degli scacchi dei ciechi non fossero state incluse tra le competizioni elencate nel pertinente decreto. Rientrava nella discrezionalità dello Stato la selezione delle competizioni ritenute rilevanti in base a popolarità, significato internazionale e risorse finanziarie. A riguardo, inoltre, i ricorrenti avrebbero dovuto ricorrere dinanzi al giudice amministrativo.

La Corte di Cassazione e la Corte costituzionale rigettavano le ulteriori impugnazioni dei ricorrenti.

I ricorsi sollevati dinanzi alla Corte di Strasburgo sono stati comunicati al Governo serbo ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione (Divieto di discriminazione), letto in combinato disposto con l’articolo 8 della stessa (Rispetto della vita privata) e dell’articolo 1 del Protocollo 1 (Diritto di proprietà). 

La Corte, “which is the master of the characterisation to be given in law to the facts of any case before it”, esaminerà i ricorsi solo alla luce dell’articolo 1 del Protocollo 12. Mentre l’articolo 14 della Convenzione vieta la discriminazione nel godimento dei “diritti e delle libertà enunciati nella [Convenzione]”, l’articolo 1 del Protocollo 12 introduce un divieto generale di discriminazione che estende la portata della protezione non solo a “qualsiasi diritto stabilito dalla legge” (i), come potrebbe suggerire il testo del paragrafo 1, ma, ai sensi del paragrafo 2, ai diritti che possono essere dedotti da un chiaro obbligo incombente ex lege sull’autorità pubblica (ii), ai diritti derivanti dall’esercizio di un potere discrezionale (iii) ovvero da qualsiasi altro atto o omissione dell’autorità pubblica (iv).

Pertanto, al fine di determinare l’ammissibilità ratione materiae dei ricorsi, ossia l’applicabilità l’articolo 1 del Protocollo n. 12, la Corte deve stabilirne la sussunzione entro una delle suddette quattro ipotesi di protezione.

A riguardo, il diritto interno prevedeva che solo i vincitori in olimpiadi organizzate per scacchisti vedenti avevano diritto a determinati premi finanziari, escludendo di fatto tutti gli altri giocatori di scacchi, compresi quelli che, come i ricorrenti, avevano vinto medaglie in competizioni per ciechi. Le autorità serbe hanno chiaramente esercitato il loro potere discrezionale in modo tale da trattare diversamente i giocatori di scacchi vedenti e non vedenti, nonostante i riconoscimenti internazionali fossero simili. Di conseguenza, la Corte non può che concludere che le denunce dei ricorrenti rientrano nella categoria (iii) di potenziale discriminazione.

Il Governo serbo solleva altresì il profilo di ammissibilità relativo all’esaurimento dei rimedi interni, in forza della mancata proposizione di ricorso dinanzi alla giurisdizione amministrativa. Sul punto, la Corte sottolinea la necessità di applicare la regola dell’esaurimento con un certo grado di flessibilità e senza eccessivo formalismo 

Nel caso di specie, in presenza di varie forme di rimedio ingiuntivo e/o dichiarativo per le vittime di trattamenti discriminatori, non è irragionevole la scelta dei ricorrenti di chiedere il risarcimento civile. Inoltre, non sembra che la controversia amministrativa potesse offrire maggiori prospettive di successo (il Governo non ha fornito alcuna giurisprudenza interna pertinente che lo dimostri), sicché l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere respinta.

Nel merito, la Corte afferma l’applicabilità delle indicazioni sviluppate nella giurisprudenza convenzionale sull’articolo 14, sicché l’esistenza di una violazione deve essere saggiata lungo le seguenti fasi: le differenze di trattamento devono essere basate su una caratteristica identificabile, su uno “status”; la differenza di trattamento deve operare tra persone in situazioni analoghe, o pertinentemente simili; la differenza di trattamento sopra delineata è discriminatoria se non ha una giustificazione oggettiva e ragionevole.

In concreto, è pacifico che la disabilità integri uno status rilevante. 

Quando si controverte di discriminazione legata alla disabilità, il margine di apprezzamento degli Stati nel valutare se e in quale misura porre differenze di trattamento “giustificate” in via oggettiva e ragionevole, è notevolmente ridotto, in forza di plurimi testi internazionali volti alla piena inclusione sociale delle persone con disabilità (così la Raccomandazione 1592 (2003), adottata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 29 gennaio 2003, la Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006).

Nel caso di specie, è incontestato che la disabilità sia stata posta alla base di una differenza di trattamento quanto all’erogazione di prestazioni finanziarie. Inoltre, il trattamento differenziale ha interessato due gruppi di persone in situazioni analoghe o pertinenti, ossia scacchisti ciechi e vedenti.

In ordine all’esistenza di una giustificazione obiettiva e ragionevole, autorità giudiziaria e governativa hanno sostenuto che il decreto sui riconoscimenti sportivi perseguiva l’obiettivo giustificato di premiare solo i risultati sportivi più alti, nelle competizioni più importanti.

Secondo la Corte, mentre era legittimo per le autorità serbe concentrarsi sui più alti risultati sportivi e sulle competizioni più importanti, il Governo non ha dimostrato perché gli indubbiamente alti riconoscimenti vinti dai ricorrenti, in quanto giocatori di scacchi non vedenti, sarebbero stati meno “popolari” o “significativi a livello internazionale” di medaglie simili vinte da giocatori di scacchi vedenti. D’altronde, per quanto riguarda il contributo degli scacchi allo “sviluppo e all’affermazione” della reputazione del paese, la parità di trattamento dei giocatori di scacchi ciechi e vedenti non avrebbe potuto che migliorare la reputazione del paese all’estero e promuovere l’inclusività all'interno.

Alla luce di quanto precede, non vi era alcuna “giustificazione obiettiva e ragionevole” per il trattamento differenziato dei ricorrenti.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

01/04/2022
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