Magistratura democratica
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Patto di sfiducia

di Silvia Niccolai
ordinario Diritto Costituzionale Università di Cagliari
La delega sul Jobs act, oltre alle questioni afferenti alla riforma del diritto del lavoro, assume rilievo per la sua genericità ed ampiezza, quasi a consacrare lo svuotamento del potere legislativo assegnato al Parlamento
Patto di sfiducia

Qualunque osservatore della storia costituzionale italiana sa che, dall'unità ad oggi, problemi caratteristici quali la debolezza, contraddittorietà, inefficacia dell'azione del governo nel perseguire il suo indirizzo politico sono dovuti in larga parte al rapporto sleale tra l'esecutivo e la maggioranza che, col voto di fiducia, si impegna a sostenerlo, ovverosia, posto che l'esecutivo è espressione di uno o più partiti, quegli annosi problemi risalgono alla antropologia e alle prassi che nei partiti regnano, e che, d'altro canto, investono profondamente l'intera nostra società.

È avvenuto così che il normale strumento di attuazione dell'indirizzo politico del governo in una forma parlamentare, che è la legge ordinaria (che si approva con la stessa maggioranza con cui si dà la fiducia), è stato da gran tempo sostituito dal decreto legge, accompagnato sempre più spesso da una questione di fiducia posta dal governo al momento della conversione.

Solo il ricatto della crisi di governo (in gergo giornalistico: della perdita delle poltrone) compatta maggioranze percorse da interessi altrimenti spesso divergenti, e raramente dichiarati e discussi in modo aperto, e pertanto refrattari a convivere con il procedimento di approvazione della legge ordinaria, che vede nel dibattito e nel confronto i mezzi per individuare, di volta in volta, l'interesse generale e non li teme, perché confida nella forza ordinatrice del nesso fiduciario.

"Fiducia", infatti, rimanda a valori quali lealtà, onore, onestà, reciprocità, fedeltà alla parola data, o anche all'immagine cavalleresca dell'obbedienza nella libertà (i parlamentari riconoscono all'esecutivo il potere di governare secondo il suo indirizzo perché quell'indirizzo condividono e pensano, essi che rappresentano, ciascuno, tutta la Nazione, che a quella non nuoccia, anzi giovi); ma, nella nostra esperienza, il rapporto fiduciario ha vissuto come occasione di ricatto, nascondimento, ipocrisia, doppiogiochismo, contribuendo a far degenerare nell'intera collettività il senso dei valori, intrisi di civismo, che l'immagine della fiducia evoca, al pari della coscienza delle importanti libertà costituzionali della Nazione che l'istituto fiduciario protegge, quali l'autonomia delle Camere, la libertà politica e la sovranità popolare. 

Apparentemente, l'attuale Presidente del Consiglio ha imparato la lezione che deriva da tanti anni di storia costituzionale: un governo ha bisogno che i suoi gli diano sostegno parlamentare, e così il Presidente del Consiglio non fa che mettere in primo piano la disciplina di partito ( "si discute, ma poi si vota compatti" come è già stato deciso di votare), nel mentre evidentemente confida che il proprio consenso elettorale riuscirà presto o tardi a garantirgli una maggioranza che non fa scherzi. 

Ma la lealtà, l'onestà, la fedeltà alla parola data sono doti che si radicano nel senso di ciascun attore della propria dignità e del proprio onore, così come del proprio legittimo potere, e non coincidono affatto con il silenziamento dei conflitti, la riduzione all'obbedienza. Né con lo spirito di squadra, perché, quando si rappresenta la Nazione, non si deve ad essa anteporre l'interesse di un partito, o dare per scontato che le due cose di identifichino e si confondano. Svilire il parlamento come luogo in cui si perde tempo - e la polemica anti-parlamentare, che oggi è acuta, è anch'essa una costante della nostra storia - non è un buon modo per radicare in chi vi siede il sentimento del proprio valore; così si perde anche il senso delle delicate e complesse responsabilità dei parlamentari,  le quali vanno verso il governo, ma anche verso il popolo. 

In questo quadro va tracciato il bilancio dell'ultima prova di forza dell'attuale governo, rappresentata dall'approvazione in Senato del disegno di legge di delegazione noto come 'Jobs Act'. Il governo, poche ore dopo averlo presentato, ha chiesto la fiducia su un disegno di legge delegata certamente difficile da leggere ma nel quale di sicuro non compare alcun riferimento alla disposizione, l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, le cui prospettive di modifica erano state agitate davanti all'opinione pubblica e nel partito di cui il Presidente del Consiglio è espressione. Alcuni hanno subito parlato, al riguardo, di un eccesso di delega che potrebbe viziare i futuri decreti delegati, sebbene, a evitare questo rischio, potrà bastare, è da temere, che il governo introduca una nuova tipologia generale di contratto di lavoro sancendo che ad essa non si applica l'art. 18. Proprio la fin troppo facile possibilità di immaginare simili scappatoie formalistiche fa pensare che l'approvazione del Jobs Act abbia rappresentato, più che un percorso che sconsideratamente si è gettato verso un rischio di incostituzionalità, un consapevole, diremmo sfacciato, caso di eccesso, o abuso, del potere di delegazione.

Si considerino i tempi, ristrettissimi, di esame dell'emendamento sottoposto a fiducia, nonostante, dopotutto, non si trattasse neppure di un decreto legge, ma di un disegno di legge di delegazione, dunque di una legge ordinaria. O la suggestiva iniziativa degli uffici stampa del Governo, che hanno assicurato che 'la fiducia è su tutto' e 'l'art. 18 è nella delega", anche se non vi viene menzionato, col che è stata svilita, e apertamente violata, la prescrizione costituzionale che vuole  'definito' l'oggetto della delega e sono state agite quelle componenti di 'caos, disordine e anarchia' (F. Neumann) che hanno accompagnato storicamente, e segnatamente in Italia e in Germania, il cedimento dello stato di diritto. E si pensi al Senato che, approvando, non ha difeso le proprie prerogative costituzionali, i suoi poteri che sono doveri verso la Nazione: i tentativi di frenare l'iniziativa del Governo, scomposti, sono stati ridicoleggiati come 'sceneggiate'. 

Eccesso del potere di delegazione: il Governo ne ha abusato, sottraendosi ai vincoli stabiliti dalla Costituzione, e il Senato pure, piegandovisi.

Se le cose stanno così, una sola cosa è chiara: la fiducia oggi, quando se può sbandierare la consistenza numerica e la pronta risposta all'appello, non sta meglio di ieri, non esprime cioè un rapporto fiduciario di buona fattura, e degno perciò di tal nome. I numeri, la frequenza, la quantità non migliorano la qualità del rapporto fiduciario e la fiducia che il Governo sbandiera è basata e ottenuta grazie al gioco degli stessi gradienti che ne hanno eroso il ruolo e il significato costituzionale: timori e calcoli di convenienza.

Il Governo si fa attore consapevole di questo reciproco patto di sfiducia, propone all'opinione pubblica la modifica di una disposizione, che poi non mette nel testo della delega, ma che poi ancora, via comunicati stampa, afferma che c'è. La lezione di tanti anni di storia costituzionale, più che appresa, appare cinicamente interiorizzata nel senso di una consapevole rinuncia a costruire dinamiche istituzionali in cui siano coltivati i valori civici che, soli, alimentano il buon funzionamento delle istituzioni: se al Governo fanno problema maggioranze sleali, esso rimedia facendosi a sua volta il più possibile sleale e scorretto. 

Che cosa questo possa insegnare al Paese, al suo tessuto civile sconvolto e sfasciato, è dubbio; dubbio il benessere, lo sviluppo e il progresso che possa derivare da atti adottati attraverso processi decisionali così decaduti e compromessi; e dubbio ancor di più - dovrebbero ricordarselo i decisionisti di ieri e di oggi -  il cambio di passo nei confronti delle prassi e delle mentalità che hanno condannato l'azione del  governo in Italia all'insufficienza e all'inefficacia. 

 

20/10/2014
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