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Oblio o rimozione? Ovvero la memoria ferita

di Donatella Salari
giudice Tribunale di Roma
Oblio o rimozione? Ovvero la memoria ferita

Si parla di dovere della memoria di fronte a certi usi scaltri della strategia dell’oblio, grazie ai quali ci si impegna a non vedere, a non volere sapere, ad elidere la messa in questione del cittadino  attivo e soprattutto passivo.

In questo senso nei confronti  di tale pratica dell’oblio il dovere di memoria significa il dovere di non dimenticare.

Paul Ricoeur, filosofo, autore de La Memoria, la Storia, l’Oblio, 2003

 

Si sono conclusi in Commissione Giustizia, alla fine del mese di giugno 2014, i lavori parlamentari sul ddl di riforma del reato di diffamazione (Atto Senato n. 734).

Respinto l’emendamento - formulato a favore dei giornalisti - dal senatore Pd, Felice Casson, sulla lite temeraria proposta da chi si senta diffamato dalle notizie diffuse dai media, risulta, invece, approvata in Commissione la norma c.d. sul diritto all'oblio, presentata dal relatore Giacomo Caliendo di Forza Italia.

Questo il testo dell’emendamento (Art. 2 bis, “Misure a tutela del soggetto diffamato o del soggetto leso nell’onore e nella reputazione“):

1. Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere ai siti internet e ai motori di ricerca l’eliminazione dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione delle disposizioni di cui alla presente legge.

2. L’interessato, in caso di rifiuto o di omessa cancellazione dei dati, ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, può chiedere al giudice di ordinare ai siti internet e ai motori di ricerca la rimozione delle immagini e dei dati ovvero di inibirne l’ulteriore diffusione.

3. In caso di morte dell’interessato, le facoltà e i diritti di cui al comma 2 possono essere esercitati dagli eredi o dal convivente».”

L'interessato, perciò, oltre alla rettifica, può chiedere ai siti internet e ai motori di ricerca che vengano cancellati i contenuti diffamatori o i dati personali emersi sul web in violazione delle norme sul trattamento dei medesimi.

Per comprendere l’emendamento c.d. Caliendo occorre fare, però, un passo indietro e citare la sentenza della Corte di Giustizia europea del 13 maggio 2014, Sentenza nella causa C-131/12, Google Spain SL, Google Inc. / Agencia Española de Protección de Datos, Mario Costeja González

Tutto nasce, infatti, dal ricorso del cittadino spagnolo Mario Costeja Gonzalez, avvocato, che si era rivolto all’equivalente del nostro Garante per la Privacy spagnolo, affermando che il motore di ricerca Google dava conto di una vendita in suo danno risalente a 16 anni addietro e pubblicata da una testata giornalistica, ossia un‘informazione non più attuale, rispetto al suo stato economico attuale, assumendo che detta notizia violava la sua privacy.

La Corte di Giustizia Europea, investita del rinvio pregiudiziale, gli ha dato ragione.

Con questa decisione i Giudici Europei hanno, infatti, affermato che ogni persona la cui identità sia collegata e reperibile con un motore di ricerca può chiedere al responsabile del motore medesimo che il link sia cancellato e ciò si può fare direttamente senza intentare una causa di diffamazione, ma come ipotesi di trattamento dati nel rispetto della privacy.

Infatti, il link viene soppresso indipendentemente dal carattere lecito o meno dell’inserimento dell’informazione e prescindendosi dal contenuto diffamatorio o meno della notizia.

Come si vede la decisione trascende impercettibilmente la questione della tutela dei dati personali e quella strettamente collegata dell’integrità dell’identità medesima per collegare la “storia di ciascuno di noi” alla tutela dei dati personali e del loro trattamento.

Ma la possibilità di cancellazione dei link ha prodotto un’accelerazione senza precedenti nelle richieste di cancellazione – rimozione di passati ingombranti o indicibili, nel bene e nel male.

Si parla, infatti di 41.000,00 persone impegnate in una e vera propria “rimozione” -per dirla con Freud -della loro storia indicizzata dal motore di ricerca sul web, e senza scomodare il linguaggio simbolico.

Vediamo perché.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in proposito, ha affermato che ogni cittadino europeo ha diritto di far rimuovere ai motori di ricerca online i risultati di ricerca di determinati link allorché essi rimandino verso “contenuti non più rilevanti” che li riguardano.

Un caso analogo che forse non tutti ricorderanno riguarda la tragedia dell’esplosione di un’autocisterna nei pressi del Camping spagnolo di Alfaques nel 1978.

Nella ricerca d’informazioni turistiche i potenziali campeggiatori inevitabilmente, compulsando il web, s’imbattevano nella notizia.

Fin qui, forse, un’esigenza meritevole di tutela, quanto meno per separare il dolore dell’antico lutto dalla gioia delle vacanze.

E’ un fatto, tuttavia, che, con questa decisione, si spezza comunque il legame tra soggetto che pubblica la notizia e il motore di ricerca che indicizza i risultati, considerato che la responsabilità per la cancellazione del link molesto si sposta sul gestore del motore di ricerca su Internet identificato come responsabile del trattamento dei dati personali.

Ne deriva che se all’esito di una ricerca appaiano i risultati attraverso un determinato link verso una determinata pagina web l’interessato può rivolgersi direttamente al gestore del motore di ricerca per ottenere la cancellazione del link dal complesso dei risultati e, nel caso di risposta negativa, può rivolgersi  all’Autorità Giudiziaria competente.

In proposito, la giurisdizione per l’ordine di cancellazione si radica in quella nazionale del Paese nel quale il detto motore opera disimpegnando, nel contempo, la raccolta di pubblicità collocando sul mercato gli spazi a pagamento.

Si noti che il motore di ricerca si considera destinatario della richiesta di cancellazione come responsabile del trattamento dei dati indipendentemente dalla circostanza che l’informazione sia presente sul web a titolo del tutto legittimo.

La Corte ricorda, inoltre, che le operazioni contemplate dalla direttiva devono essere considerate come un trattamento anche nell’ipotesi in cui riguardino esclusivamente informazioni già pubblicate -tali e quali- dai media.

Tale equiparazione secondo la Corte appare indispensabile rispetto  all’applicazione della direttiva Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995,  la quale, diversamente, determinerebbe l’effetto di svuotare in larga parte quest’ultima del suo significato.

Precisazione indispensabile considerato che secondo la normativa europea il responsabile del trattamento non è altro che la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o qualsiasi altro organismo che, da solo o insieme ad altri, determina le finalità e gli strumenti del trattamento di dati personali. Quando le finalità e i mezzi del trattamento sono determinati da disposizioni legislative o regolamentari nazionali o comunitarie, il responsabile del trattamento o i criteri specifici per la sua designazione possono essere fissati dal diritto nazionale o comunitario;

E’ vero che, secondo la Corte di Giustizia, occorre comunque verificare, in particolare, se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più collegata al suo nome in base ad un elenco di risultati, ma sembra qui prescindersi dalla circostanza  che l’esito della ricerca e, quindi, il collegamento tra risultato ed identità, arrechi un pregiudizio a detto interessato, anzi si afferma che anche di fronte a dati di secondo grado trova integrale applicazione il concetto di “trattamento”.

Anzi, la Corte, pur consapevole dei diritti fondamentali in gioco, parte dalla semplice premessa  che i dati-informazioni coinvolgano un insieme di micro storie della  vita privata di ciascuno di noi le quali- al di fuori dell’assemblaggio operato dal motore di ricerca - difficilmente si sarebbero potuti conoscere perché è la connessione simultanea delle informazioni che rende intelligibile “la narrazione”.

Come si vede, dunque, la ferita alla memoria si sposta dal pregiudizio effettivo ad una responsabilità oggettiva del motore di ricerca che spezza il filo della memoria in nome di una privacy non meglio definita rispetto al vero e proprio archivio della “storia” che tocca, attraverso la memoria collettiva, quella della vita individuale di ciascuno di noi.

E’ vero che tutta la normazione sulla protezione dei dati personali lambisce anche la dimensione storica dell’individuo e che nel conflitto tra conoscenza e privacy occorre bilanciare diritti  fondamentali equiordinati (Cass.n. 5525 del 5 aprile 2012) ed è vero che la Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati garantisce la parità di rango dei diritti fondamentali in gioco, ma qui la decisione appare penalizzare la libertà di ricerca di dati- sì individuali- ma di  “secondo grado”, ossia già pubblicati sui media e organizzati algoritmicamente dal motore di ricerca.

Ne deriva che il concetto di “ trattamento” troverà applicazione anche allorché il motore di ricerca si limiti a mettere in correlazione dati già in circolazione attraverso la diffusione dei media, ma la cui completezza e ricchezza rende ovviamente più appetibili gli spazi pubblicitari collocabili sul mercato.

Davanti all’impercettibile passaggio da trattamento a organizzazione dei dati già pubblicati dai media la Corte osserva che in determinati contesti  il passare del tempo lederebbe più il dato personale in quanto tale, piuttosto che il diritto alla conoscenza della storia individuale dell’interessato allorché le notizie indicizzate, pur veritiere e legittimamente pubblicate, appaiono inadeguate o non più pertinenti ovvero eccessive rispetto alle finalità del trattamento (articolo 6, paragrafo 1, lettere da c) a e) della direttiva 95/46.

Da qui la richiesta di cancellazione. 

Questo, è, in effetti, lo snodo più difficile, ossia il rapporto tra storia e memoria laddove si annida, nella valutazione del caso concreto, l’insidia di una censura indiretta.

Siamo di fronte ad una forma di eterogenesi dei fini che tende - non si sa quanto maliziosamente - a sottrarre alla memoria collettiva eventi sgraditi o ingombranti di modo che ciascuno individuo possa crearsi una sorta di verginità postuma soprattutto nella dilagante corruzione della vita politica e di dominio delle fonti d’informazione?

Problema antichissimo fin dal mito del fiume Lete che dispensa la dimenticanza a chi vi si abbevera.

L’emendamento Caliendo, forse, non vorrebbe abbordare l’enorme dibattito anche giurisprudenziale sul ruolo dell’oblio, sfiorando il mito della rimozione del ricordo sviscerato dalla filosofia e dalla psicanalisi, ma è un fatto che il rischio concreto è quello di un mondo privo di memoria dove un flusso informativo incessante può creare non solo identità effimere e virtuali ma, al contrario, polverizzare la memoria storica di narrazioni senza che vi sia un preciso vaglio di un interesse collettivo apprezzabile a conservare quel ricordo, oppure a rimuoverlo in piena consapevolezza.

Insomma, un mondo smemorato o, meglio, per citare Paul Ricoeur, una rimozione della storia che diventa ferita della memoria.

 

16/07/2014
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