Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Nota sull'ordinanza con la quale
il giudice genovese dubita della legittimità costituzionale
del regime della recidiva

di Silvio Marco Guarriello
Sostituto Procuratore presso il Tribunale di S.Maria Capua Vetere
Nota sull'ordinanza con la quale<br>il giudice genovese dubita della legittimità costituzionale<br>del regime della recidiva

Con l’ordinanza del 23.1.2014 il Tribunale di Genova, nel sottoporre al giudizio della Corte Costituzionale l’art 69 comma 4 c.p. (come sostituito dall’art. 3 della legge 5.12.2005 n. 251) nella parte in cui, in quel caso sottoposto al suo giudizio, sancirebbe il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648 comma 2 c.p. sulla recidiva di cui all’art. 99 comma 4 c.p., pone una interessante, rilevante e meritoria questione che implica valutazioni connesse sia alla adeguatezza del trattamento sanzionatorio conseguente al disposto normativo oggetto di rilievo, sia alla inibizione del potere del Giudice di poter determinare in concreto la sanzione proporzionata alla condotta oggetto di giudizio, sanzione che, secondo i principi costituzionali, non può che essere quantificata tenendo conto sia della oggettività del fatto sia della personalità dell’imputato.  

La questione sollevata, oltre a quanto indicato nella ordinanza oggetto di commento, assume rilievo alla luce di più norme costituzionali: art. 3, art. 27 terzo comma, art.101 secondo comma, art.111 primo e secondo comma (l’art. 25 comma due Cost. richiamato nel corpo della motivazione del Giudice stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” non sembra riferibile al caso concreto, trattandosi di fatto reato commesso nel 2012) .  

Prima ancora di affrontare la questione posta dal Tribunale di Genova, non si può non evidenziare che il nostro codice penale, nel suo impianto originario, assumeva quale scelta di fondo quella di adeguare quanto più possibile la pena al caso concreto,rimettendo tale valutazione al Giudice il quale è tenuto ad operare nell’ambito di una cornice normativa che, prendendo in considerazione nel codice pressocchèogni elemento di fatto e personale, lasciava ampi spazi per adeguare la sanzione alla reale portata dell’accadimento concreto oggetto di giudizio. Con l’art. 62 bis del codice penale (introdotto con l’art 2 del d.lvo Lgt n. 288 del 14 settembre 1944) il legislatore si è spinto sino al punto di attribuire al Giudice il potere di rilevare,in concreto, circostanze attenuanti non codificate ma, comunque, idonee ad influire, pro-reo, sul trattamento sanzionatorio. Nel tempo, soprattutto in anni recenti, si sono avuti vari interventi legislativi, spesso determinati da istanze sociali ispirate ad asserite ragioni di sicurezza sociale, che, non solo, hanno aumentato i limiti di pena edittale in relazione a talune fattispecie di reato, ma hanno, anche, introdotto norme che sembrano ispirate alla volontà di un trattamento sanzionatorio maggiormente commisurato alla pericolosità dell'imputato.  

A prescindere da ogni valutazione circa l’opportunità di tali interventi normativi, spesso assunti sull’onda emotiva suscitata da fatti di cronaca (la cui portata talora potrebbe esser stata ingiustificatamente amplificata) ciò che è certo, e che rileva in chiave strettamente sistematica, è che il sistema penale è diventato in parte disomogeneo, infatti, come rilevato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n 251 del 2012, talora presenta al suo interno evidenti contraddizioni, cosa quest’ultima che sembra verificarsi anche nel caso evidenziato dal Tribunale di Genova.

Invero, la norma denunciata alla Corte Costituzionale sembra aver introdotto una ingiustificata limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto.

Tale potere-dovere è stato previsto proprio per consentire di cogliere la reale offensività della condotta-reato e, conseguentemente, l’adeguamento della pena concretamente comminata al fine di realizzare i principi di eguaglianza,di personalità della responsabilità penale e di rieducazione della pena. Invece,l’art. 69 comma 4 c.p. (come sostituito dall’art. 3 della legge 5.12.2005 n. 251)ha introdotto una sorta di “automatismo sanzionatorio”che sembra discendere da una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale delrecidivo reiterato.

Nel caso all’esame del Tribunale di Genova, il Giudice ha correttamente rilevato come la nuova formulazione dell’art. 69 co 4 c.p.,ove il Giudice debba fare applicazione della circostanza attenuante di cui all’art 648 co 2^ c.p., determina una evidente disparità di trattamento.

Ed invero, l’effetto è quello di mutare irragionevolmente la sanzione in quanto la pena, nel caso di cui al primo comma parte da un minimo di anni due di reclusione, mentre, nel caso di cui all’art. 648 co 2^ c.p. parte da un minimo di quindici giorni di reclusione (ex art. 23 c.p.).

Tutto questo senza che vi sia la possibilità di giustificare, in concreto ed in presenza di un reato di lieve entità, l'enorme divario sanzionatorio che consegue all’applicazione dell’una, o dell’altra, delle indicate peneminime rispettivamente previste dal primo e dal secondo comma dell’art 648 c.p..

Se tale assunto è corretto, ne consegue che il disposto normativo censurato imporrebbe di applicare pene identiche a situazioni all’evidenza diverse, determinando, da un lato, un livellamento del trattamento sanzionatorio di situazioni assai differenti, e imponendo, d’altra parte, l'applicazione di pene che possono risultare manifestamente sproporzionate all'entità delfatto.

Condivisibile è quindi l’affermazione che la nuova formulazione dell’art 69 co 4^ c.p. può determinare in alcuni casi, come appunto quello dell’art 648 co 2^ c.p., una situazione per la quale un medesimo fatto “astratto” penalmente rilevante, rilevato in due diversi giudizi per casi concreti diversi ma sovrapponibili, avrebbe trattamenti sanzionatori estremamente diversi se in uno solo di essi è applicabile la recidiva reiterata specifica.

Infatti,nell’ipotesi in cui sia contestata tale recidiva, si giungerebbe ad una trattamento sanzionatorio che, nel minimo, parte da una pena quarantotto volte superiore (due anni -ex art 648 co 1 c.p.- in luogo di quindici giorni –ex art 648 co 2^ c.p. e art 23 c.p.-), disparità determinata unicamente dalla diversità del "tipo di autore" e con l’impossibilità per il giudice di valutare in concreto il reale disvalore del "fatto commesso".

A ciò consegue il vulnus sia del principio di offensività sia del principio di ragionevolezza sia diproporzionalità della pena, principio, quest’ultimo, che è anche funzionale alla rieducazione del condannato (presupposto della rieducazione è che la pena sia vissuta dal reo come equa ed adeguata al fatto). Non può non rilevarsi come il meccanismo sanzionatorio denunciato sembra farsì che la pena acquisti quasi il carattere di “esemplarità”, caratteristica incompatibile con i principico stituzionali di proporzionalità della pena, offensività del reato e con la finalità rieducativa della sanzione.

Sembra quasi che la filosofia sottesa a tale norma, ancorché non espressa nella stessa ed al di là delle intenzioni del legislatore, sia quella di ritenere il processo penale come il principale strumento con il quale si intende porre argine ad una serie di fenomeni criminali, frutto di notevoli mutamenti della società (non ultimo il fenomeno della immigrazione), laddove si rileva in situazioni di marginalità sociale una maggiore propensione a delinquere.

Ma se così fosse, il processo penale devierebbe dalla sua funzione e diventerebbe strumento di “politica sociale” e, di conseguenza, si correrebbe il rischio di trasformarlo in strumento di lotta di classe e/o politica.

Invece il processo penale, in ogni sua fase, non può che essere il luogo dove si accerta la responsabilità penale personale e dove si commina la pena “adeguata, proporzionata e rieducativa” secondo i principi espressi dalla Costituzione.

In ogni a caso, anche prescindendo dalle valutazioni da ultimo esposte, in virtù di quanto affermato prima, si può ritenere che la norma denunciata potrebbe porsi anche in contrasto con gli artt. 101, secondocomma, e 111, primo e secondo comma, Cost., stante l'impossibilità, per il giudice, “di adempiere, nel processo, all'obbligo di legge di adeguare la sanzione al caso concreto” e di “irrogare una sanzione che abbia finalità rieducativa”.

L’ordinanza del Tribunale di Genova, tuttavia, presenta un aspetto che potrebbe esporla al rischio di inammissibilità.

Infatti non sembra chiarito sino in fondo perché la questione proposta è “rilevante” ai fini della decisione.

La Corte Costituzionale, nelle sue decisioni, ha sempre evidenziato come la valutazione dell’ammissibilità si sofferma sia sulla corretta indicazione del quadro normativo di riferimento sia sulla rilevanza della questione (ai fini del giudizio che il rimettente dovrà assumere).

Invero, la Corte ha talora proceduto a declaratorie di irrilevanza motivate proprio dalla erronea individuazione delle norme da censurare,ed ha evidenziato come,nell'operare il controllo circa la rilevanza della questione sottopostale, si attiene, in linea generale, alle prospettazioni del giudice rimettente.

Inoltre, in vari casi, è stata oggetto di censura la carenza - assoluta o insuperabile - di descrizione della fattispecie oggetto del giudizio o il difetto riscontrato in ordine alla motivazione sulla rilevanza.

Riconducibili ai vizi che inficiano la richiesta del Giudice a quo sono anche le formulazioni delle questioni in maniera contraddittoria o dove si evidenziano inesattezze relativamente ad oggetti e parametri della questione.

Fatta tale premessa di carattere generale, punto debole della ordinanza del Tribunale di Genova potrebbe essere la circostanza che il Giudice non sembra aver compiutamente spiegato perché, in qual caso concreto, il fatto va qualificato ai sensi dell’art 648 comma 2^ c.p..

Prima di esporre i rilievi che alla ordinanza potrebbero essere formulati in sede di ammissibilità del giudizio di legittimità costituzionale è opportuno premettere che al fine della qualificazione del fatto ex art. 648 c. 2^ c.p. la S.C. ha affermato che in tema di ricettazione, ai fini della configurabilità dell'ipotesi attenuata, non rileva esclusivamente il valore della cosa ricettata, ma devono considerarsi anche tutti gli elementi previsti dall'art. 133 cod. pen., ivi compresa la capacità a delinquere dell'imputato(fra le altre Cass.sez. 6, Sentenza n. 7554 del 02/02/2011 Ud. -dep. 25/02/2011 - Rv. 249226).

Sul punto, l’ordinanza del 23.1.2014 il Giudice del Tribunale di Genova, nel qualificare il fatto-reato, dopo aver esposto le ragioni dell’irrilevante valore economico della cosa, non si sofferma sugli elementi indicati dall’art 133 c.p..

Infatti come si legge dalla motivazione, dopo essersi in precedenza soffermato sul valore della res,si afferma che il fatto è di “particolare tenuità” e la constatazione che l’imputato abbia già riportato condanne per reati analoghi non osta certo ad un tale inquadramento”.

Tale passaggio motivazionale appare in parte involuto in quanto, in realtà, un giudizio di particolare tenuità ex art 648 co 2^ c.p., nel caso di recidiva reiterata e specifica, avrebbe richiesto un passaggio motivazionale più analitico, con riferimento alle emergenze del caso concreto.

Inoltre, dalla lettura complessiva dell’ordinanza, il Giudice sembra esprimere un giudizio ex art 133 c.p., in altra parte del suo provvedimento, laddove afferma che la recidiva “non può essere “disapplicata” perché si tratta di una recidiva reiterata e specifica, significativa di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo il quale, all’evidenza, trae dal commercio illegale di merci contraffatte i propri mezzi di sostentamento”.

In parole più semplici, il Giudice, sembra cadere in contraddizione. Infatti, da una parte rileva la capacità a delinquere dell’imputato, evenienza che impedisce di disapplicare la recidiva, e, dall’altra,nel qualificare il fatto reato ex art 648 co 2^ c.p., afferma che tale capacità a delinquere non rileva al fine della qualificazione del fatto come “particolarmente tenue” evidenziando a tale ultimo fine solo il minimo valore del bene e non ,quindi, la capacità a delinquere.

Ove poi la motivazione va letta nel senso che la qualificazione ex art 648 co 2^ c.p. tiene conto, contrapponendoli e comparandoli i due aspetti diversi, ritenuti oggettivamente sussistenti, ovvero la capacità a delinquere e l’infimo valore della res, e fa prevalere quest’ultimo, sembra non rilevarsi adeguata motivazione.

Infatti, se il giudizio ex art. 133 c.p. in ordine alla pericolosità e capacità a delinquere del soggetto è ricompreso nella dizione “la constatazione che l’imputato abbia già riportato condanne per reati analoghi non osta certo ad un tale inquadramento” tale giudizio di non pericolosità appare non concretamente motivato (oltre che contraddire quanto affermato dallo stesso Giudice all’impossibilità di disapplicare la recidiva).

Forse si sarebbe potuto rendere più chiaro, oltre le ragioni per le quali il bene è di poco valore (e ciòè stato fatto), il perché si escludeva la capacità a delinquere nonostante la recidiva specifica reiterata.

Tale aspetto appare di rilievo in quanto, ove la qualificazione ex art 648 co 2^ c.p. sarà ritenuta frutto di un giudizio contraddittorio e non conforme ai principi della giurisprudenza di legittimità sopra riportatie, conseguentemente, risulterà non correttamente delineato il quadro normativo di riferimento, o sarà ritenuta contraddittoria la motivazione, potrebbe essere ritenuta insussistente la rilevanza della questione sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.

03/03/2014
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12/03/2018