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La crisi del sistema penitenziario italiano: appunti per un percorso di riforma

di Giovanni Torrente
assegnista di ricerca Univ. di Torino e coordinatore osservatorio condizioni detentive Antigone
La crisi del sistema penitenziario italiano: appunti per un percorso di riforma

La crisi del sistema dell'esecuzione penale, certificata a livello giurisprudenziale dall'ultima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Torreggiani e altri c. Italia) che ha condannato l'Italia per trattamenti inumani e degradanti[1], ha origini lontane nel tempo. La popolazione detenuta in Italia inizia infatti ad aumentare in maniera incontrollata a partire dai primi anni '90 del secolo scorso quando, a seguito dalla riforma costituzionale del 1992, di fatto è divenuto pressoché eccezionale l'utilizzo del principale strumento attraverso il quale, sino ad allora, era stato amministrato il sovraffollamento carcerario: i provvedimenti di amnistia e indulto.

Come rappresentato nel grafico sottostante (grafico n. 1), a partire dal 1991 la popolazione detenuta in Italia aumenta a ritmi sempre più incalzanti, con l'unica drastica eccezione del 2006, anno di approvazione dell'ultimo provvedimento di indulto. Durante questa corsa al rialzo, la cifra record di presenze nelle carceri verrà raggiunta nel novembre del 2010, quando il totale dei detenuti presenti sfiorerà le 70.000 unità. Contemporaneamente, in questi anni si amplia l'ambito di applicazione della cosiddetta “area penale esterna”, che comprende il totale dei soggetti sottoposti a quelle forme di esecuzione della pena alternative al carcere previste dall'ordinamento. Tale progressivo ampliamento dell'ambito di applicazione del carcere, e di quello delle misure alternative, mostra la dimensione del processo di espansione dell'area del controllo penale che raggiunge i suoi massimi livelli proprio negli anni 2000.

Come noto, tale processo di espansione non si giustifica con un parellelo incremento degli indici di delittuosità. Gli omicidi, in particolare, nel nostro paese sono in costante diminuzione da più di 20 anni, mentre reati quali rapine e furti hanno avuto nei medesimi anni un andamento piuttosto altalenante, senza che tuttavia via sia stato un incremento del fenomeno se paragonato ai primi anni '90. Piuttosto, le cause dell'aumento del numero di detenuti vanno individuate in precise, e note, scelte di politica criminale che, in questi ultimi 20 anni, hanno stravolto sia l'ambito del diritto penale sostanziale, sia quello dell'esecuzione penale, di fatto rendendo inapplicabili diversi istituti premiali previsti dall'Ordinamento Penitenziario.

La sentenza della CEDU, con l'imposizione del termine perentorio di un anno per porre rimedio alle condizioni strutturali del sistema penitenziario, ha posto il campo politico italiano, ma anche l'amministrazione penitenziaria, di fronte alla gravità del danno prodotto. Tutte le strategie di ridimensionamento del problema, e le giustificazioni legate alla necessità di affrontare le varie emergenze criminali del momento, sono di fatto crollate di fronte all'ineluttabilità della sentenza della Corte: le condizioni delle carceri italiane costituiscono un caso di tortura.

Alla luce di tale quadro generale, ci troviamo di fronte alla necessità di commentare l'impatto dei diversi interventi normativi che, occorre da subito affermarlo, si sono caratterizzati per un chiaro approccio emergenziale. Se, infatti, tutti gli anni '90 e i primi anni 2000 ci avevano abituati ad una coniugazione del termine emergenza con l'allarme criminalità, oggi, ed in particolare nell'ultimo anno e mezzo, l'emergenza è divenuta il sovraffollamento delle carceri e la spada di damocle della scadenza del 28 maggio 2014.

Da Grafiche Questione Giustizia

Come noto, il primo tentativo recente di porre un limite all'incremento della popolazione detenuta si deve alla L. 199/2010, nota come “Legge Alfano” che, di fronte ad una popolazione detenuta che si avvicinava alla soglia delle 70.000 presenze, tentò di utilizzare lo strumento della detenzione domiciliare come via di uscita anticipata dal carcere per i condannati ad una pena, anche residua, entro i 12 mesi. La popolazione detenuta, seppur lievemente, iniziò a scendere. Oggi, infatti, i beneficiari della norma – con un limite di pena, anche residua, nel frattempo elevato a 18 mesi - scarcerati sono oltre 13.000, con un chiaro effetto “tampone”, deflattivo sui livelli generali di carcerazione.

Sono tuttavia i provvedimenti più recenti ad aver dato nuova linfa al processo di riduzione dell'ambito di applicazione del carcere. Come si può osservare (tabella n. 1) la popolazione detenuta in Italia ha una diminuzione repentina a partire dal secondo semestre del 2013, in concomitanza con l'entrata in vigore del primo decreto “Cancellieri” del 1 luglio 2013. In nove mesi, infatti, il numero di detenuti è sceso di circa 6.000 unità, con un tasso di sovraffollamento che è passato dal 140% del giugno 2013 al 124% del marzo 2014.

Da Grafiche Questione Giustizia

L'impatto prodotto dalle norme entrate in vigore negli ultimi 2 anni si è manifestato soprattutto su due aspetti peculiari del sistema penitenziario italiano. Il primo (tabella n. 2) è il fenomeno degli ingressi dalla libertà. Come noto, il sistema italiano si caratterizza per un elevato numero di ingressi di persone dalla libertà. Tali ingressi, spesso destinati ad una breve permanenza o a una misura cautelare, sono lo specchio di quelle “detenzioni brevi” che costituiscono un vero e proprio stigma del sistema penitenziario italiano. In particolare, i dati mostrano come negli ultimi 20 anni il fenomeno abbia avuto un incremento anche a causa di un processo di sostituzione negli ingressi in carcere a seguito del quale una diminuzione degli ingressi di cittadini italiani è stata ampiamente compensata da un netto incremento dei cittadini stranieri. A partire dal 2010 abbiamo una netta inversione di rotta con il numero di ingressi dalla libertà che in circa 3 anni scende di oltre 25.000 unità.

Il secondo aspetto (tabella n. 3) è quello della custodia cautelare in carcere. I dati raccolti dal Consiglio d'Europa da diversi anni mostrano come l'Italia sia maglia nera relativamente all'eccessivo utilizzo di tale strumento. In questi ultimi anni la percentuale di detenuti non condannati a titolo definitivo è tuttavia costantemente diminuita. In particolare, se consideriamo che nel 2008 il tasso di condannati a titolo definitivo era inferiore al 50%, oggi tale percentuale è giunta al 61%. Intendiamoci, il numero di soggetti sottoposti a misura cautelare in carcere è ancora molto elevato. In particolare, ancora quasi una su cinque fra le persone detenute in Italia è in attesa di primo giudizio. Tuttavia, la drastica diminuzione degli ultimi cinque anni fa intuire un impatto positivo della normativa introdotta in materia di limitazione nell'utilizzo della custodia cautelare in carcere.

Da Grafiche Questione Giustizia

 

Da Grafiche Questione Giustizia

Ora, quanto realizzato in questi mesi, pur positivo, non appare sufficiente. Dal punto di vista numerico, la sensibile decrescita della popolazione detenuta degli ultimi mesi non è stata comunque in grado di ricondurre il sistema dell'esecuzione penale all'interno dell'ambito della legalità nei tempi fissati dalla Corte. Inoltre, occorre considerare come la natura emergenziale delle norme approvate determini una progressiva diminuzione della loro efficacia deflattiva. Emblematico, in tal senso, l'impatto dell'istituto della nuova detenzione domiciliare ex L. 199/2010 che, dopo aver visto un continuo aumento dei beneficiari nei primi due anni dall'approvazione, vede oggi una riduzione dell'ambito di applicazione. Altre misure, sono previste con una durata limitata nel tempo[2]. Appare chiaro, quindi, come soltanto un provvedimento di clemenza sarebbe stato in grado di produrre quella drastica riduzione dei numeri in grado di ricondurre il sistema all'interno dei parametri della legalità. Tuttavia, il Parlamento non appare oggi orientarsi in questa direzione e non si intravedono reali possibilità di approvazione di un'amnistia nei prossimi mesi.

Spostandosi dal piano numerico a quello più strettamente valutativo, è possibile proporre ulteriori riflessioni sul significato della strada intrapresa in questi mesi e sul possibile impatto dei provvedimenti attualmente in discussione in Parlamento. Il sistema italiano, con l'attuazione del doppio binario previsto a seguito dell'introduzione delle numerose misure alternative alla detenzione, si era in questi anni orientato verso un meccanismo che, con tutte le differenze del caso, ricorda il sistema della Probation anglosassone. In particolare, la possibilità di beneficiare della misura alternativa – e in particolare di quella più “qualificante” rappresentata dall'affidamento in prova ai servizi sociali – direttamente dallo stato di libertà, e attraverso la previsione dell'intervento degli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna nella programmazione del percorso trattamentale del condannato, costituivano il modello italiano di quel Welfare penalistico nell'ambito del quale si manifesta la visione “materna” dello Stato e la funzione risocializzativa della pena prevista dalla Costituzione. Oggi, i sistemi deflattivi attuati paiono invece riferirisi ad un modello più vicino al Parole anglosassone. In questo caso, il modello della detenzione domiciliare e della liberazione anticipata paiono infatti privilegiare quei soggetti che dispongono di, seppur minime, risorse esterne al carcere, o che comunque sono in grado di “farsi la galera”[3] senza incorrere in sanzioni disciplinari. Si tratta, in altre parole, di misure premiali non in grado di incidere sulla composizione sociale della popolazione detenuta. Oggi, così come prima dell'entrata in vigore dei vari pacchetti “svuota carceri”, la popolazione detenuta in Italia è riassumibile all'interno di tre categorie principali: migranti; tossicodipendenti; soggetti marginali, spesso affetti da varie forme di disagio psichico. Se le norme introdotte sono riuscite ad incidere – in misura minima – sulle prime due categorie, l'impatto sulla terza è stato pressoché irrilevante. È in quest'ottica che si inseriscono i provvedimenti sulle pene alternative e sulla messa alla prova al momento in discussione.

La relativa inefficacia del sistema deflattivo oggi attuato si può ravvisare dalla lettura di alcuni dati. Ancora oggi, il 25% della popolazione detenuta sconta una condanna inferiore ai tre anni di detenzione, di cui il 5% inferiore all'anno; limitatamente ai condannati stranieri, tali percentuali salgono rispettivamente al 37% e al 8%. Si tratta, quindi, di soggetti formalmente in grado di beneficiare delle misure alternative alla detenzione che, per vari motivi, finiscono con scontare la condanna in carcere. Spesso, inoltre, tale condanna è trascorsa per intero fra le mura della prigione. I dati relativi al residuo pena della popolazione detenuta mostrano come il 59% dei detenuti condannati abbia una pena residua inferiore ai tre anni e il 24% inferiore all'anno; anche in questo caso gli stranieri mostrano un quadro più radicale con il 74% con una condanna residua inferiore ai tre anni e il 35% inferiore all'anno.

Si tratta quindi di un universo di soggetti, autori di reati oggettivamente di minore gravità, che scontano la condanna in carcere, con il conseguente impatto negativo della carcerazione ampiamente dimostrato dalla letteratura specializzata. L'esclusione della possibilità del carcere per i reati di minore gravità appare l'unica strada realmente percorribile per superare l'inevitabile aleatorietà connessa al sistema delle misure alternative. Occorre quindi prospettare un ampio ventaglio di pene di carattere interdittivo, riparativo e restitutorio che deleghino all'ambito penitenziario solo quei comportamenti direttamente lesivi di diritti fondamentali altrui. Si tratta quindi di ricondurre la giustizia penale ad un rapporto più ragionevole fra bene giuridico violato, danno inflitto e pena comminata. Tale intervento, a nostro parere, richiederebbe un coraggio maggiore di quello che si evince dalla lettura dell'attuale Disegno di Legge in discussione in Parlamento[4].

Il sistema della messa alla prova può offrire un contributo nel senso indicato. È stato più volte ricordato come tale sistema si sia mostrato efficace nell'ambito della giustizia minorile. In questa sede riteniamo che il sistema, così come previsto dal legislatore, potrebbe essere integrato optando decisamente per quei sistemi di diversion efficacemente applicati in ambito anglosassone. Tali sistemi prevedono la sospensione del processo e la messa alla prova per quei soggetti autori di reato – anche per reati di maggiore gravità – affetti da dipendenze, o da altre patologie di natura fisica o psichica. La messa alla prova in questo caso è finalizzata all'inizio di un percorso di cura. Nel nostro sistema, come noto, l'affidamento in prova terapeutico rivolto a soggetti tossico o alcool-dipendenti funziona come misura alternativa che segue la condanna. Tale sistema, pur coinvolgendo un elevato numero di condannati, non è riuscito tuttavia ad incidere in maniera significativa sul tasso di carcerazione dei tossicodipendenti. In questo caso, si tratterebbe di anticipare la cura in un'ottica di riduzione del danno. Inoltre, la previsione del coinvolgimento nei percorsi di cura anche di soggetti affetti da forme di disagio psichico si porrebbe l'obiettivo di evitare l'ingresso nel circuito carcerario di soggetti che, seppur non compresi in nessuna statistica ufficiale, oggi affollano le prigioni italiane e per i quali la carcerazione si rivela spesso come un'esperienza devastante.

Tali integrazioni ai provvedimenti in discussione potrebbero produrre un impatto significativo nel medio periodo, sia nell'ottica della razionalizzazione dell'ambito dell'esecuzione penale, sia sul livello di equità della giustizia penale italiana. Esse tuttavia richiederebbero un mutamento culturale e di prospettiva in base al quale lo Stato accetti nuovamente di svolgere quel ruolo di soggetto attivo nella riduzione delle disuguaglianze sociali che in epoca recente pare aver abbandonato, si spera non in maniera irrimediabile.



[1]   È qui solo il caso di ricordare come la decisione della CEDU sia l'ultima di una serie iniziata qualche anno prima con la sentenza Sulejmanovic c. Italia del 2009 dalla quale sono in seguito scaturiti i numerosi ricorsi di detenuti reclusi nelle medesime condizioni che avevano giustificato in quel caso la condanna dell'Italia.

[2]   E' questo il caso della Liberazione Anticipate speciale prevista dall'art. 4 della L. 10/2014, là dove prevede che il beneficio abbia una durata di due anni.

[3]   L'espressione deriva dal gergo carcerario ed è utilizzata per individuare quei detenuti capaci di trascorrere il periodo di carcerazione senza troppe difficoltà, sia nei rapporti con i compagni di detenzione, sia con l'istituzione.

[4]   La prospettiva che si propone è quella del diritto penale minimo di ispirazione garantista. Sui principi di tale approccio penalistico si rimanda al volume, ancora oggi insuperato per completezza e chiarezza espositiva, di Luigi Ferrajoli, 1989, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari.

28/05/2014
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