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L’obbligo del vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà

di Roberto Riverso
consigliere della Corte di cassazione

Il tema dei vaccini presenta profili particolarmente problematici nell’ambito del rapporto di lavoro. Rispetto alla soluzione drastica del licenziamento come reazione al rifiuto del lavoratore di vaccinarsi, la sospensione del rapporto nell’ambito della sorveglianza sanitaria, strategicamente orientata alla conservazione del rapporto, all’allontanamento dal rischio e ad una più appropriata logica promozionale, può rappresentare la soluzione più congrua e razionale.

L’emergenza COVID

1. L’emergenza epidemiologica, con le sue varie fasi, mette in discussione i paradigmi regolatori del binomio, di per sé tragico, salute e lavoro.  

Il rapporto tra dovere e diritto, tra regole pubblicistiche e privatistiche, tra responsabilità pubbliche e private, tra individuale e collettivo, tra esterno e interno nel rischio lavorativo, tutto sembra mescolarsi in una continua rimessa in gioco di priorità e gerarchie, cui è difficile assicurare, col progredire della pandemia, una esaustiva e duratura sistemazione a livello giuridico. Un piano che sembra interessato da una interna mutazione con la rilettura di principi, norme, categorie alla luce della situazione emergenziale. 

2. L’arrivo del vaccino anti Covid, con la speranza dell’agognata liberazione, polarizza l’attenzione del giuslavorista sul profilo degli obblighi interni al rapporto di lavoro.

 

La duplice faccia del principio di solidarietà

3. Considerata la persistenza e aggressività del virus - nonostante “distanziamento sociale”, mascherine e gli altri accorgimenti fin qui messi in campo - sarebbe preferibile ovviamente un’adesione massiccia e spontanea al vaccino da parte di tutti i cittadini (lavoratori o meno); da ritenersi ad oggi, secondo la migliore scienza, come l’unica possibile via d’uscita dalla crisi pandemica. Occorrerebbe perciò, prima di ogni altra misura costrittiva, una vasta opera informativa (anche da parte dell’organizzazioni sindacali) che preluda ad una prova di maturità collettiva (soprattutto da parte del mondo del lavoro) nell’ottica del principio di solidarietà, la cui essenza va considerata, non tanto come risvolto negativo alla concezione individualistica della libertà, bensì come idea più alta che si fonda sulla comunità e si realizza con l’assunzione di una  responsabilità condivisa, in una dimensione di cambiamento e di crescita sociale[1].

Il tema dei vaccini è sempre stato un banco di prova delle potenzialità e della tenuta del principio di solidarietà (Corte cost. n. 27/1998 e n. 197/2012). Viene in rilievo la duplice faccia di un principio che si rivolge ad ogni individuo guardando all’interesse collettivo, ma impone alla collettività, e per essa allo Stato, di accordare protezione in ogni caso di sacrifico del diritto del singolo cittadino.   

E’ in nome del principio di solidarietà che la legge n. 210/1992 riconosce un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicazioni di tipo irreversibile, non solo – va evidenziato – quando si tratti di vaccinazioni obbligatorie, ma anche  (fin dalla sua prima stesura) per le complicazioni da vaccinazioni solo necessarie «per motivi di lavoro» (art. 1, comma 4: «persone che, per motivi di lavoro o per incarico del loro ufficio o per potere accedere ad uno Stato estero, si siano sottoposte a vaccinazioni che, pur non essendo obbligatorie, risultino necessarie»). 

In seguito, la stessa protezione è stata assicurata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 107/2012) «in un contesto di irrinunciabile solidarietà» in tutti i casi di vaccinazioni raccomandate dalle autorità sanitarie (es. previa campagna di sensibilizzazione) a prescindere dall’obbligatorietà del vaccino o dall’esistenza di motivi di lavoro. La Corte ha precisato che «sarebbe, infatti, irragionevole che la collettività possa, tramite gli organi competenti, imporre o anche solo sollecitare comportamenti diretti alla protezione della salute pubblica senza che essa poi non debba reciprocamente rispondere delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di coloro che si sono uniformati» (Corte cost. n. 107/2012).

Sul piano del principio di solidarietà non ha quindi rilievo alcuno che la vaccinazione sia obbligatoria o sia solo consigliata. 

4. La stessa distinzione non ha pregio, inoltre, neppure sul piano scientifico. In questi termini la Corte costituzionale si è espressa ripetutamente, anche di recente, osservando come «nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo» (Corte cost. n. 118/2020, v. anche n.  268/2017). 

I vaccini raccomandati non sono, dunque, meno importanti di quelli obbligatori. Ed il diverso regime giuridico non discende da una graduazione di importanza, e quindi da un maggiore o minore interesse pubblico alla loro diffusione a tutela della salute pubblica e privata, ma da un diverso atteggiamento strategico della sanità pubblica, che, a secondo dei contesti storici, ritiene di basare il raggiungimento degli obiettivi prefissati con la campagna vaccinale sull’informazione e sulla persuasione, piuttosto che sulle sanzioni di natura amministrativa o penale. Rimane il fatto che si tratta di vaccinazioni non meno necessarie, né più pericolose, di quelle obbligatorie, dalle quali si distinguono solo per ragioni storiche e non scientifiche[2].

5. Vero è che, come tempestivamente osservato, in questa fase, considerato il contingentamento in atto delle vaccinazioni, sembrerebbe più pressante ed urgente il dibattito sul diritto di ogni cittadino di vaccinarsi, sulle priorità nell’accesso al vaccino, sulle responsabilità pubbliche nella gestione dei piani sanitari[3]. Ma è anche vero che il tema della somministrazione del vaccino già solleva accese discussioni e conflitti; ed esso si pone in modo peculiare nell’ambito rapporto di lavoro rispetto alla generalità dei cittadini, richiedendo quindi una specifica trattazione. 

L’emergenza epidemiologica ha messo in luce l’indispensabilità ed al tempo stesso la rischiosità del lavoro: quello di cura di medici, infermieri; quello invisibile di assistenti e badanti a domicilio; ma anche di quello labour intensive e massificato degli operatori della distribuzione, della logistica o del delivery.

Abbiamo imparato a riconoscere, anche attraverso i volti, come i problemi della salute, dell’ambiente, del lavoro andrebbero riguardati insieme, in un'unica dimensione. Abbiamo visto come i luoghi, i tempi e i modi con cui il lavoro viene reso interagiscono con tutti gli altri diritti fondamentali; e come, senza la sicurezza di chi lavora, non si possa garantire nemmeno il diritto alla salute, di nessuno. La sicurezza sul lavoro emerge sempre più come condizione necessaria (ancorché insufficiente) per garantire la salute collettiva[4]

Non si può parlare quindi del prevalente diritto al vaccino senza parlare, prioritariamente, del lavoro che serve per renderlo effettivo. 

Lo vediamo in questi giorni. Occorre somministrare il vaccino, prima possibile, ad una cinquantina di milioni di italiani. E’ pressante la necessità di attrezzare i luoghi ed intensificare i ritmi. E vengono varati bandi straordinari: per reclutare medici, infermieri e assistenti che dovranno contribuire all’attuazione del piano vaccinale nelle 1.500 strutture distribuite su tutto il territorio nazionale. 

6. La questione della necessità del vaccino all’interno del rapporto di lavoro ha quindi vaste implicazioni etiche e giuridiche; e richiede al giurista uno sforzo ricostruttivo che, abbandonato ogni pregiudizio ideologico ed emotivo, passa attraverso le norme di legge che innervano il sistema di sicurezza. Norme che occorre mettere in fila, tenendo presente il principio di prevenzione che ha assunto un ruolo sempre più centrale non solo nella funzione economico sociale del contratto di lavoro ma anche in una dimensione collettiva, nella disciplina di ogni rapporto umano e sociale[5]

 

Il rischio professionale Covid 

7. In origine sta quindi il rischio. A cui corrisponde il principio di prevenzione, al quale tutto deve essere sottomesso nell’analisi di istituti che ad esso sono teleologicamente ispirati. 

La prima necessaria domanda - da cui tutto muove - riguarda gli obblighi del datore di lavoro. Cosa deve fare il datore una volta che è arrivato sulla scena il vaccino anti Covid? 

La risposta discende, anzitutto, dagli artt. 28 e 29  del TU n. 81/2008, che pongono come primo step in materia di sicurezza l’obbligo di individuare, ed aggiornare periodicamente, tutti i rischi, direttamente o indirettamente, ricollegabili all’attività lavorativa o all’ambiente di lavoro, secondo l’evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione; ed all’esito redigere il documento di valutazione dei rischi (DVR), in una prospettiva di neutralizzazione del pericolo, eliminando i rischi eliminabili e riducendo quelli ineliminabili.  

Per quanto attiene il contagio da coronavirus è fortemente dibattuto se il datore di lavoro sia obbligato, o meno, ad aggiornare il DVR sempre ed in ogni caso o soltanto in presenza di rischio specifico (ad es. per le attività sanitarie o i laboratori, o in caso di continuo contatto col pubblico)[6]. La articolata discussione, deve, a parere di chi scrive, concludersi in senso positivo, come pure riconosciuto dall’INAIL (v. Documento in materia dell’aprile 2020), dal momento che senza la predetta indagine e valutazione, che fotografi la reale organizzazione aziendale, non potrà mai appurarsi il livello di rischio Covid all’interno dei singoli specifici luoghi di lavoro. E pertanto non potrà neppure sapersi se un determinato contesto lavorativo possa comportare una moltiplicazione o un innalzamento del livello di esposizione rispetto al contagio di tipo sociale. 

D’altra parte, a prescindere dalla questione strettamente relativa al tema dell’aggiornamento della valutazione del rischio, lo stesso legislatore ha ricondotto il rischio Covid ad un rischio di natura professionale.  

E’ stato infatti emanato uno specifico ed obbligatorio apparato di protezione e di misure integrative delle prescrizioni in materia di sicurezza sul lavoro. Con i d.P.C.M. del 10 aprile e del 26 aprile 2020 sono stati resi obbligatori i protocolli di sicurezza concordati tra le parti sociali per la prosecuzione e la messa in sicurezza dell’attività produttive, proteggere i lavoratori e contenere la diffusione del contagio nel resto della popolazione. Il datore è stato quindi obbligato ad adottare una serie di costosi dispositivi e misure di protezione personale per fronteggiare il rischio. 

L’art. 42, co. 2, del d.l. n. 18/2020 Cura Italia (conv. dalla l. n. 27/2020), ha pure riconosciuto che l’infezione da coronavirus, quando avvenuta in «occasione di lavoro», costituisce un infortunio sul lavoro protetto dall’INAIL, per cui l’Istituto assicuratore è obbligato ad erogare le tipiche prestazioni dovute ai lavoratori protetti dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali[7].

Con l’art. 29-bis della legge 5 giugno 2020, n. 40, (di conversione, del d.l.n. 23) – intitolato Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19 – si è stabilito che «Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19» con il rispetto dei suddetti protocolli il datore adempie alle prescrizioni dell’art. 2087 c.c. ai fini della responsabilità civile e penale. 

8.  Sembra quindi evidente, alla luce delle norme richiamate, la correlazione tra lavoro e virus, e dunque la circolarità tra sicurezza sul lavoro e salute collettiva. Salute, ambiente, lavoro, emergono dall’epidemia fortemente correlati e collocati sullo stesso piano. In una logica di permeabilità reciproca tra azienda e territorio, tra esigenze produttive e diritto alla salute, tra esterno ed interno al rapporto di lavoro.  Il rischio sociale ubiquitario, esogeno, esterno al lavoro si è fatto rischio interno al lavoro, e da questo di nuovo proiettato all’esterno[8], anche in termini di maggior aggravamento. Ciò ancor più emerge in periodi di distanziamento, lockdown, confinamenti territoriali variamente modulati attraverso la gamma di differenti colorazioni di rischio: accorgimenti che però non si dimostrano a tutt’oggi sufficienti ad aggredire e sconfiggere un virus che persiste e si espande. 

9. In questa cornice, all’interno della quale il virus costituisce un fattore di rischio professionale, si colloca il tema del vaccino del quale il datore di lavoro non può disinteressarsi e di cui lo stesso datore  deve  prescrivere, per tempo, l’assunzione, quale necessaria misura di prevenzione e protezione per la tutela della salute e per l’accesso nei luoghi di lavoro. In questi termini occorre quindi rispondere alla essenziale domanda formulata all’inizio di questa analisi. 

 

Il vaccino e l’art. 2087 c.c.

10. Lo stesso doveroso modello di comportamento (organizzare la sicurezza tenendo conto del vaccino), deriva dalla naturale forza espansiva dell’art. 2087 c.c., che ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla realtà socio-economica sottostante; e «vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima e di adeguamento di essa al caso concreto» (Corte di cassazione, sentenza n. 5048/1988). 

11. Se il rischio da coronavirus è presente all’interno dell’ambiente di lavoro (quanto meno in termini di aggravamento del livello di esposizione sociale), anche l’art. 2087 c.c. obbliga il datore di lavoro a prescrivere la vaccinazione per tutti i lavoratori (ma anche per i terzi)[9] che si trovano nell’ambiente di lavoro. 

In mancanza, ove se ne disinteressasse, potrebbe essere ritenuto responsabile in sede civile e penale in caso di “infortunio”: non solo nei confronti dei propri dipendenti, ma anche di tutti i terzi, lavoratori (ad es. di imprese appaltatrici) o non lavoratori (ad es. i degenti di rsa o di un ospedale, i clienti di un ristorante o di un albergo) presenti nel luogo di lavoro.  

12. D’altra parte, occorre ricordare che se il datore di lavoro non adotti tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica del prestatore di lavoro, anche davanti al Covid, si esporrebbe al diritto del lavoratore di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa recare pregiudizio alla sua salute e sicurezza ( Cass. n. 6631/2015). Il che si riverbera evidentemente anche sulla regolare continuazione dell’attività aziendale.

13. Tutto ciò svela pure il contenuto illusorio della norma manifesto (l’art. 29-bis della legge 5 giugno 2020, n. 40) prima richiamata, frutto di compromesso, raggiunto a seguito dell’incombente pressione mediatica, condotta in prima persona da Confindustria (che reclamava addirittura il c.d. scudo penale)[10]. Una norma con valore di mera rassicurazione. Sicuramente inutile sul piano giuridico nella parte in cui garantisce l’irresponsabilità (già derivante dal TU e dallo stesso art. 2087 c.c. ivi richiamato) al datore che rispetti le regole di sicurezza dei protocolli, intesi come espressione della migliore scienza ed esperienza tecnica. E sicuramente incostituzionale (ai sensi degli artt. 32 e 41, 2 comma Cost.) laddove pretendesse, anche, di cristallizzare gli obblighi datoriali in materia di sicurezza all’osservanza di protocolli eventualmente superati dal progresso tecnico scientifico. Proprio come accade con il vaccino; di cui i menzionati protocolli dell’epoca ovviamente non recano traccia, e rispetto al quale quella norma non può quindi servire a nulla. Mentre riprende il suo corso il dinamismo cogente dell’art. 2087 c.c. 

 

Virus, vaccini e sorveglianza sanitaria

14. Va ora considerato che in materia di virus, vaccini e sorveglianza sanitaria  l’ordinamento della sicurezza parla chiaro agli artt. 266 e ss. del TU 81/2008. 

L’art. 266 TU contiene le norme di protezione che si applicano a tutte le attività lavorative nelle quali è presente il rischio di esposizione ad agente biologico; definito dall’art. 267 comma 1 lett. a) come qualsiasi microrganismo...che potrebbe procurare infezioni. 

Mentre all’art.279 il TU dispone che, su conforme parere del medico competente, il datore di lavoro sia obbligato a mettere a disposizione dei lavoratori, che non siano già immuni all'agente biologico, vaccini efficaci da somministrare a cura del medico competente. 

La norma conferma l’obbligatorietà del vaccino a fronte di un’agente biologico «presente nella lavorazione», tanto che si prevede pure l'allontanamento temporaneo del lavoratore, secondo le procedure dell'articolo 42 TU.

Come osserva R. Guariniello[11], l’art. 279 del TU è norma da leggere oramai alla luce della normativa Europea, già recepita in Italia, che classifica la SARSCoV-2 come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3. L’art. 268 del TU 81/2008 ripartisce, infatti, gli agenti biologici in quattro gruppi a seconda del rischio di infezione e classifica come agente biologico del gruppo 3: un agente che può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori; l'agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche[12].

Mentre il TU conferma il principio importante che rientri tra gli obblighi del datore garantire la sicurezza sul lavoro anche con la prescrizione e la somministrazione dei vaccini, va osservato come l’art. 279 non parli di vaccini la cui somministrazione sia obbligatoria per legge (o per la generalità dei cittadini) oppure solo facoltativa. Parla solo di vaccini efficaci. E qui si parla di un vaccino validato a livello mondiale, europeo e nazionale da tutte le autorità sanitarie competenti; le quali hanno promosso una campagna vaccinale senza precedenti prescrivendo la vaccinazione come sicura in quanto sottoposta a tutte le verifiche di sicurezza sul piano scientifico.

15. L’art. 279 cit. vale dunque in caso di presenza di agente biologico nella lavorazione. Fuori da quel perimetro ogni datore di lavoro – quando esista il rischio - deve lo stesso ispirare la propria condotta al principio di prevenzione secondo i dettami della scienza e della tecnica più evoluta.  Ai sensi dell’art. 2087 c.c. non può ignorare che, a fronte del rischio pandemico, vi siano ad oggi rimedi efficaci, costituiti proprio dai vaccini, di cui dovrà tener conto nella regolamentazione dell’apparato di sicurezza. Non si chiede ovviamente al datore di somministrare il vaccino che non potrebbe nemmeno avere a disposizione; bensì di prescriverne l’adozione anche attraverso il medico competente nell’ambito della sorveglianza sanitaria e di regolare l’organizzazione della sicurezza in base alla necessità della stessa vaccinazione.

 

Gli obblighi del lavoratore

16. Occorre prendere ora in considerazione il versante del comportamento del lavoratore. 

Va affermato, in premessa ed in generale, che il principio della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, posto a base dell’apparato prevenzionale, esplichi effetti, ampliandolo, anche sul versante degli obblighi del dipendente, tenuto a prestare la propria collaborazione per la realizzazione di tutte le misure di protezione necessarie secondo la scienza e la tecnica. 

Se il datore è obbligato ad adottare una misura, il lavoratore è del pari obbligato a prestare la propria collaborazione nell’esecuzione della misura. Non è ipotizzabile, senza mettere in crisi il sistema di sicurezza, l’esistenza di uno scarto tra obblighi del datore e obblighi del lavoratore, quando entrambi siano fondati in base alla legge.

Agli obblighi del datore corrispondono quelli del lavoratore, la cui regolamentazione si ritrova nell’art. 20 del TU 81/2008 che li ricomprende all’interno di un amplissimo catalogo. Tra l’altro, la norma prevede proprio l’obbligo di contribuire all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro. E per quanto qui rileva, soprattutto quello di prendersi cura della propria salute e di quelli dei colleghi e di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni. 

Occorre chiedersi, quindi, se il lavoratore dovrà prestare osservanza alle disposizioni in materia di sicurezza anche nell’ipotesi in cui la misura da adottare sia costituita da un vaccino (ai sensi dell’art. 279 cit. o dell’art.2087 c.c.). 

E’ questo il nodo più delicato della questione che si affronta e che mette in tensione diversi principi di rilevanza costituzionale.

Perché a questo proposito viene subito in gioco il tema della libertà di cura individuale e quello della riserva di legge prevista dall’art. 32 Cost. in materia di trattamenti sanitari obbligatori. Senza una legge specifica, si dice, non potrà mai affermarsi che qualcuno, neppure il lavoratore, possa essere obbligato all’assunzione del vaccino. Mentre d’altra parte si sostiene pure, anche in giurisprudenza, che le misure di sicurezza vadano attuate anche contro la volontà del lavoratore, ritenendosi ad es. doverosi gli accertamenti sulla salute dei lavoratori quando esistano gravi rischi di contagio per i terzi (Cass. n. 1170/1991). 

Ora, nessuno scarto di questo tipo è sostenibile nel caso dell’art.279 del TU perché qui la previsione normativa soddisfa certamente il principio della riserva di legge stabilito dall’art. 32 Cost. E d’altra parte, non avrebbe senso affermare che il lavoratore sia tenuto ad assumere solo i vaccini obbligatori per la generalità dei cittadini e non quelli specificamente prescritti nel contesto descritto dalla norma di legge.

17. Può sostenersi che lo stesso obbligo valga per il lavoratore, al di fuori dell’art. 279 cit., in forza del combinato disposto dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 20 del TU.?

In materia di vaccini anti Covid il punto è proprio questo: il lavoratore è già obbligato, secondo l’art. 20, a prendersi cura non soltanto della propria salute e sicurezza, ma anche di quella di tutti gli altri soggetti (colleghi o meno) presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni.  Ed un’omissione doverosa potrebbe essere considerata anche quella che, nel corso di una pandemia devastante, che ha già prodotto milioni di morti, attiene al vaccino efficace quando sussista il rischio biologico, quanto meno aggravato e qualificato.   

Sembrerebbe contraddittorio sostenere, da una parte, che, nell’ambito del rapporto di lavoro, l’ordinamento preveda il criterio della massima di sicurezza tecnologicamente fattibile per il datore, esteso fino alla prescrizione dei vaccini e, dall’altra parte, abbia lasciato libero il lavoratore di non vaccinarsi. Si tratterebbe di una affermazione incoerente che pare minare la forza cogente del sistema di sicurezza delineato dall’ordinamento; la cui portata, peraltro, va sempre estesa anche in forza del principio di eguaglianza, da cui discende che a parità di rischio occorre garantire parità di protezione nell’ambiente di lavoro, come ha affermato la Corte costituzionale in numerose occasioni. 

Certamente esiste il diritto della libertà di cura superabile solo dalla legge. Ma un’obiezione di questa natura depotenzia il vincolo che per il lavoratore deriva pur sempre dalla legge, dall’art. 20 del TU, e che lo obbliga all’osservanza di qualsiasi misura di sicurezza prevista dalla migliore scienza. 

Come già detto, nell’ambito del rapporto di lavoro il lavoratore deve essere tutelato, per legge, anche contro la sua volontà; e soprattutto vanno tutelati i colleghi ed i terzi dai rischi discendenti dalla sua volontà. Questo sembra il punto di caduta dinanzi alla drammatica realtà, da cui nessuno può prescindere.  

In questa diversa prospettiva il nodo che si discute sembrerebbe già risolto dalla legge in una chiave solidaristica: il lavoratore non può, in nome del proprio diritto alla libertà di cura, decidere di mettere a repentaglio l’incolumità altrui.  

In presenza del rischio individuato dalla legge (anche ai sensi dell’art. 2087 c.c.), nel luogo di lavoro non c’è libertà di cura che possa estendersi fino al punto di poter offendere la salute altrui (ai sensi dell’art. 20 del TU). Conta non tanto la salute dei singoli, quanto quella collettiva e, come abbiamo imparato in questi mesi, le ricadute sulla gestibilità complessiva del sistema sanitario, anche in rapporto alle possibilità di cura di altre patologie che colpiscono la generalità dei cittadini.  

Inoltre, alla stregua del principio di solidarietà, va considerato che nei luoghi di lavoro possono esservi persone, da considerare le più fragili, che non si vaccinano perché non possono vaccinarsi. Ed occorre tenere pure conto della presenza (ad es. in ospedali, case di riposo, ristoranti, alberghi, supermercati, mezzi di trasporto) di persone rispetto alle quali il datore non può prescrivere nessun vaccino. E che quindi possono anche non essersi vaccinati. 

Non rileva perciò il fatto che il vaccino sia obbligatorio o meno per la generalità dei cittadini. In ambito lavorativo, l’ordinamento obbliga il lavoratore a prendersi cura della salute altrui ed a considerare l’effetto potenzialmente nocivo della sua omissione: quando il rischio esista, il vaccino sia disponibile e sia efficace. 

I valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti le cure sanitarie, soprattutto la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall’art. 32 Cost.), ivi compresa quella di chi non può essere vaccinato (essendo fragile) o di chi, pur volendo, non ha potuto avere ancora accesso al vaccino.

Pertanto, una interpretazione di questo tipo, volta a rafforzare – già de iure condito -  gli obblighi rispetto al vaccino per entrambe le parti del rapporto di lavoro, parrebbe non censurabile sul piano della ragionevolezza per aver sacrificato la sola libertà di autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti. Mentre sul piano formale, il profilo della riserva di legge, prevista dall’art. 32 Cost., potrebbe ritenersi soddisfatto sulla base di un sistema normativo, quello del TU e dell’art. 2087 c.c., improntato alla doverosità, che non lascia spazio alcuno alla discrezionalità dei soggetti del rapporto (riconosciuta invece a chi non rientri nell’ambito del TU).

 

Misure cumulative e non alternative

17. Neppure può essere considerato dirimente osservare che il vaccino possa certamente essere una misura consigliata per ridurre il rischio dei contagi nel luogo di lavoro, ma non è l’unica e che altre possono essere e sono state adottate in questi mesi[13]

Tale osservazione non incide sul piano degli obblighi primari di cui si discute (mentre potrebbe incidere sul piano delle conseguenze della violazione). In ambito di lavoro l’adozione di una misura precauzionale – la cui efficacia sia rimessa alla collaborazione dei lavoratori -  non esclude l’adozione dell’altra. Almeno fino a quando non esistano altre misure oggettive e risolutive del rischio, il datore è obbligato ad adottarle tutte ed il lavoratore a prestare la propria cooperazione nell’adempimento di tutte. Non potendo scegliere di tralasciarne nessuna, solo perché ne esistano altre concorrenti.  

Non potrà perciò  sostenersi che al posto del vaccino, il datore o il lavoratore possano optare per il tampone e per le altre misure precauzionali (mascherine, lavaggio, distanziamento, misurazione temperature): trattandosi di misure che non sono risolutive; non escludono la presenza del rischio Covid; presentano margini di fallibilità e non escludono l’obbligo di adottare anche un’altra misura che, come il vaccino, possa contribuire ad eliminare o anche soltanto a ridurre ulteriormente il rischio di contagio, seconda la filosofia della prevenzione. 

L’ordinamento sotto il profilo prevenzionale non lascia spazio alla discrezionalità del datore, ma neanche del lavoratore. Tutte le misure necessarie per tutelare la sicurezza vanno adottate ed osservate senza nessuna discrezionalità. Questo è il senso dell’art. 2087 c.c. e della sua oramai ultra cinquantennale prassi applicativa.  

 

Le conseguenze della mancata vaccinazione

18. Il discorso sulle conseguenze derivanti dalla mancata assunzione del vaccino potrebbe apparire prematuro per la generalità dei lavoratori in considerazione del contingentamento delle vaccinazioni in atto. La questione potrebbe tuttavia già porsi per il personale sanitario e per tutti coloro ai quali, ad oggi, il vaccino sia stato offerto e che abbiano rifiutato l’assunzione[14].

In base alle precedenti considerazioni, la mancanza della vaccinazione richiesta dal datore di lavoro, a fronte del rischio, potrebbe in effetti rilevare in chiave di violazione degli obblighi legali incombenti sul lavoratore in base al rapporto di lavoro. Ciò sicuramente nel caso di rischio biologico specifico di cui all’art.279 TU (laboratori, ospedali, ambienti assimilabili).  Ma anche - ove si ritenga la riserva di legge ex art. 32 Cost. soddisfatta, in generale, dal disposto degli artt. 20 TU ed art. 2087 c.c. - in ogni altro caso di rischio qualificato o aggravato (non solo l’operatrice di rsa, ma anche  l’insegnante, la cassiera del supermercato, i lavoratori postali, i bancari, i baristi, camerieri, autisti, controllori, ecc.) . 

Tanto porterebbe a legittimare una reazione disciplinare che può comportare una sanzione di diversa gravità, a seconda della reale situazione di fatto e dei diversi contesti aziendali, in base al principio di proporzionalità. 

In tale ambito dovrà essere sempre apprezzata, in relazione alle giustificazioni del lavoratore, l’esistenza di valide ragioni impeditive della vaccinazione. Sicché, anzitutto, giammai potrà essere considerata esigibile una vaccinazione in presenza di controindicazioni personali fondate sul piano medico scientifico. 

Sotto il profilo delle ragioni datoriali, invece, dovrà essere valutata la gravità delle conseguenze prodotte sull’organizzazione aziendale e la loro rimediabilità con accorgimenti differenti, anche transitori. Rileva ad es. l’esistenza di tamponi o altri attendibili esami in senso negativo di data recente prossimi alla contestazione disciplinare. La possibilità di modelli organizzativi differenti di eliminazione del rischio. E soprattutto l’affidamento nel futuro corretto adempimento del lavoratore. 

Molto si è discusso e si continua a discutere in questi giorni della reazione all’omessa vaccinazione in termini di licenziamento del lavoratore, intesa come esclusiva e radicale misura irrogabile dal datore[15]. Mentre, al contrario, sembra più appropriato sul piano ordinamentale la sospensione del rapporto (intesa sia come misura cautelare, sia come sanzione finale).  Ed invero risulta difficilmente sostenibile, la configurazione, di primo acchito, del notevole inadempimento o addirittura della giusta causa di licenziamento, con riferimento ad un rapporto di lavoro che è stato comunque eseguito regolarmente per almeno un anno in piena emergenza pandemica.

La sospensione del rapporto riveste invece una funzione conservativa, impedisce che si concreti il rischio e potrebbe consentire al lavoratore di sanare con la vaccinazione la violazione addebitatagli. Si tratta di misura che risulta ispirata ad una più appropriata logica promozionale diretta a favorire la consapevolezza  sulla necessità della vaccinazione ed a rinsaldare l’affidamento nella ricerca scientifica e nei confronti di ciò che è consigliato dall’autorità sanitarie, che è sempre alla base del proposito di vaccinarsi. In questa prospettiva il licenziamento potrebbe essere irrogato solo come misura estrema, in seguito ad una perdurante inottemperanza nella somministrazione del vaccino; quando potrà dirsi conclamato il presupposto della lesione irreversibile della fiducia, inteso come affidamento nel corretto futuro adempimento del contratto. 

D’altra parte, stando alla stessa disciplina positiva, l’art. 279 del TU cit., in presenza di rischio biologico, prescrive anzitutto l’allontanamento temporaneo del lavoratore; e rimanda alle procedure dell’art. 42 le quali contemplano soltanto la conservazione del rapporto. Il datore di lavoro dovrà infatti attuare le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un'inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute (mansione anche inferiore, ma con la garanzia del reddito e della qualifica precedente). 

19. Laddove si sostenga invece che, in base al rapporto, il lavoratore non abbia obblighi legali di questo tipo, la mancanza di vaccinazione, benché imputabile ad una condotta (volontaria e lecita) del lavoratore, rileva, in ogni caso, oggettivamente: sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro e dell’inidoneità del lavoratore ad operare nell’ambiente in condizioni di sicurezza, anche sulla scorta del giudizio del medico competente.

Una situazione assimilabile alla perdita della idoneità sotto il profilo psico-fisico o della capacità lavorativa (che dà luogo alla tutela contro la malattia). Oppure a quella relativa alla perdita di titoli soggettivi abilitanti. O ancora a quella che rileva in ipotesi di incompatibilità ambientale.  

Com’è noto, in questi casi la fattispecie del licenziamento è stata riportata dalla giurisprudenza (ogni disputa sulla fattispecie è stata composta da Cass. Sez. U 7 agosto 1998 n. 7755; si veda pure Cass. Sez. L 11 novembre 2019 n. 29104), al giustificato motivo oggettivo di licenziamento in base alla trama - filtrata alla luce della dimensione personalistica del contratto di lavoro – della disciplina codicistica sull’impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463 e 1464 c.c.) nei contratti a prestazioni corrispettive; dove opera come causa di risoluzione del contratto quando l’impossibilità è totale (e definitiva), ma anche se parziale (e, secondo un’estensione interpretativa, temporanea) avuto riguardo all’interesse del creditore. 

20. Qui si delineerebbe proprio un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta temporanea (art. 1464 c.c.), rapportabile alla durata del rischio pandemico, che richiede una valutazione datoriale dell’interesse residuale. Occorre quindi un atto di recesso ed un apprezzamento concreto alla luce dei fatti e della concreta organizzazione aziendale. Rileva la durata della incompatibilità rispetto al lavoro, l’effettiva e dimostrabile assenza di alternative, l'eventuale rifiuto da parte del dipendente ad una valida ricollocazione. 

Non si porrà un problema di licenziamento in presenza di semplici difficoltà organizzative superabili attraverso accorgimenti idonei a neutralizzare il rischio. In nessun caso la mera mancanza della vaccinazione comporta di per sé, anche sul piano oggettivo, il recesso immediato dal rapporto, bensì conferisce al datore il potere di risolvere il contratto solo quando non è più rinvenibile un «apprezzabile interesse» all’adempimento parziale (o temporaneo) dell’altra parte[16]. Anche in questa prospettiva va considerato che l’articolo 15, comma 1, lett. m), del  TU 81 del 2008 annovera tra le misure generali di prevenzione nei luoghi di lavoro «l’allontanamento del lavoratore dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e ove possibile l’adibizione ad altra mansione». In senso analogo si esprimono l’art. 42 cit. del medesimo TU e l’articolo 4, comma 4, della legge n. 68 del 1999[17]. Pure in questa diversa chiave, quindi, il datore di lavoro dovrà sospendere il lavoratore con corresponsione della retribuzione e risolvere il rapporto solo dopo un determinato periodo di tempo congruo per la valutazione dell’interesse alla futura prestazione lavorativa e per consentire al lavoratore resipiscente di effettuare il vaccino.

21. In ogni caso va ribadito che, la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo contiene, per unanime interpretazione,  l’implicita regola del repechàge, atteso che il datore, fermo restando la sua libertà organizzativa, deve offrire al lavoratore idonee posizioni disponibili. Sotto questo aspetto lo smart working, e più in generale il lavoro a distanza, possono configurare una possibile alternativa di eliminazione del rischio per tutelare il lavoratore non vaccinato, ma anche la comunità dei lavoratori e dei terzi dal rischio di contagio. 

22. In conclusione, in mancanza della vaccinazione da parte del lavoratore il datore potrebbe lamentare la violazione di un obbligo contrattuale o, in ogni caso, la mancanza oggettiva della idoneità del lavoratore a svolgere il lavoro in condizioni di sicurezza (anche per il protrarsi della assenza in caso di sospensione). Il provvedimento adottabile dal datore, col concorso del medico competente, che in questa fase meglio si adatta alla situazione pare essere, in base all’ordinamento, la sospensione del lavoratore e la valutazione di ulteriore provvedimenti organizzativi conservativi del rapporto. 

I due ambiti (disciplinare ed oggettivo) sono sottoposti a regole diverse (anche procedurali) e vanno sempre mantenuti distinti, fermo restando che un’eventuale verifica in ambito processuale rimane legata ai motivi addotti a supporto del provvedimento datoriale.

23. Il tema del vaccino anti Covid pone sicuramente profili complessi ed irrisolti all’interno del rapporto di lavoro, con l’inedita lacerante questione della necessità di adeguare l’uomo al posto di lavoro e non più soltanto viceversa di ricercare un lavoro a misura d’uomo. Si tratta di questioni di difficile soluzione, anche guardando in prospettiva ai grandi principi regolatori della Costituzione con le sue idee di salute come interesse collettivo, oltre che diritto dei singoli, e di soggezione dell’iniziativa economica al rispetto della dignità e della salute del lavoratore.

Un intervento normativo chiarificatore potrà essere opportuno; soprattutto se si pone nel senso di accentuare la consapevolezza e la doverosità dell’adesione ad un vaccino la cui assunzione, allo stato, appare l’unica via per sperare di uscire da una di crisi epidemiologica devastante ed epocale e sperare in un ritorno ad una nuova, forse diversa, ma pur sempre desiderata, normalità.


 
[1] In questi termini v. A. Viscomi, Prefazione a S. Buoso, Il principio di prevenzione e sicurezza sul lavoro, 2020.

[2] Sono le giuste considerazioni espresse da G. Altieri, I rimedi giurisdizionali contro la "esitazione vaccinale", in Questione giustizia on line, https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-rimedi-giurisdizionali-contro-la-esitazione-vaccinale_10-12-2015.php

[3] N. Rossi, Il diritto di vaccinarsi. Criteri di priorità e ruolo del Parlamento, in Questione Giustizia on line, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-diritto-di-vaccinarsi-criteri-di-priorita-e-ruolo-del-parlamento.  Mentre è in corso il dibattito sulla obbligatorietà o meno della vaccinazione anticovid restano senza adeguata risposta altri, più cruciali e certamente più pressanti interrogativi: chi deciderà le priorità di accesso ai vaccini e con quali strumenti?  

[4] Cfr. P. Albi, Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore nella fase della pandemia, in Il Lavoro nella giurisprudenza, 2020, pp. 1117 e ss.

[5] A. Viscomi, Prefazione a S. Buoso, Il principio di prevenzione e sicurezza sul lavoro, 2020.

[6] Per una approfondita disamina, v. P. Albi, Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro nella fase della pandemia, cit., p. 1120.

[7] Più precisamente la norma stabilisce che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati».

[8] Sul principio di prevenzione oggi v. ampiamente, S. Buoso, Il principio di prevenzione e sicurezza sul lavoro e sicurezza sul lavoro, 2020.

[9] Cfr R. Guariniello, Sorveglianza sanitaria: vaccino obbligatorio per i lavoratori?, in DPL, 2021, n. 1.

[10] Su cui, anche con riferimento al c.d. piano Colao,  S. Giubboni, Rilancio con lo scudo ( a proposito della prima scheda di lavoro del piano Colao), in Menabò n. 129/2020.

[11] R. Guariniello, Sorveglianza sanitaria: vaccino obbligatorio per i lavoratori?, cit.

[12] V. Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, già recepita dagli artt. 4, D.L. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159 e 17, D.L. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art. 13-sexiesdecies del decreto Ristori (D.L. 28 ottobre 2020, N. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176).

[13] F. Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, in www.linkedin.com, 29 dicembre 2020.

[14] Ed in verità si è già posta nel caso di cronaca di alcuni dipendenti no-vax di una RSA di Bagno di Romagna.

[15] Sul tema, con posizioni molto differenziate, oltre al saggio di R. Guariniello, cit.; v. P. Ichino, Liberi di non vaccinarsi, ma non a rischio degli altri, in lavoce.info, 31 dicembre 2020; G. Falasca, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in www.open.online.it, 25 dicembre 2020; F. Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, in www.linkedin.com, 29 dicembre 2020.

[16] V. anche O. Mazzotta, in il Quotidiano giuridico.it, Vaccino anti-Covid: può il datore di lavoro imporlo e, in caso di rifiuto, può licenziare il lavoratore.

[17] Sulla materia v. la monografia di D. Casale, L’inidoneità psicofisica del lavoratore pubblico, 2013. 

18/01/2021
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