Magistratura democratica
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Il pragmatismo dei giuristi e la sacralità del processo

di Luca Semeraro
Consigliere Corte di cassazione
Un ulteriore contributo utile al confronto sul tema del processo a distanza

Riprendo la citazione[1] di Claude Lefort (La democrazia corre il più grande pericolo a volersi pensare come un sistema di istituzioni che, in qualche modo, è a nostra disposizione, o nel rifiutare di prendere in considerazione l’idea che deve farsi carico di un interminabile “interrogarsi”) per irrispettosamente aggiungere che «l’interminabile interrogarsi» deve concretizzarsi poi in soluzioni di fatto che consentano alle istituzioni di perseguire quel che è l’obiettivo principale della nostra democrazia: rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Senza un necessario pragmatismo, l’«interminabile interrogarsi» finirebbe per essere fine a sé stesso; ed il pragmatismo è quanto mai necessario di fronte all’emergenza Covid-19, che possiamo così descrivere.

Immaginate di vivere in una città in cui gli edifici siano tutti di 5 piani e che su ogni piano abitino due famiglie di 4 persone.

Dal 2 marzo, giorno in cui la Protezione Civile ha iniziato a pubblicare le statistiche, ad oggi 29 aprile in 683 palazzine intorno a voi sono tutti morti; vi affacciate al balcone e vi accorgete che le persone che abitano in altre 50 palazzine sono in terapia intensiva. Le persone che vivono in altre 493 palazzine sono ricoverate in ospedale. In 2090 palazzine, invece, vi sono le persone in isolamento domiciliare.

Purtroppo, questa durissima realtà è stata toccata con mano da tanti italiani.

Noi magistrati, che facciamo parte delle istituzioni democratiche, dobbiamo interrogarci soprattutto di come il sistema giustizia possa contribuire da un lato al mantenimento della vita economica e sociale del Paese e dall’altro a bloccare la diffusione della pandemia, senza che il sistema giustizia sia completamente paralizzato; lo stallo del sistema giustizia significa la negazione dei diritti.

Dobbiamo, oltre a ragionare e ad evidenziare i pericoli, prospettare soluzioni concrete per il futuro, per non farci cogliere nuovamente impreparati dall’emergenza.

Spero che i giuristi tutti, oltre ad «interrogarsi interminabilmente», abbiano anche un sano pragmatismo: altrimenti sarà solo un’occasione persa.

Un piccolo esempio: la rinnovazione del dibattimento per il mutamento della persona fisica del giudice. Discussioni infinite sulla tutela dell’oralità, sulla prova che si doveva formare davanti al giudice che avrebbe dovuto cogliere anche i più piccoli aneliti del testimone. Poi, in concreto, cosa è accaduto, nonostante le indicazioni delle Sezioni Unite con la sentenza Iannasso? Soluzioni organizzative? Pochissime. Cosa accadeva nei dibattimenti? Nulla. Le parti modificavano le liste testi? No. Il teste tornava e qualcuno gli faceva una domanda? Quasi mai, statisticamente il nulla. Tanto interrogarsi per nulla.

Un sano pragmatismo, unito alle riflessioni, ci servirà per individuare quando il mezzo informatico, finita l’emergenza, possa essere utile soprattutto alle parti ed ai soggetti del processo, senza che lo slogan, obiettivamente riuscito, Smaterializzare le carte, non le persone, diventi invece un rifiuto aprioristico; uno slogan però che equipara fasi processuali totalmente diverse tra loro.

Mi domando: ma chi ha proposto una totale smaterializzazione delle persone nel processo di primo grado?

Sull’uso del mezzo telematico per affrontare emergenza e post emergenza vi è stata una contrapposizione ideologica molto forte, spesso senza pragmatismo, sottovalutando che i palazzi di giustizia sono frequentati quotidianamente da migliaia di cittadini.

Se si fa una ricerca[2] su qualsiasi motore di ricerca, si nota[3] che nella discussione[4] sulla legittimità/opportunità del ricorso all’udienza telematica vi è stato un frequente ricorso alla sacralità[5] del processo[6] o della camera di consiglio[7], al sacro giudicare[8], all’aggettivo sacro.

Secondo il vocabolario della lingua italiana dell’Istituto della Enciclopedia Italiana[9], sacralità è un sostantivo femminile che significa «carattere sacro, condizione di ciò che è o si ritiene sacro: la sacralità di un rito, di un luogo».

Sacro è un aggettivo che in senso stretto significa «… ciò che è connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l'uomo si sente radicalmente inferiore subendone l'azione e restandone atterrito e insieme affascinato; in opposizione a profano, ciò che è sacro e separato, è altro, così come sono separati dalla comunità sia coloro che sono addetti a stabilire con esso un rapporto, sia i luoghi destinati ad atti con cui tale rapporto si stabilisce. Più in generale, che riguarda la divinità, la sua religione e i suoi misteri, e che per ciò stesso impone un particolare atteggiamento di riverenza e di venerazione…

Con significato estensivo e generico, degno di alta venerazione o del massimo rispetto…

Con valore più soggettivo, di cosa che pur non appartenendo alla sfera della religione e di ciò che comunemente si ritiene venerabile, è tuttavia riguardata con sentimento di venerazione e di alto rispetto»[10].

Se ci si augura che il processo susciti alto rispetto, la visione della sacralità del processo è una visione autoritaria, perché pone al centro del processo l’officiante e lo pone in una posizione superiore, in un immaginario altare; lo pone in una posizione distante e separata dalla società.

La cerimonia sacra impone la presenza dell’officiante che media tra il divino e l’uomo, o tra il «venerabile» e l’uomo: quell’uomo che si sente radicalmente inferiore, che ne subisce l’azione e resta atterrito ed insieme affascinato, per dirla con il vocabolario Treccani. L’officiante è colui che fa il rito, che detta le regole in una posizione di sovraordinazione.

Dunque, una visione del processo molto più vicina al modello inquisitorio; distante a mio avviso dal modello di processo che risulta dall’art. 111 della Costituzione e quanto al rapporto con la società estraneo alla visione di tutta o quasi la magistratura associata.

Non saprei quale figura geometrica possa oggi rappresentare il processo penale; al centro io vi vedo l’imputato con la sua imputazione ed il ruolo del giudicare mediato da meccanismi decisamente più umani: dal contraddittorio come metodo di acquisizione della prova, dalla conoscenza del fatto del giudice che si forma mediante il ruolo delle parti nel processo; dal diritto di difesa dell’imputato.

Anche rispetto al rito, il giudice non è il solo interprete autorizzato, come un sacerdote, perché anche il controllo sulla regolarità del processo e la formazione della giurisprudenza sul rito si forma «sentite le parti».

Dunque, il controllo sulla democraticità di una condanna o di una assoluzione si fonda proprio sul ruolo del giudice di garante dei diritti delle parti. Alla condanna o all’assoluzione si giunge, in fondo, proprio dopo il contributo delle parti.

Sono sicuro che anche gli autori citati concordino con questa visione del processo e del giudice nella società; probabilmente, la volontà di difendere il contatto diretto tra il giudice e le parti dalle insidie del processo telematico ha fatto adoperare parole, sacralità e sacro, non proprio coincidenti con valori comuni. Le parole, però, pesano e soprattutto restano.

 

 

 

[1] Da «Quel “rito” al quale non possiamo facilmente rinunciare», di Mariarosaria Guglielmi, segretario di Magistratura Democratica, già pubblicato il 22 aprile 2020 nella Rivista “Diritto di Difesa” e riprodotto da Questione Giustizia.

[2] Le citazioni che seguono hanno un che di casuale, legato al motore di ricerca ed alle mie letture … mi scuso con quelli che ho citato e con quelli che mancano.

 [3] Una osservazione analoga si rinviene in «Verso la telematizzazione del processo penale? Un approccio laico alla prospettiva dell’utilizzo degli strumenti informatici per la celebrazione delle udienze» in ilprocessotelematico.it di Paolo Grillo, da – Avvocato: «Per puntellare il “no” categorico alla possibilità di celebrare le udienze da remoto si è fatto così ricorso a tutto l’armamentario della retorica processuale: la sacralità dell’aula d’udienza, l’indispensabilità della presenza fisica quale unico baluardo difensivo effettivo, la violazione del diritto di difesa, dei principi dell’oralità, del contraddittorio e dell’immediatezza, e via di questo passo».

[4] «Il rischio è che il processo a distanza si trasformi per carenza di tipicità normativa e per prevedibili deviazioni applicative in un processo virtuale, un simulacro di processo, assecondando così quella pericolosa tendenza a considerare la sacralità delle forme del rito solo un ostacolo da rimuovere sul cammino caratterizzato dall’efficienza processuale»: così Oliviero Mazza, Distopia del processo a distanza, Archivio penale, 2020, n. 1.

«Il processo penale, dunque, da rito sacrale che vede l’uomo al centro, si trasforma in una realtà virtuale che vede le norme e la loro interpretazione asettica da parte di un giudice quale momento cruciale, affossando, dunque, definitivamente, quella tradizione umanistica che già da tempo ha cominciato a disertare le aule di giustizia»: così il documento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata del 24 Aprile 2020.

[5] Cfr. il documento tratto dal sito del Movimento Forense, Giustizia penale e coronavirus: una svolta telematica conservando le garanzie, del 16 aprile 2020: «Pur comprendendo come occorra prendere atto che il Covid 19 abbia costretto l’indagato/imputato ed il suo difensore ad allontanarsi l’uno dall’altro, impedendo, di fatto, quel confronto continuo e riservato sul quale si regge il rapporto fiduciario, oltre che la cadenza processuale, la sacralità dell’oralità del processo penale è un dato intoccabile».

[6] Cfr. l’articolo citato di Mariarosaria Guglielmi in cui la sacralità del processo è accostata al più grande «mistero», descritto da Salvatore Satta, della nostra vita sociale: quello per cui una persona, un uomo, può giudicare di un altro uomo.

Un riferimento alla sacralità del processo si rinviene in un articolo in www.studiolegalebordoni.it

[7] Alla «sacrale segretezza» della camera di consiglio fanno riferimento le osservazioni della Giunta UCPI 31 marzo 2020.

[8] Cfr. «25 Aprile e stato d’eccezione», in Questione Giustizia di Paolo Borgna: “Il processo è un’altra cosa. Processare e assolvere o condannare una persona è cosa sacra, quasi sovrumana. È l’esercizio di un diritto-dovere terribile. Ed è necessario che tutto questo sia fatto con un rito, che ogni giorno confermi la drammatica sacralità del giudicare.”

Sulla sacralità della celebrazione del processo, cfr. il 16 aprile 2020 di Nicola Galati in https://www.einaudiblog.it

[9] Ed. 1986

[10] il vocabolario della lingua italiana dell’Istituto della Enciclopedia Italiana

04/05/2020
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